Il Presidente dell’Associazione Diritti alla Follia spiega la Proposta di Legge di iniziativa popolare depositata in Cassazione
di Simona Maria Frigerio
Da circa un anno ci occupiamo dei diritti dei senza diritti, ossia di quelle persone considerate dalla Legge incapaci di intendere e volere o disabili psichici e/o sociali, i quali sono affidati a un Amministratore di Sostegno e a un Giudice tutelare. La Legge che istituiva l’AdS, n. 6 del 9 gennaio 2004, siamo certi nascesse con le migliori intenzioni. Aiutare, preservare, accudire, sostenere. La figura dell’amministratore era essenzialmente intesa come quella di un parente prossimo che, coadiuvato da un Giudice tutelare, operasse alcune scelte (non sempre e non tutte) perché la persona disabile, o affetta da Alzheimer, demenza senile o altra patologia invalidante soprattutto a livello cognitivo, fosse sostenuta nel rispetto della sua dignità e volontà – senza magari intaccarne inopinatamente e prima del tempo il patrimonio.
Negli anni, però, qualcosa è cambiato. Sempre più persone, anche in grado di intendere e volere, sono affidate ad AdS, spesso estranei, avvocati o commercialisti, in attività o in pensione, che in cambio di un rimborso delle spese e, in taluni casi, “un equo indennizzo stabilito dal giudice tutelare in relazione al tipo di attività prestata”, si sono trasformati in ‘professionisti della vita altrui’ – in alcuni casi, alienando interi patrimoni a favore di Case di cura private, e comunque non versando il minimo contributo erariale anche quando l’indennizzo (a fronte, magari, di 40 o 50 assistiti) tocca le decine di migliaia di euro.
A parte ciò, alcuni AdS (non tutti e non sempre), col tempo, hanno cominciato a pensare di poter decidere della vita del beneficiario, senza preoccuparsi della sua volontà, sotto ogni aspetto – obbligandolo magari a un ricovero in RSA quando il beneficiario avrebbe preferito rimanere a casa propria. Per non dire nulla di quando un AdS si arroga il diritto di trattenere il beneficiario in una Casa famiglia per pazienti psichiatrici o di sostenere una medicalizzazione forzata, aggirando persino alcuni dettami della cosiddetta Legge Basaglia (il cui reale estensore fu lo psichiatra e politico democristiano Bruno Orsini) e, soprattutto, gettando alle ortiche il suo lascito umano e scientifico.
Per questa ragione abbiamo contattato l’avvocato Michele Capano, partendo dal caso di Marta Garofalo Spagnolo, di cui abbiamo già scritto (1). La Corte di Appello di Lecce ha recentemente confermato le condanne contro l’avvocata Gabriella Cassano, il suo compagno Fabio Degli Angeli, Cosimo Visconti e Cosimo Filieri per sequestro di persona, circonvenzione di incapace, abbandono di incapace e sottrazione di persona incapace.
La nostra prima domanda è, quindi, quali possibilità restano a queste persone che si sono battute perché Marta uscisse dalla Casa famiglia (dopo circa dieci anni!) e ricominciasse a vivere in mezzo a noi, come ognuno di noi – con i propri alti e bassi, con mancanze e difetti, con le frustrazioni e le gioie di una esistenza ‘liberata’?
Michele Capano: «La Corte di Appello di Lecce si è presa 90 giorni dalla lettura del dispositivo per il deposito delle motivazioni. Lette le motivazioni il primo passo, in autunno, sarà il ricorso in Cassazione. Altrettanto sicuramente noi pensiamo che ci siano degli elementi di contrasto tra gli obblighi che l’Italia deve adempiere sia in rapporto alla sua adesione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, che è presidiata dalla Cedu (2), sia in rapporto alla Convenzione ONU per i Diritti fondamentali delle persone con disabilità. Questi sono elementi che valorizzeremo di fronte alla Cassazione e, se fossero accolti favorevolmente dalla Suprema Corte, non ci fermeremo lì».
Il 18 aprile 2024 l’associazione Diritti alla Follia ha depositato presso la Corte di Cassazione una Proposta di Legge di iniziativa popolare per l’abolizione dell’interdizione e dell’inabilitazione e per la riforma dell’amministrazione di sostegno. Interdizione e inabilitazione: può spiegare a un profano la differenza?
