Ciclicità e matrlineare: due termini complessi per un corto pieno di poesia
di Simona Maria Frigerio
Nascita, vita, morte, rinascita sono le quattro fasi dell’eterno ritorno – da Buddha a Zarathustra, in quanto: “tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi siamo già stati, eterne volte, e tutte le cose con noi”. Ma ben prima di Nietzsche gli stoici, ispirandosi alle teorie di Eraclito, ipotizzavano l’apocatastasi, o il ritorno allo stato originario. Similmente al Big Bang delle moderne teorie dell’astrofisica, gli antichi filosofi greci prevedevano una enorme conflagrazione (ecpirosi), che avrebbe riportato il tempo e il mondo alla palingenesi, ossia a iniziare un nuovo ciclo vitale. E se traslassimo tali concetti in una immagine, vi proporrei di chiudere gli occhi e concentrarvi sul vostro respiro: non vedete, con gli occhi della mente, il firmamento concentrarsi quando inspirate ed esplodere in un caleidoscopio di colori e possibilità, quando vi espandete espirando fino a sgonfiare i polmoni?
Lunga premessa per un corto di circa 20 minuti stratificato come una cipolla (permetteteci la metafora per un lavoro altrettanto allegorico), in quanto ricchissimo di piani di lettura che si sovrappongono e si intersecano e non è detto che la visione di uno spettatore debba per forza coincidere con quella di un altro.
L’archetipo si fonda col mito a un livello liminale. Madre Terra genera le sue figlie in una forma sociale di matriarcato preistorico, ma è Medea che uccide ciò che ha generato in quanto alla Terra apparteniamo e a lei torneremo; e il maschio mai potrà scindere quel legame o trasformare la sua brama di produzione in desiderio di ri-produzione.
Ma se saliamo in un fiat verso la superficie, e brancoliamo nel regno della psicologia, ecco affiorare quel cordone ombelicale così difficile da scindere da entrambi i lati: quel carico di amore ma anche di sofferenza che una madre può riversare sulla propria figlia, insieme ai suoi sogni disillusi, alle sue aspirazioni frustrate e, a volte, ai suoi desideri innominabili che portano colei – che più dovrebbe amarci – a essere la nostra peggiore nemica, invidiandoci, costringendoci, impedendoci di spiccare il volo. E allora, dall’altro capo del cordone – che ci aveva nutrite e che si è trasformato in un cappio – ecco noi stesse, donne/bambine, che non riusciamo a fuggire. Un cerchio infernale ci circonda trattenendoci e impedendoci di essere noi stesse, di realizzarci come individui a sé stanti, di volerci così bene da non aver più bisogno di intrugli e pozioni – omeo o allopatiche – che ci permettano di sopravvivere ancora un giorno, un altro giorno – sempre uguale a se stesso, e gravato da quel senso di colpa atavico per non essere mai abbastanza: brave, veloci, indipendenti, precise, affidabili. In una parola: perfette.
E poi seguiamo Eulalia, interpretata da Rose Aste, nella sua frenetica corsa verso la morte, che non è vita. Finché è l’onirico, il sacro, o il caso – come battito d’ala della lorenziana farfalla – che impone alla protagonista e a noi, spettatori e spettatrici, con lei, di fermarci e di recuperare, attraverso il ricordo, che va oltre l’infanzia, risalendo fino all’immaginario collettivo, quel trauma che ha scatenato la nostra malattia di vita. Recidere il cordone ombelicale è un rito antico che le donne hanno sempre condiviso e solo rispettandolo si ridà a entrambe, madre e figlia, la libertà di tessere nuove reti di conoscenza, di amicizia, di compartecipazione al banchetto della vita (e della morte, che non sono altro che due facce della stessa medaglia, o di quelle monete che venivano poste sulle palpebre dei defunti per pagare il traghettatore).
Molti elementi simbolici del film fanno intrinsecamente parte del lavoro creativo e performativo di Grazia Dentoni, ma la regia frizzante e i precisi (ed emozionali) ritmi musicali (affidati, rispettivamente, a Giulia Clarkson e a Marco Rocca), oltre al montaggio senza sbavature di Alonso Crespo, l’ottima prova di Rose Aste e di tutte le interpreti (professioniste o meno, ma che rimandano sagacemente anche al coro greco) rendono Bacio alla Terra un piccolo gioiello pregno di poesia e, però, in grado di farci riflettere a più livelli, come individui e come donne, ma anche come società.
Bacio alla Terra
di Giulia Clarkson e Grazia Dentoni
produzione Ananché
realizzato grazie al contributo della Regione Sardegna, della Fondazione di Sardegna e dei Comuni di Seulo e Quartu Sant’Elena
con Rose Aste
e con Violeta Ibanez, Virginia Viviano, Grazia Dentoni
e le attrici non professioniste Elisabetta Cadeddu, Maria Lorena Carta, Elena Fai, Elisabetta Mulas, Natalina Mulas, Cinzia Murgia, Valeria Carta
e l’attore non professionista Marcello Cogoni
direzione della fotografia Giulia Camba
montaggio e aggiustamenti del colore Alonso Crespo
musiche Marco Rocca
audio Roberto Cois e Cladinè Curreli
fotografi di scena Luisa Deias e Vinicio Cannas
assistente operatore Carlo Onnis
trucco Carla Aledda
traduzioni in inglese Maria Ann George
venerdì, 2 agosto 2024
In copertina: La Locandina di Incanti, serie di eventi nell’ambito della quale è stato trasmesso Bacio alla Terra