Boccascena di Vania Pucci al Festival Teatro fra le generazioni
di Anna Maria Monteverdi
L’O-maggio, O-giugno al tecnoartista Giacomo Verde scomparso nel maggio 2020 da parte della Compagnia Giallo Mare Minimal Teatro per il Festival tra le generazioni (3-6 giugno) a Castel Fiorentino è stata l’occasione non solo per ricordare l’amico artista che per moltissimi anni ha collaborato con loro, ma anche per riproporre una sua invenzione teatrale mai andata in soffitta, che determinò un nuovo modo di fare teatro con la televisione alla fine degli anni Ottanta: il famoso Teleracconto. Proprio dal teleracconto la Compagnia dei Giallomare (ma anche la Piccionaia di Vicenza) prenderà spunto per creare molti spettacoli per bambini. Sono 13 i teleracconti creati con questa tecnica inaugurata da Giacomo Verde con H&G tv a Empoli, al Teatro dei Giallomare, un’invenzione fortunata che apriva nuove possibilità di narrazione e nuove strade per la tecnoteatralità.
Il Teleracconto nella sua forma originaria e nei suoi intenti mostrava come si può utilizzare creativamente la televisione e il video per fare teatro: sul teleracconto è stato scritto molto da parte di studiosi (qua la pagina di Carlo Presotto del Teatro La Piccionaia che ne raccoglie un certo numero), mass mediologi e artisti di teatro già dai primissimi anni Novanta quando, dopo la spinta produttiva della Compagnia, il teleracconto di Verde viene indagato e ospitato al Festival di Santarcangelo diretto, all’epoca, da Antonio Attisani. In tempi di ricorrenze, anticipiamo che Roberta Ferraresi ne parlerà all’interno del Catalogo del Festival in occasione dei 50 anni (+1 ma l’anno della pandemia, si sa, non conta).
Vania Pucci, a distanza di oltre 3 decenni dal debutto, riporta a nuova vita teatrale Boccascena (scritto e diretto da Renzo Boldrini); emozionando (e ri-emozionando quelli che lo avevano visto nella prima edizione, come il critico Mario Bianchi presente al Festival) un pubblico uscito da poco dalla ubriacatura delle versioni in streaming degli spettacoli, dalle visioni tramite piattaforme on line, dai racconti digitali e desideroso di tornare a rivedere il palco e gli attori dal vivo. Dopo la forzata spinta tecnologica che ha, comunque, dato vari benefici in termini di innovazione del teatro in generale, il racconto per corpo e immagini del teleracconto Boccascena assume oggi un valore non solo di memoria ma anche di monito o, se vogliamo, di suggerimento: tornare a un equilibrio parzialmente perduto, tra saperi tecnologici e artistico-teatrali, recuperare l’artigianalità, la fisicità del corpo e quell’inventiva del racconto attoriale che il video nei teleracconti non fa altro che amplificare. Una telecamera posta davanti all’attrice riprende, al contrario, la sua bocca in macro, e questa, scorporata dal resto del corpo (un po’ come in Non io di Beckett) diventa un primo piano nella tv posta al centro del palco (non più a tubo catodico evidentemente…); alla bocca dell’artista si aggiungono elementi che diventano la giocosa e colorata scenografia: capelli, piccoli oggetti, specchietti, occhiali, veline colorate e pellicole di acetati, usati per raccontare la storia di Moby Dick e della balena bianca, di Cappuccetto rosso, di Ulisse e Polifemo, di Biancaneve la principessa. Il trucco del travestimento anzi del mascheramento è svelato e questo rende il racconto, grazie anche all’abilità del narratore/narratrice di stare dentro e fuori del gioco teatrale, ancora più divertente. È incredibile come si possano raccontare mille cose solo ingigantendo dettagli della nostra vita quotidiana, piccoli oggetti che sono ma soprattutto che sembrano ‘altro’: il ruolo del narratore nel far navigare il piccolo spettatore nel mare dell’immaginazione è, ovviamente, centrale. Gli oggetti nei teleracconti sono chiamati a far parte della narrazione per similitudine morfologica, per somiglianza di forme, di colore ma soprattutto lo spettatore è chiamato a intervenire con l’immaginazione a coprire lo scarto tra quello che l’oggetto è nella realtà e quello che deve significare: il guscio di una noce ripreso in macro può sembrare, in Hansel e Gretel Tv, il volto della strega; le dita, alberi vecchi e nodosi; e in Boccascena, la bocca spalancata può diventare il mare profondo che inghiotte il Pecod di Moby Dick, il mento può assomigliare alla balena, e una velina con strass appare chiaramente come un mare luccicante.