M. C.: «In teoria l’interdizione corrisponde alla privazione totale della capacità di agire in capo all’interdetto. Quindi, la persona che viene messa sotto tutela attraverso l’interdizione è privata pressoché totalmente della possibilità di prendere qualunque decisione su se stessa: è quella che viene definita, dal punto di vista giuridico, incapacità di agire. Viceversa, nell’amministrazione di sostegno noi abbiamo una normativa che prevederebbe che residuino in capo a quello che definiamo beneficiario una serie di possibilità di scelta autonoma. Ossia, una parziale capacità di agire. Inoltre, nel caso dell’amministrazione di sostegno, le dimensioni della residua capacità di agire dovrebbero essere valutate caso per caso dal Giudice e, quindi, il Decreto che stabilisce l’amministrazione di sostegno – e attribuisce l’Amministratore di Sostegno al beneficiario – dovrebbe fissare quali cose il beneficiario potrà fare autonomamente e quali con l’assistenza dell’AdS, o quali cose quest’ultimo potrà fare ‘sostituendosi al beneficiario’. Questo è esattamente il punto giuridico che noi riteniamo di sollevare attraverso la Proposta di legge, che consentirebbe l’allineamento della legislazione italiana agli obblighi internazionali che derivano al nostro Paese da alcune pattuizioni internazionali alle quali abbiamo aderito. Fin qui la differenza in teoria. Perché, nella pratica, pur essendo l’amministrazione di sostegno da un punto di vista procedurale più ‘easy’ dell’interdizione, in quanto viene decisa dal solo Giudice tutelare e non da tre giudici – come nel caso dell’interdizione – e il procedimento è molto più snello proprio perché si tratta di una limitazione più ‘dolce’ della capacità di agire; nella realtà, noi abbiamo dei Decreti di nomina di Amministratore di Sostegno che non differiscono in nulla dalle sentenze di interdizione. Ovvero il beneficiario dell’amministrazione di sostegno non può fare niente, né stabilire dove o con chi vivere, né con chi può comunicare, né se assumere o meno un farmaco. Quindi, sono decreti che non differiscono dalle sentenze di interdizione. Secondo noi questa è una soluzione tipicamente all’italiana – in pratica, usiamo un procedimento più snello perché non dovremmo stabilire quello che stabiliremmo con l’interdizione ma, in realtà, ci troviamo di fronte a una ‘truffa’, ossia una interdizione ottenuta molto più facilmente di come si sarebbe ottenuta in passato. Gli effetti pratici per la persona non cambiano e, oggi, tale situazione riguarda centinaia di migliaia di persone».
L’Amministratore di Sostegno può, come ha dimostrato il caso di Marta Garofalo Spagnolo, effettivamente costringere una persona a sottoporsi a terapie farmacologiche e a vivere in una Casa famiglia per pazienti psichiatrici. Ma il ricovero coatto non dovrebbe durare solo 7 giorni?
M. C.: «Quando parlavo di ‘truffa’ mi riferivo esattamente a questo sistema che, tra l’altro, è già stato giudicato dalla Corte europea quando si è occupata del famoso caso del professor Gilardi (3); il quale, contro la propria volontà, una volta che era stato sottoposto all’amministrazione di sostegno, era stato rinchiuso in una RSA. La Corte disse all’Italia nella propria sentenza a riguardo che il nostro Paese, per l’internamento coatto, ha il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Quello è lo strumento: di sette giorni, su proposta di due medici, con l’Ordinanza del Sindaco e il Decreto del Giudice tutelare. Se poi si vuole ricoverare il paziente per altri sette giorni in modo coatto si deve ripetere la procedura daccapo. In pratica, non è che una volta stabilita l’amministrazione di sostegno, si dà a una figura altra il potere di consentire il ricovero – al posto del beneficiario – risolvendo definitivamente il problema con un Trattamento Sanitario Obbligatorio che, da sette giorni, può diventare di sette come di diciassette anni! Ma questo è esattamente quello che accade. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha precisato che, oggi, l’amministrazione di sostegno e, da sempre, l’interdizione consentono l’aggiramento della disciplina del Trattamento Sanitario Obbligatorio. Purtroppo la risposta dell’Italia è che non c’è bisogno di due medici, del giudice tutelare, del sindaco o di altri, perché se noi abbiamo una persona – che è l’Amministratore di Sostegno – la quale si può sostituire, circa il consenso, al beneficiario, allora non si discute di Trattamento Sanitario Obbligatorio bensì di trattamento volontario. Ovviamente la volontà non è del diretto interessato, ma questo ‘aggiramento’ diciamo che non crea problemi alla giustizia italiana».
