G7 o g7?
di Federico Giusti
I soggetti più “svantaggiati, donne e giovani, percepiscono un minore importo della decontribuzione: la percentuale di coloro che beneficiano di un esonero inferiore ai 100 euro è maggiore per queste categorie e diminuisce all’aumentare dell’agevolazione contributiva. Ciò è una naturale conseguenza di una retribuzione imponibile media più bassa: circa 300 euro in più per gli uomini e 150 euro in più per i lavoratori con età maggiore di 35 anni. In entrambi i casi, come per la totalità dei lavoratori per i quali si applica la decontribuzione in esame, tale beneficio migliora nel caso di rapporti di lavoro a tempo pieno e attivi per tutto il mese…”.
L’ISTAT certifica, nel suo Rapporto Annuale 31, che tra il 2019 e il 2023 “l’occupazione è cresciuta del 6,6% in Francia, del 3,8 in Spagna, del 2,3 in Italia e dell’1,5% in Germania (1). In tutte e quattro le maggiori economie europee il comparto dei servizi collettivi ha dato un contributo sostanziale alla crescita, riflettendo anche la comune tendenza al rafforzamento dell’assistenza sanitaria e sociale indotto dalla pandemia da COVID-19”. Per quanto riguarda la qualità del lavoro – prosegue sempre l’Istituto di Statistica:“la crescita dell’occupazione ha riguardato soprattutto gli occupati a tempo pieno e indeterminato”. L’analisi dei dati amministrativi mensili dell’INPS conferma il quadro. I dipendenti sono passati da 15,14 milioni a gennaio 2016 a 17,52 milioni a dicembre 2023. Il tetto massimo è stato toccato a giugno 2023 con 18,02 milioni (2).
Nei prossimi anni, però, per ogni due dipendenti in uscita dal mondo del lavoro ci sarà un solo occupato. Un problema rilevante derivante non solo dal calo demografico e dalle politiche immigratorie delle destre ma anche dalla perdita occupazionale che rappresenta un annoso problema per le economie fragili incapaci di investire in formazione, tecnologia e nuovi ambiti produttivi.
Stando ai dati ISTAT, in Italia tra i lavoratori (dipendenti e autonomi) il part-time rappresenta oltre il 18% della forza lavoro, in linea con la media europea ma decisamente maggiore di quanto avviene nelle economie più forti dei Paesi Ue. E il part-time ci ricorda che sono soprattutto le donne ad avere lavori con forti riduzioni orarie, rappresentando infatti il quadruplo rispetto agli uomini. Inoltre, occorre fare attenzione dato che i dati in nostro possesso si riferiscono solo al lavoro dipendente ove il part-time rappresenta un quarto della forza lavoro censita: nel lavoro dipendente a tempo indeterminato il part-time si aggira attorno al 22% (il 7% dei pubblici e il 26% dei privati, per altro in diminuzione negli ultimi anni). Assai accentuata, al contrario, è l’incidenza del tempo parziale nel lavoro dipendente privato a tempo determinato, dove nel 2023 si è attestato attorno al 46%. La crescita del ricorso al part-time ha raggiunto il suo apice prima della pandemia ma pochi anni dopo il decreto dignità, svuotato delle sue prerogative, è ripreso a crescere.
Il ricorso al tempo determinato e al part-time è tra i principali problemi del sistema produttivo italiano insieme alla difficoltà di ricollocare la forza lavoro rimasta disoccupata: parliamo di quanti presentano bassa scolarizzazione e scarsa professionalità. Qui entra in gioco il fallimento delle politiche in materia di orientamento e di formazione, ed è evidente che il depotenziamento delle strutture pubbliche ha giocato un ruolo assolutamente negativo.
A questo si aggiunga la tendenza italica al nanismo industriale, l’elevato numero di partite Iva (in aumento per l’insana flat tax deliberata dal Governo) e delle piccole aziende, che rappresentano un fattore di crisi rispetto al quale ci sono anche richiami della Ue. Stando ai dati ufficiali, la dimensione media delle imprese italiane è leggermente aumentata, ma il numero di imprese con meno di 15 dipendenti è ancora oggi assai elevato e pari al 92%. Le imprese con meno di 15 dipendenti rappresentavano, nel 2023, il 31,7% del totale della domanda lavoro, mentre le imprese con 100 e più dipendenti rappresentavano il 43,1%.
Va altresì sottolineato che numerose aziende manifatturiere sono alle prese con una crisi che porta alla contrazione della forza lavoro e a un crescente ricorso agli ammortizzatori sociali.
Quando si parla di pensioni e della loro presunta ‘insostenibilità’, si dimentica di analizzare che la tendenza a ritardare l’uscita dal lavoro non è solo un favore accordato allo Stato (per la Pubblica Amministrazione) e alle imprese, ma anche una necessità per ritardare assegni previdenziali infimi che saranno sempre più da ‘fame’ con l’applicazione del sistema contributivo a tutti gli anni lavorati. E qui entra in gioco la nefasta riforma del sistema previdenziale pensata per ridurre l’assegno previdenziale accrescendo, nel contempo, l’età lavorativa.
Un altro aspetto eloquente è dato dai licenziamenti economici, dalla chiusura dei siti produttivi – in parte dopo la lenta agonia degli ammortizzatori sociali. Nel 2023 i licenziamenti economici sono stati pari a 351 mila, senza dubbio inferiori rispetto al mezzo milione del periodo pre-pandemico (498 mila nel 2018 e nel 2019). Ma chi pensava che sul modello statunitense si fosse affermata la tendenza alle dimissioni volontarie forse dovrà ricredersi alla luce dei dati INPS: le dimissioni volontarie tra il 2022 e il 2023 sono calate dell’1% e di quasi il 2,5% nelle aziende con oltre 15 dipendenti. Chi oggi ha un lavoro, anche precario, prima di licenziarsi ci pensa non due ma tre volte – consapevole che sarà assai difficile trovare un’altra occupazione a meno che non si parli di forza lavoro specializzata le cui competenze sono richieste dal mercato.
La perdita di potere d’acquisto è, infine, evidente: basti pensare che la retribuzione media annua pro capite nel 2023 era pari a 25.789 euro, il 6,8% in più del 2019. Ma nel frattempo il costo della vita è cresciuto di circa il 18%. Da questo semplice dato si evince la persistenza dell’austerità salariale e di meccanismi iniqui che determinano aumenti contrattuali di gran lunga inferiori all’inflazione che, nei prossimi anni, riprenderà a crescere ben oltre le previsioni dei tecnici del Governo. E la perdita del potere di acquisto riguarda soprattutto le fasce economicamente deboli della popolazione privata, nel frattempo, anche del reddito di cittadinanza.
Siamo di fronte a dati incontrovertibili che mostrano una impietosa fotografia del Paese tra pensioni basse, salari da fame, contratti precari e la crescente criminalizzazione del conflitto tra capitale e lavoro e degli stessi conflittuali – come si evince dal DdL 1660 costruito ad arte per reprimere i soggetti sociali che saranno colpiti dalla crisi.
(1) Tre Paesi su quattro fanno altresì parte del G7, ossia Francia, Germania e Italia
(2) file:///C:/Users/rsu/Downloads/RAPPORTO%20ANNUALE_WEB.pdf
venerdì, 13 dicembre 2024
In copertina: Foto di Markus Winkler da Pixabay