Riflessioni a margine
di Francesca Camponero
Era il 1990 quando la Biennale di Venezia aprì le porte anche alla danza istituendo, a seguito della Legge di Riforma della Biennale (D. Lgs. 29 gennaio 1998 n. 19), Biennale Danza. Come direttore del settore viene nominata, per il quadriennio 1999-2002, Carolyn Carlson, danzatrice e coreografa statunitense, che crea negli spazi della Fondazione Cini all’isola di San Giorgio, la prima Accademia di danza moderna e contemporanea in Italia. Io quell’anno danzavo ancora, e proprio quell’estate avevo preso parte con altre colleghe della Scala a un altro importantissimo Festival, il ROF (Rossini Opera Festival) a Pesaro, in cui fu allestito Viaggio a Reims di Luca Ronconi. Spettacolo grandioso, innovativo, straordinariamente interessante da tutti i punti di vista, di cui ebbi la fortuna di fare parte. Racconto questo per sottolineare in che periodo storico eravamo: quello di “Vieni così come sei, com’eri, come vorrei che fossi”, l’invito di Come as You Are, pronunciato da Kurt Cobain nel 1992, in cui gli artisti (quelli dai grandi nomi) presentavano le loro novità all’interno delle quali si leggeva ancora lo spirito vero del rinnovamento, malgrado si fosse nel decennio di crisi in cui la cosiddetta arte di protesta stava – a modo suo – lanciando un grido di aiuto a nome dei ceti più esposti – e quindi colpiti – dai cambiamenti sociali in corso.
Ronconi era ancora Ronconi, e la Carlson era ancora la Carlson, tanto è vero che nel quadriennio della sua direzione a Biennale Danza, forma un gruppo di danzatori provenienti da diversi Paesi e guidati da un gruppo di docenti composto dai maggiori interpreti della danza mondiale – quali Jorma Uotinen, Raffaella Giordano, Elsa Wolliaston, Jean Cristophe Paré e Dominique Mercy, che alla fine dall’estate del 1999 non si disperdono, anzi! Tutti coloro che erano impegnati in azioni coreografiche da lei dirette non restano a casa: i lavori usciti da Venezia cominciano a circolare nelle principali città italiane ed europee. Un progetto che prosegue negli anni successivi sotto la direzione di Frédéric Flamand (2003), Karole Armitage (2004) e Ismael Ivo – che viene chiamato a dirigere il settore danza della Biennale nel 2005.
Dal 2020 è Direttore di Biennale Danza Wayne McGregor, nominato dal precedente Consiglio di Amministrazione e confermato quest’anno per altri due anni dal nuovo Consiglio. Il coreografo e regista britannico, indiscusso talento della danza contemporanea, dirige lo Studio Wayne McGregor con creatività, allargando le frontiere dell’intelligenza del corpo attraverso la danza, il design, la tecnologia; ma quello che ci lascia un po’ perplessi sono le scelte che applica nella sua direzione artistica di Biennale. Scelte che riguardano sia l’assegnazione dei vari Leoni d’Oro e d’Argento sia la programmazione degli spettacoli.
In quest’ultima edizione quello che maggiormente si è riscontrato è la carenza della danza nelle varie performance. Affermando questo mi rifaccio a quello che si intende comunemente per danza, ovvero il susseguirsi di movimenti del corpo ritmato, modellato su un testo musicale appositamente scritto allo scopo. Ma se prendiamo in considerazione il concetto espresso da Cristina Caprioli (Leone d’Oro di questa edizione) in Flat Haze, che dice: «Camminare è già una forma di coreografia», certo dobbiamo rimettere tutto in discussione. Nel 2024 dobbiamo dunque spingere oltre il nostro concetto di danza? Forse è così, ma quello che si coglie è che il mondo d’oggi preferisce tornare indietro che andare avanti, scervellandosi in elucubrazioni mentali che girano vorticosamente su sé stesse alla ricerca di una verità primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.
Fatto sta che, nella maggior parte degli spettacoli visti, la parti danzate erano solo dei frammenti inseriti in contesti prevalentemente sovrastati da parola, video o addirittura fotografia – come nel caso di Find Your Eyes del britannico Benji Reid in scena alle Tese dell’Arsenale il 31 luglio e il 1° agosto. Un’audace esplorazione del campo visivo in un concept cinetico che trasforma il palcoscenico in uno studio fotografico. Va bene che Reid è un fotografo professionista, ma la sua performance si concentra esclusivamente sulle immagini create in diretta coi corpi di tre danzatori (supponiamo). Solo una breve esibizione di pole dance di una tra le ragazze ha proposto un corpo in movimento, per il resto a parlare sono le immagini (statiche) di braccia, ginocchia, volti che fanno smorfie, mimando dolore o gioia. Secondo l’artista tutto ciò è teso a raccontare una storia, la sua, quella del suo popolo e di sua madre, in particolare, ma la danza dov’è?