Ai tempi di Basaglia, il suo team mise in discussione anche l’idea stessa di obbligare i pazienti ad assumere psicofarmaci, in quanto costrizione né più né meno di una camicia di forza o di un letto di contenzione. La psichiatria attuale verso quali direzioni si è incamminata?
M. C.: «Nella direzione della coercizione. La psichiatria italiana vive di coercizione. Se togliamo i pazienti che sono forzati ad assumere gli psicofarmaci dal totale dei pazienti, noi avremo il 5% degli utenti della psichiatria attuale. Quali sono gli strumenti attraverso i quali centinaia di migliaia di persone in Italia assumono farmaci non volendoli assumere? L’interdizione, l’inabilitazione e il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Come funzione quest’ultimo? Io obbligo il paziente, per sette giorni, a prendere i farmaci e, al termine del periodo, lo guardo e gli chiedo cosa vuol fare: passare altri sette giorni d’inferno all’interno di un reparto in cui è internato, senza poter comunicare né uscire; oppure mettere la firma per andare in una struttura per almeno sei mesi? Nella stragrande maggioranza dei casi si firma. Prima di suicidarsi, Vitaliano Trevisan – importante autore, drammaturgo e regista teatrale – scrisse un articolo su Repubblica (4) descrivendo il suo trattamento sanitario ‘volontario’, che di volontario non aveva nulla! In parole semplici, ci si trova di fronte a un ricatto, alla ‘pistola puntata’ sulla scrivania dove avviene il colloquio tra lo psichiatra e il paziente. Avendo a che fare, come Associazione, con tanti psichiatri ci rendiamo conto che non esistono avvisi contrari; cioè si contano sulla punta delle dita di una mano coloro che non si trovano a proprio agio all’interno di questo sistema basato sulla coercizione. E nessuno ha intenzione di cambiarlo perché l’aspetto coercitivo è anche quello che consente agli psichiatri di lavorare meno. Pensiamoci: se non si può obbligare una persona a fare qualcosa ma si deve parlarle, convincerla, dandole ‘potere’, è molto più faticoso. Migliaia di persone, oggi, sono costrette a una iniezione mensile di psicofarmaci a cosiddetto rilascio lento che serve, appunto, per quelle persone, che i farmaci non li vogliono prendere, o gli psichiatri non sono sicuri che li prendano. L’iniezione mensile – forse nemmeno ottimale dal punto di vista farmacologico o del trattamento – è uno strumento efficace laddove lo psichiatra può essere certo che i farmaci da lui prescritti siano assunti dal paziente, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia sottoposto a interdizione, inabilitazione o TSO. La vicenda di Marta Garofalo Spagnolo in questo senso è agghiacciante perché è una plastica ricostruzione del comportamento della Repubblica, che prende una ragazza, la sottopone ad amministrazione di sostegno, la priva di ogni libertà, la ricovera in modo coatto per oltre dieci anni e, alla fine, la ‘uccide’ – perché di questo si è trattato – e, invece di processare se stessa, processa quelle quattro persone che sono state le uniche ad aver tentato di rispettare la volontà di Marta, che la stessa aveva espresso cercando più volte di scappare dalle strutture nelle quali era rinchiusa».
Nel 2016, l’Italia è stata richiamata per le sue pratiche discriminatorie dal Comitato ONU per l’attuazione della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/2009. Da allora come è cambiata la situazione?
