Il mio amico Hitler
di Simona Maria Frigerio
A Teatri di Vita va in scena un’opera teatrale di Yukio Mishima targata 1968, l’anno in cui Pier Paolo Pasolini pubblicava (e poi dirigeva) Teorema.
Breve premessa. Prima di addentrarci nello spettacolo firmato da Andrea Adriatico, vorremmo spazzare via alcuni pregiudizi su uno tra i massimi scrittori del Novecento, spesso etichettato sbrigativamente come nazionalista (o di ‘destra’) e, per questo, inviso come lo fu, in Italia, il suo corrispettivo comunista (o di ‘sinistra’).
Mishima e Pasolini – figure superficialmente associate a termini generici (sempre più generici) come nazionalismo e comunismo – sono sempre stati, in realtà, icone imbarazzanti per gli stessi circoli ai quali sono stati ascritti. Entrambi omosessuali in tempi in cui non era accettabile esserlo – il primo in conflitto con se stesso soprattutto per ragioni familiari e per rispetto della tradizione, il secondo per affetto nei confronti della madre e un irrisolto rapporto con la Chiesa cattolica – sono forse gli ultimi romantici che ci ha regalato il Novecento. Artisti più che autori per l’ampiezza e portata dei loro interessi e delle opere prodotte, creatori di universi/mondi, filosofi e critici, cultori di una mistica del corpo e di se stessi che hanno saputo – consapevolmente o meno – portare fino alle estreme conseguenze: con un suicidio plateale come una rappresentazione Nō, il primo; e con un omicidio subito sul palcoscenico del dolore e della degradazione urbana come solamente l’autore de Il Vangelo secondo Matteo poteva eleggere a proprio teatro/mondo, crocifiggendo la propria immagine di intellettuale comunista con i chiodi dei suoi amati ragazzi di vita, il secondo.
Se l’italiano coltivava il corpo con il calcio, il giapponese lo faceva col kendō – entrambi calati nella propria cultura nazionale persino mentre addomesticavano quel corpo che era anch’esso – sebbene emaciato e consunto come in alcune tardive immagini di Pasolini – emblema della loro ‘presenza’ contraddittoria, urticante, ‘scabrosa’ in un mondo al quale si immolavano con la cruda empietà del credente.
Il loro sturm und drang identificava la natura non tanto, nell’uno, con la società contadina da L’albero degli zoccoli e, nell’altro, con un Giappone illuminato dall’Imperatore, quanto in entrambi con la critica feroce verso quelle ‘magnifiche sorti e progressive’ che, se per Pasolini, conducevano all’azzeramento di culture, lingue e patrimoni popolari in favore di un’omologazione consumistico-tecnicistica utile al capitalismo liberista che si andava sempre più definendo; per Mishima erano le sirene di un Occidente che, come a Versailles, non si accontentava di vincere in battaglia – volendo, allora, schiacciare il nemico con i debiti di guerra e, negli anni Cinquanta, imporre l’asservimento al nuovo dio dollaro e ai suoi costumi falsamente libertari.
E ancora, se Mishima – esteta – doveva distruggere la bellezza per liberare l’uomo, uccidere il Buddha per permettere al suo alter ego semplicemente di vivere, incendiare Il padiglione d’oro perché Mizoguchi si accendesse una sigaretta; Pasolini faceva altrettanto, in maniera grottesca, accanendosi sul simbolo par excellence della nostra società consumistica e permissiva, ossia la famiglia borghese – da Teorema a Porcile.
Ed entrambi, infine, trovarono nel teatro (nel romanzo o nel cinema) dialettico la forma drammaturgica grazie alla quale sviscerare la loro visione politica della vita (in tempi in cui si rivendicava che ogni atto – anche privato – fosse politica); ovvero mettendo in scena personaggi che erano rappresentati e interagivano solamente attraverso i conflitti che esistevano in loro o tra di loro.
Teorema e Il mio amico Hitler, partoriti lo stesso anno, da due martiri della modernità capitalistico-consumistica.
E ora veniamo allo spettacolo
Lo spettacolo in scena a Teatri di Vita si compone di un prologo e tre atti. Il prologo, in semioscurità, presenta – mentre il Fuhrer arringa la folla (quattro monitor trasmettono un filmato d’epoca) – i tre personaggi storici, espressioni di tre tesi o visioni del mondo: Gregor Straßer (il socialista vicino alle rivendicazioni dei sindacati dei lavoratori e ad ambienti marxisti), Ernst Röhm (il militarista/nazionalista con un côté romantico) e Gustav Krupp (il capitalista, padrone dell’acciaio, che vede nella guerra una fonte di guadagno e sarà iscritto nella lista dei criminali di guerra del Nazismo). La struttura scenografica rimanda immediatamente al razionalismo e alla successione di pieni e vuoti della Nuova Cancelleria dell’architetto Albert Speer (anche se anacronisticamente, dato che il lavoro teatrale è ambientato nei giorni precedenti la Notte dei lunghi coltelli – 30 giugno/1° luglio 1934 – mentre il palazzo fu completato a inizio ʻ39).
