Come smantellare l’impianto ideologico del capitale
di Federico Giusti
Un articolo di Riccardo Gallo, pubblicato qualche tempo fa sul sito del quotidiano di Confindustria, merita grande attenzione già dal titolo: Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale.
Da anni contestiamo la progressiva erosione del potere di acquisto salariale, le logiche perdenti della contrattazione di secondo livello in deroga ai contratti nazionali, la diffusa ricerca di sostegno statale (attraverso anche la riduzione del cuneo fiscale) alle imprese salvo poi scoprire che gli utili azionari e i profitti delle aziende determinano l’arricchimento crescente dei padroni senza i dovuti investimenti per aumentare la competitività delle imprese.
Forse dovremmo, una volta per tutte, smettere di utilizzare i termini padronali: la competitività è un’arma con la quale si sono indeboliti i poteri di acquisto e di contrattazione e gli stessi contratti nazionali. Urge quindi assumere linguaggi e punti di vista differenti, se non proprio antitetici, a quelli utilizzati dalla controparte. Questo dovrebbe rappresentare un salto di qualità per gli stessi sindacati.
In Italia accrescere la competitività delle imprese ha determinato delocalizzazioni, riduzione degli organici e del potere di acquisto salariale, aumento dei carichi di lavoro e della precarietà, l’indebolimento delle misure in materia di prevenzione, salute e sicurezza in azienda. Utilizzare concetti quali produttività, competitività e merito come valore aggiunto rappresenta non solo un errore ma anche una sorta di subalternità ideologica e politica a logiche da avversare, alle ideologie che hanno portato alla sconfitta del movimento operaio e sindacale.
Nel merito dell’articolo
Citiamo alcuni passaggi eloquente del pezzo sopra menzionato:
“Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti, quando invece a loro per primi dovrebbe convenire far crescere il capitale nella propria impresa. Oltretutto, gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni.
Dallo studio della Sapienza (ndr di Roma) emerge comunque che le società industriali godono in media di un’eccellente efficienza di gestione e un’ottima salute patrimoniale e finanziaria. Per esempio, negli ultimi quattro anni, la copertura delle scorte si è aggirata sempre intorno a 75-80 giorni, la dilazione a clienti intorno a 65 giorni, quella ottenuta dai fornitori intorno a 80 giorni. L’indice secco di liquidità è rimasto sempre pari a un ottimo 0,9 con un record di 0,93 nel 2020 dopo l’immissione nel sistema di una massa di moneta eccessiva, non impiegabile. Il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è rimasto sempre pari a un più che buono 0,7”.
Le valutazioni appena riportate fotografano un capitalismo finanziario attento alla distribuzione degli utili tra gli azionisti in un Paese nel quale la forbice sociale è sempre più larga ma si lancia anche un monito preciso all’industria italiana criticata per gli scarsi investimenti, per la tendenza a privilegiare l’aspetto speculativo sull’indebitamento destinato a processi innovativi e tecnologici.
Se si critica la classe imprenditoriale per una sorta di disaffezione al rischio di impresa non si prende atto che per quasi 40 anni la richiesta delle associazioni datoriali è stata quella di ricevere aiuti pubblici (anche attraverso la generosa concessione degli ammortizzatori sociali) senza offrire nulla in cambio – i tagli al cuneo fiscale permettono alle aziende, ma a carico dei contribuenti, di evitare aumenti salariali e contrattuali per adeguare i salari stessi al reale potere di acquisto.
Se poi si scopre la perdita di competitività del Paese derivante dai mancati investimenti datoriali, l’ammissione di colpa meriterebbe un drastico cambio delle politiche confindustriali di cui non vediamo, invece, traccia. Del resto sono stati proprio gli imprenditori a esigere la riduzione delle tasse e una presenza soft dello Stato – salvo poi scoprire che senza il generoso aiuto dello stesso non avrebbero superato né la crisi del 2008 né quella pandemica.
Il mercato del lavoro è arretrato, scrive Gallo, ma questi ritardi sono evidenti dai primi anni 90 e, nei fatti, si chiede allo Stato di creare nuove competenze per i lavoratori che dovrebbero essere, al contrario, determinate da una rinnovata gestione della produzione da parte aziendale.
Siamo quindi in presenza di una tardiva ammissione le cui cause sono sostanzialmente rimosse perché le soluzioni prospettate sono sempre le stesse, ossia disimpegnare economicamente e strategicamente le imprese dai loro compiti e caricare il pubblico di ogni onere. Dietro all’idea di cambiare gli assetti contrattuali si cela poi un altro obiettivo assai pericoloso, ovvero quello di porre fine a istituti contrattuali nazionali per lasciare alla contrattazione di secondo livello il compito di determinare gli importi delle buste paga – sapendo che questa scelta aumenterebbe le disuguaglianze economiche e sociali accrescendo, nel contempo, il potere datoriale.
Se si scrive che la soluzione necessaria è quella di “rivedere salari e stipendi” si arriva a due conclusioni fallimentari: da una parte collegare il salario ai profitti d’impresa, dall’altro abbattere ogni riferimento contrattuale. L’eventuale partecipazione dei lavoratori ai successi della gestione economica di fatto significa scaricare sugli stessi gli oneri di impresa salvo poi demandare allo Stato politiche attive in materia di lavoro a uso e consumo delle aziende.
venerdì, 17 gennaio 2025
In copertina: Foto di SnapwireSnaps da Pixabay