A un livello superiore questo gioco di similitudini del teleracconto mostra (e Verde in più di un’occasione lo dichiara) un intento di smascheramento degli schemi e filtri culturali (e ideologici) che stanno dietro la costruzione delle immagini per la TV, che determina una specifica rappresentazione del reale. L’immagine televisiva non è l’analogon dell’oggetto bensì un suo sostituto parziale e incompleto.
Può non essere un caso che il Teleracconto sia nato nel 1989, l’anno del crollo del Muro di Berlino, e data cruciale, come ben sappiamo, per la fine dei regimi autoritari nell’Europa centrale e orientale. La filosofa e artista nippo-tedesca Hito Steyerl mette questi fatti storici in relazione con una presa di coscienza generale sulla deformazione della realtà da parte dei mass media: “Ricordate la rivolta rumena del 1989, quando i manifestanti invasero gli studi televisivi per fare la storia? In quel momento, le immagini cambiarono la loro funzione. Le trasmissioni dagli studi televisivi occupati divennero catalizzatori attivi di eventi, non registrazioni o documenti. Da allora è diventato chiaro che le immagini non sono rappresentazioni oggettive o soggettive di una condizione preesistente, o semplicemente apparenze infide. Sono piuttosto nodi di energia e materia che migrano attraverso diversi supporti, plasmando e influenzando persone, paesaggi, politiche e sistemi sociali. Hanno acquisito un’inquietante capacità di proliferare, trasformare e attivare. Intorno al 1989, le immagini televisive hanno iniziato a camminare attraverso gli schermi, fino alla realtà”.
Rimettere in scena il teleracconto oggi non è, quindi, un’operazione nostalgica anni Ottanta (a cui vari artisti ci hanno abituato, vedi Martone con Tango glaciale), casomai una affermazione decisa dell’estetica della bassa risoluzione, che è una tentazione fortissima in epoca di economie basate su algoritmi e in un’era delle tecnologie cognitive.
Il teatro imperfetto (ovvero il ‘teatro povero tecnologico’) con la sua ridotta spettacolarità, con la bassa risoluzione delle immagini quale ricercato fattore di fatiscenza e quale momento di strappo ideologico dentro la società classista delle immagini hi-tech, è infatti una delle alternative possibili al dilagare di un ambiente digitale onnicomprensivo: le immagini povere, scomode ma capaci di inserirsi invisibilmente, negli interstizi della rete, conservano ancora, in fondo – come afferma Hito Steyerl nel testo In difesa delle immagini povere – “il raro, l’ovvio e l’incredibile”: “L’immagine povera è una miniatura, un’idea errante, un’immagine itinerante distribuita gratuitamente, spremuta attraverso lenti collegamenti digitali, compressa, riprodotta, strappata, remixata. L’immagine povera è stata caricata, scaricata, condivisa, riformattata e rieditata. Trasforma la qualità in accessibilità… Si prende gioco delle promesse della tecnologia digitale”.
Questa difesa dell’immagine povera e del suo potenziale politico a cui la Steyerl ha dedicato più di dieci anni fa questo saggio seminale, sembra perfettamente coerente con la riproposta attuale dei teleracconti, (ma se vogliamo anche con la recente svolta ‘degrade’ del Teatro di Piazza d’Occasione), anzi ne sembra la premessa teorica: la condivisione e l’interconnettività globale, la capacità di creare una estesa partecipazione creativa e collettiva, qui e ora, diventa il nuovo valore per un’opera a prima vista obsoleta tecnologicamente e dotata di scarso potenziale estetico. Certo, la premessa generale è sempre che l’acquisizione e la comprensione degli strumenti tecnologici (un tempo il video analogico, oggi il digitale) siano necessari per un saper fare che muova in direzione di nuove possibilità creative (e nuove consapevolezze sociali). Il teleracconto si basa proprio sul concetto di ‘immagine povera’, degradata, ed è a sua volta una premessa per quella diffusione che oggi definiremo open source: il sistema base può essere, infatti, replicato e ricombinato all’infinito da chiunque e nelle modalità che uno preferisce. Non c’è copyright. L’unicità non era (già all’epoca) nelle intenzioni di Verde, una prerogativa e un indice di valore per l’arte ma, al contrario, lo era la circolazione delle immagini e delle opere, la loro ricontestualizzazione continua a favore della collettività, la loro dinamicità, il loro creare comunità. Insomma il ‘fare mondo’ per dirla con una espressione molto usata da Verde, a indicare l’intento etico che deve essere alla base di ogni azione artistica (artivistica).
venerdì, 11 giugno 2021
In copertina: Lab – Teleracconto.