M. C.: «C’è stata la congiura del silenzio. Questi documenti, che abbiamo letteralmente tirato fuori dalla naftalina, sono sistematicamente ignorati nell’attività formativa degli operatori giudiziari, degli psichiatri, degli operatori sociali, di coloro i quali dal punto di vista amministrativo si occupano delle persone con disabilità. Il Comitato ONU segnalava che, mentre la Convenzione impedisce la sostituzione del disabile con un altro individuo, in Italia esistono plurimi meccanismi che lo permettono. Adesso, piano piano, dopo quasi quindici anni dall’emanazione di quella legge, la giurisprudenza italiana comincia a prendere atto della sua esistenza. Non è un caso che i giudici di appello di Lecce non mi abbiamo ascoltato quando gli ho fatto notare che avevamo creato i reati di sottrazione di incapace e di circonvenzione di incapace in tempi in cui eravamo abituati a trattare gli incapaci come ‘cose’, ossia come se non esistessero e non avessero una propria volontà. Ma nel caso di Marta Garofalo Spagnolo, ci trovavamo di fronte a una ragazza che aveva chiesto di essere aiutata a uscire da una determinata situazione, e questo non può non avere un effetto sulle considerazioni della rilevanza penale della condotta di chi l’ha aiutata a fare ciò che voleva. Purtroppo, però, siccome loro, la volontà di Marta – come quella di migliaia di altre persone – non l’hanno mai rispettata, sono stati ‘costretti’ a sanzionare coloro che l’hanno rispettata. Questo per difendere il sistema, per mantenere il blocco che congiura a danno dei disabili. C’è un’espressione, utilizzata dalla Convenzione e che ho ripetuto alla Corte d’Appello di Lecce – naturalmente inascoltato. Ossia che nessuno, in ragione della propria disabilità, può essere privato della propria libertà. Nemmeno se si agisce perché si presume di proteggerlo. In pratica, non si può ritenere di sapere ciò che è bene per un disabile. Questa è oggi la visione dell’ONU e la legge alla quale l’Italia deve conformarsi: non si può sequestrare qualcuno che non ha commesso nessun reato in ragione della sua disabilità. Però – e intendo sottolinearlo – noi non vogliamo abrogare la figura dell’Amministratore di Sostegno, ma che lo stesso non sia imposto al beneficiario contro la sua volontà e che non abbia caratteristiche sostitutive. Tutto il sistema, del resto, è anche un business. C’è una serie di professionisti disoccupati, ci sono i patrimoni di persone che non hanno cari vicini, e ci sono strutture in cui girano miliardi di euro. Il blocco è inattaccabile perché se anche il Giudice tutelare domanda alla struttura cosa voglia realmente il beneficiario, quest’ultima dirà quello che le conviene per continuare ad avere l’osso da spolpare!».
Ultima domanda. Molti identificano le battaglie di Diritti alla Follia con la sua provenienza politica di militante radicale – essendo lei il Presidente. Ma è davvero così o simili battaglie dovrebbero appartenere a tutte e tutti?
M. C.: «Queste sono battaglie che appartengono a tutte e tutti. Io ho un background radicale e sicuramente l’impegno per la liberazione, per il diritto di scelta, per l’autonomia dei pazienti psichiatrici è stata, fin dagli anni 70, un impegno storico del Partito radicale. Non dimentichiamo che la cosiddetta Legge Basaglia, del 1978, non l’hanno fatta perché si sono accorti che c’erano degli psichiatri progressisti e si pensava di cambiare strada rispetto al passato, bensì perché il Partito radicale aveva raccolto 500mila firme per indire un referendum che avrebbe abrogato la legge manicomiale. Come è successo molte volte nel corso degli anni, per impedire che i cittadini si pronunciassero su un referendum (5), che non si celebrò, cambiarono in fretta e furia la legge chiudendo i manicomi (6). Ma inserendo il Trattamento Sanitario Obbligatorio che, solo oggi, cominciamo a capire cosa abbia significato. Tornando alla sua domanda, direi che è nell’armamentario storico dell’attività radicale questo tipo di impegno per la libertà – che è, per sua definizione, laico. Quindi, se la Lega, se Fratelli d’Italia, se il Partito Democratico o, magari, i Cinque Stelle avessero la volontà e il buon senso di capire che questa è una situazione rispetto a cui va fatto un cambio di passo, sarebbero i benvenuti! Il problema è che intorno a questi temi esistono interessi forti e noi abbiamo avuto grandi difficoltà, pur tentando ogni direzione per ottenere l’appoggio delle forze politiche. Ecco perché abbiamo scelto la strada della Proposta di legge di iniziativa popolare: solo i cittadini – magari in quanto sono entrati in contatto con tali situazioni – possono rendersi conto della realtà di cui parliamo e cercare di riformare un sistema che, se si aspetta la classe politica, può rimanere inalterato per altri cinquant’anni!»
(1) https://www.inthenet.eu/2024/03/22/solo-gli-uomini-odiano-le-donne/
(2) Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, CEDU, o Corte EDU
(4) Articolo del 5 novembre 2021: https://www.repubblica.it/cultura/2021/11/05/news/la_testimonianza_vitaliano_trevisan_io_un_matto_trattato_senza_pieta_-325248117/
(5) Pensiamo alla campagna referendaria per l’interruzione volontaria di gravidanza dei radicali, e alla Legge 194/78 – tuttora in essere – che pone diversi impedimenti e limiti all’autodeterminazione femminile
(6) Non gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), che avevano sostituito i vecchi manicomi criminali, i quali sono stati aboliti solamente nel 2013 e chiusi definitivamente il 31 marzo 2015
venerdì, 26 luglio 2024
In copertina: La Campagna per la raccolta firme della Proposta di legge di iniziativa popolare