Un altro spettacolo molto atteso era Ruination di Ben Duke, in programma al Teatro Malibran sempre il 31 luglio e il 1° agosto. Duke da anni offre una visione contemporanea e originale dei classici. Dopo i suoi notevoli adattamenti di Shakespeare e Dickens, per Biennale ha scelto Medea, ideando azioni e relazioni dalla prospettiva del personaggio femminile che può riprendere il controllo del proprio racconto nella storia. Sicuramente maestro dell’ironia cambia il punto di vista della leggendaria coppia, offrendo alla donna accusata e presumibilmente colpevole la possibilità di parlare e di avere un giusto processo, mentre Jason (Giasone), nel tribunale degli Inferi al cospetto di Ade (personaggio che gira in tutù rosa senza mutande), è costretto ad ammettere atti di negligenza e orgoglio. Lo spettacolo si muove tra presente e flashback in cui si snocciola la tragedia di Euripide, ridotta – diciamocelo – a una telenovela. Bravissimi tutti i performer (Miguel Altunaga, Jean Daniel Broussé, Maya Carroll, Liam Francis, Anna-Kay Gayle, Hannah Shepherd-Hulford), che recitano, cantano, suonano, ma anche in questo caso: la danza dov’è?
Passiamo a De Humani corporis fabrica di Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor. La videoinstallazione è ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543 – che per prima concepì l’idea di un corpo-macchina – la quale mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Alla Sala delle Armi, all’interno di Biennale Arte, il pubblico si è ritrovato avvolto da immagini di sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello. I video mostrano anche anziani con malattie degenerative della cognizione in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio: in breve, una serie di immagini scioccanti di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al suo interno. L’installazione vorrebbe rappresentare la fragilità del nostro corpo e la sua voglia di resistere in ogni caso. Ma la danza cosa c’entra in tutto questo?
Per vedere la danza, quella buona, quella che ti fa credere che ancora esiste la preziosità di tale forma d’arte si è dovuto aspettare lo spettacolo finale della Compagnia di McGregor assieme ai ragazzi del Biennale College. Uno spettacolo di danza pura, in cui “tutti hanno cercato di esplorare tutto quello che può esprimere il corpo”, come ha spiegato il coreografo inglese in dialogo con Elisa Guzzo Vaccarino alla fine della performance. “Un lavoro sviluppato insieme ai ballerini: io li ho soltanto aiutati”, ha voluto anche precisare McGregor. E indubbiamente li ha aiutati bene, aggiungiamo noi, che finalmente abbiamo goduto di quello che ci si aspetta da Biennale Danza: la danza – appunto. Lo spettacolo dal titolo We Humans are Movement, in programma il 2 e 3 agosto, è stato eseguito nella Sala Grande del Palazzo del Cinema al Lido, un fatto inusuale che sicuramente ne ha esaltato la resa. Un’ora e un quarto di performance di grande dinamismo misto a un’ottima tecnica contemporanea. Se sulla qualità dei danzatori della Compagnia Wayne McGregor c’è poco di nuovo da evidenziare, senza dubbio un plauso va ai 16 giovani scelti per il workshop, tra cui anche 6 italiani di cui è giusto menzionare i nomi: Sofia Baglietto (Genova), Daniele Bracciale (Chieti), Simona Cristofani (Siena), Piera Gentile (Napoli), Elena Grimaldi (Aosta) e Francesco Polese (Como).
Per i nostalgici come me, da non perdere Iconoclasts – Donne che infrangono le regole, mostra dell’Archivio storico delle arti contemporanee allestita al Portego di Ca’ Giustinian (visitabile fino a fine anno). La mostra,a cura di Wayne McGregor in collaborazione con Elisa Guzzo Vaccarino e l’Archivio Storico, propone un excursus che copre oltre un secolo, dal 1903 al 2020. Tante le foto e i video dei grandi nomi della danza passati da Venezia quando ancora non esisteva Biennale Danza, ma la danza era sempre presente nel Festival Internazionale di Musica Contemporanea. Presenti, dalla pioniera Isadora Duncan alla stella dei cabaret parigini Josephine Baker, per poi continuare con Jia Ruskaja, futura fondatrice dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma; Agnes de Mille, nipote del celebre regista Cecil B. de Mille, con il neonato American Ballet Theatre (allora American National Ballet Theatre); e ancora, Bronislava Nijinska, sorella del mitico Vaslav Nijinskij. Non mancano naturalmente Merce Cunningham, Flora Cushman, co-direttrice della scuola Mudra di Maurice Bejart, Martha Graham, madre della modern dance statunitense, a cui è dedicata una sezione a parte. Furono sette dei suoi lavori a essere presentati a Venezia nel 1975, in occasione degli Incontri Internazionali della Danza promossi dall’UNESCO d’intesa con la Biennale di Venezia e il Teatro La Fenice. Un’altra sezione è dedicata a Pina Bausch, che fu protagonista con il suo Tanztheater Wuppertal del 33esimo Festival Internazionale del Teatro. Si arriva al 1999, anno in cui nasce la Biennale Danza, sotto la direzione della danzatrice e coreografa americana Carolyn Carlson, Leone d’Oro alla carriera per la Danza nel 2006. Dopo di lei, prenderanno la guida del Festival, la ballerina punk statunitense Karole Armitage nel 2004 e Marie Chouinard, danzatrice e coreografa canadese, dal 2017 al 2020. Tutte direttrici che hanno invitato tantissime interpreti e autrici dell’arte coreografica. In breve, altri tempi, che noi ‘nostalgici’ non ci vergogniamo di rimpiangere.
venerdì, 9 agosto 2024
In copertina: Find Your Eyes at Manchester International Festival 2023, Benji Reid, Slate Hemedi (c) Oluwatosin Daniju