Dal buio emergono, frammentate, le posizioni dei tre interlocutori che, in piena luce, si confronteranno con Adolf Hitler – il sole nero del Reich – per indirizzarne o comprenderne le mosse future. Le geometrie della scenografia si specchiano nei movimenti che, nella loro nettezza, pongono i 3+1 contendenti sulla scacchiera della storia, ognuno nella posizione e nel ruolo che gli è imposto dal carattere e dagli ideali (Röhm e Straßer) o dagli scopi economici (Krupp).
Il secondo atto vede un importante cambio di scena: siamo in una piscina (come in un passato Caligola di Corrado D’Elia) e la maschia virilità del soldato Röhm si fa ammaliare dall’astuzia dell’ʻartista’ Hitler. Il successivo scontro tra le tesi di Röhm e quelle di Straßer (nazionalismo/internazionalismo, ma anche destra/sinistra, idealismo romantico/pragmatismo ideologico, eccetera) è la parte che convince meno – si trascina troppo a lungo con alcune ripetizioni che non aggiungono nulla al confronto, mentre il personaggio di Straßer non riesce a esprimere né la complessità del portato ideologico e strategico né la seduzione che l’attore – scelto forse appositamente giovane – potrebbe esercitare su Röhm.
Il terzo atto, al contrario, è folgorante. Il cerchio si chiude non solamente sull’analisi delle motivazioni politiche e psicologiche (interessante il riferimento al lettino psicoanalitico anche per altri motivi di cui scriveremo) che condussero Hitler a eliminare l’amico Röhm e il nemico Straßer, ma anche sull’analisi anticapitalistica propria del pensiero politico di Yukio Mishima.
È infatti questo il fulcro della rappresentazione con un apparato scenografico che si presta perfettamente a identificarsi con lo skyline di una metropoli capitalistica (tipo New York) e che fa da sfondo ai giochi in piscina (metafisicamente rimandando, forse, ai bagni di De Chirico), i quali possono indicare l’allegria cameratesca e spensierata dei giovani appartenenti alle truppe delle SA, che furono sciolte nella Notte dei lunghi coltelli e i cui capi furono uccisi con fredda efficienza dalle SS (in elegante divisa Hugo Boss – particolare che forse non tutti conoscono). Precisiamo, però, che nel testo (e nello spettacolo) questa visione non mette a tacere o ‘scusa’ le violenze gratuite, i pestaggi e le uccisioni contro cittadini inermi che avevano perpetrato per anni quegli stessi giovani ‘sbarazzini’ delle SA.
Ma torniamo a Hitler, steso sul lettino psicoanalitico di cui sopra, si fa analizzare da un Krupp/Freud al quale dovrà piegarsi (per raccogliergli, metaforicamente, la penna – quella stessa che era servita e servirà a firmare gli assegni indispensabili a coprire i debiti del Partito Nazionalsocialista e la campagna presidenziale di Hitler). Il capitale conosce bene i politici che finanzia e i cui scopi devono coincidere con i propri: conosce le debolezze degli uomini, ma altresì le ambizioni dei leader – ed entrambe sa piegare ai propri fini. Il dialogo che vede Hitler, all’inizio, emergere ‘illuminato’ dalla sua ambizione, pian piano si sposta di segno ingigantendo la figura di Krupp fino a identificare quest’ultimo con Satana – mentre una Eva/Hitler mangerà la mela, non come frutto della conoscenza bensì come oggetto di seduzione del male.
L’ultima frase, a chiusura, esplicita non solamente la scelta di Hitler di sacrificare destra e sinistra per un centro che si identifica con lui stesso – quale detentore del potere – ma soprattutto con il capitalismo, quale unico sistema economico attuabile e auspicabile (quello stesso unico ‘mondo possibile’ da Genova 2001 in avanti).
Sebbene anche Peter Weiss, nel lucido e tagliente L’Istruttoria, avesse puntato il dito contro gli interessi degli industriali tedeschi all’interno dei campi di concentramento e di sterminio (chi forgiava cannoni, vagoni ferroviari o forniva lo Zyklon B?), Yukio Mishima fa risalire la ragione stessa dell’ascesa di Hitler a una precisa classe socio-economica e al sistema sul quale si fonda – un sistema che denunciava, in Italia, Pasolini; un sistema ancora più alacremente all’opera dopo il 1989 e che continua a macinare miliardi grazie a guerre e allo sfruttamento di risorse ambientali e umane.
In sottofondo la musica accattivante dei Placebo e un certo gusto camp – in sintonia con le atmosfere della Repubblica di Weimar, prima dell’ascesa dei Nazionalsocialisti, immortalata da Bob Fosse in Cabaret.
Mishima/Pasolini: due artisti politici (nel senso più alto di critici della loro, ma anche della nostra, contemporaneità) da rileggere con attenzione.
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatri di Vita
via Emilia Ponente, 485 – Bologna
venerdì, 4 giugno giugno, ore 19.30
Il mio amico Hitler
di Yukio Mishima
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Antonio Anzilotti De Nitto, Francesco Baldi, Giovanni Cordì e Gianluca Enria
una produzione Teatri di Vita
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, MiBACT
Pezzo ripubblicato in occasione del numero SPECIALE dedicato a Pier Paolo Pasolini, sabato 5 marzo, 2022
In copertina: La Locandina dello spettacolo di Teatri di Vita, Il mio amico Hitler.