Quando la fantascienza racconta la realtà
di Simona Maria Frigerio
In tempi di Covid e di maltempo (giunto proprio quando i negozi in diverse regioni avrebbero riaperto, dando un ulteriore colpo alla già vacillante situazione di molti esercizi commerciali), sedersi in poltrona con un buon libro di fantascienza può apparire come un’attività oziosa che consola del freddo e della clausura forzata, permettendo al lettore di evadere almeno con la mente verso mondi fantastici. Ovviamente tali considerazioni sono del tutto fallaci se si scelgono i libri dell’autore cult della fantascienza sociale – ossia di gioielli psicologici quali Il condominio e Crash.
Sfogliando i racconti scritti da James G. Ballard nel periodo 1956/62 (e riuniti in un unico volume da Fanucci Editore) ne spiccano alcuni che, inaspettatamente (vista la distanza temporale tra la loro ideazione e il tempo presente, l’Anno del Topo 2020), riflettono come uno specchio deformante l’ecatombe della ragione nella quale siamo immersi.
Spulciando qua e là, prima di entrare più approfonditamente in alcuni di essi, si nota come l’autore riesca a rivelare e a mettere alla berlina alcune idiosincrasie atrocemente umane (ma, contemporaneamente, a farle assurgere a fobie tanto condivisibili quanto temibili) in vari passaggi, che tornano a più riprese nelle sue prime narrazioni. Si pensi al bisogno, a volte, di escludere i suoni, i rumori e le voci che ci circondano e che paiono “restare appesi alle pareti delle nostre abitazioni come ragnatele” (e qui il rimando alle percezioni della sensitiva di Profondo rosso è stranamente calzante), riportandoci alla mente rancori, alterchi e angosce (in Lo spazzasuoni). O il potere che ha su di noi la misurazione del tempo – che è sì indispensabile per ritmare le nostre attività quotidiane ma che può trasformarsi in una schiavitù, nel simbolo di un mondo distopico e stakanovista, dove ogni azione deve sottostare al diktat di essere fatta a un’ora precisa, imposta da un’organizzazione sociale verticistica e rigida – il che impedirebbe l’esercizio del libero arbitrio persino per andare a comperare… un pacco di penne lisce (Cronopoli). E ancora, ne L’ultima pozzanghera – in quel deserto rosso o dorato ma sempre rovente che pare l’accecante occhio di un dio minore, nel quale si dibattono i personaggi senza scampo o futuro di Ballard – le affinità tra la narrazione e i cambiamenti climatici – ormai sotto gli occhi di tutti – paiono quanto mai urticanti, soprattutto laddove non è più solo lo squalo a boccheggiare nell’ultima pozza d’acqua stagnante, bensì l’essere umano tout court, che rischia di estinguersi e finire impagliato come trofeo sull’altare dell’insensatezza consumistica.
Proseguendo nella lettura incontriamo L’uomo sovraccarico, il quale – per far fronte a un mondo tecnologicamente soverchiante che preme da ogni lato – è costretto a escludere quello stesso mondo cancellandone, prima, i contorni; poi, attraverso una riduzione delle entità soggettive e oggettive in forme geometriche, ad abortirne il senso intimo; fino ad abbattere (in sé) l’ultimo diaframma tra amorfismo e coscienza delle entità altre, riducendo, in parole povere, il corpo della moglie in “gomma spugnosa che guaiva debolmente” (con un pizzico, forse, di misoginia che torna in Il signor F. è il signor F, e un’attenzione per le arti figurative che, in Ballard, è pari solo a quella per la musica e la psicologia).
Ma è con Billennio che il gioco delle assonanze comincia a iniettare nelle vene del lettore angosce profonde e la fantascienza ricalca inaspettatamente il mondo che ci circonda e ci assedia. In vista del traguardo degli 8 miliardi di esseri umani (l’escalation demografica non pare essere minimamente rallentata dal Covid-19), la città-mondo di Ballard dove ogni essere umano ha per sé 4 metri quadrati e vive in qualsiasi cubicolo disponibile – compresi vani delle scale e ripostigli – azzanna alla gola. Una città-mondo dove bisogna affrontare una fiumana di persone che incessantemente riempiono marciapiedi e strade, impedendo a chiunque di voltarsi indietro o cambiare direzione. Dove ogni centimetro quadrato è costruito e non si vede alcuna soluzione di continuità né in senso orizzontale né in verticale (tema affrontato più compiutamente in Città di concentramento) e dove, per ben dieci anni, si rincorrono le voci di ridurre la quota di assegnazione pro capite a tre metri e mezzo: “«come si fa a vivere in soli tre metri e mezzo?». Rossiter sorrise: «L’argomento decisivo, vero? Lo addussero venticinque anni fa in occasione dell’ultima rivalutazione, quando il minimo venne ridotto da cinque a quattro. Dicevano tutti che era impossibile, che nessuno poteva vivere in appena quattro metri quadri […] ma sbagliavano. Bastò decidere che da allora in poi tutte le porte dovessero aprirsi verso l’interno. E quattro metri furono»”.
Solo fantascienza? In questi ultimi mesi cosa siamo riusciti, o ci hanno imposto di accettare? Non poter muoverci oltre i 200 metri da casa (come se un raggio traente ci impedisse di oltrepassare un limite invalicabile); girare ovunque con la mascherina (perfino all’aperto, senza nessuno intorno, quasi che il Covid fosse composto da spore di antrace sparse nell’aria da invasori spaziali); il coprifuoco alle 22.00 perché, forse, si è in guerra contro la malaria e non contro un virus influenzale; poter acquistare un calzino ma non una pentola perché abbuffarci di cibo spazzatura precotto o take-away sarebbe meglio che cucinarci anche solo un piatto di pasta con olio d’oliva e una spolverata di parmigiano; e, ciliegina sulla torta, con l’ultimo Dpcm di dicembre, imporre all’unico turista che venisse in Italia per le vacanze natalizie (con piste da sci, musei, teatri e cinema chiusi chissà perché dovrebbe venire poi…), di cenare in camera la sera di San Silvestro e non nella sala ristorante dell’hotel (come se, mangiare al tavolo, fosse una concessione troppo libertaria in tempi in cui si vuole trasformare il cittadino in un automa ubbidiente anche alle regole più vessatorie e ingiustificabili).
In questo mondo dove ormai il pericolo di impazzire sembrerebbe scongiurato e gli psicologi dovrebbero essere messi tutti al bando – o in galera – come in I pazzi (anche se nei due mesi di reclusione, martellati da meme terrorizzanti, donne e bambini hanno pagato cara la cattività); dove ci stiamo talmente assuefacendo a uno Stato di polizia da riplasmare i nostri bisogni sui protagonisti di Tredici verso Centauro, sostituendo scuola, teatro e socialità con la fruizione virtuale, accettando di non abbandonare mai la nostra astronave/casa – sebbene siamo, come i protagonisti del racconto, consapevoli che la navicella non è mai decollata ma giace, arrugginita, in un hangar in smobilitazione sulla Terra; è con Torri d’osservazione che rileggere Ballard, oggi, diventa un atto di fede verso quegli scrittori di genere (la fantascienza sociale come il giallo slegato dal whodunit) che, sebbene disprezzati dalla critica più blasonata, hanno raccontato la cruda realtà socio-politica ed economica – figlia dell’era tecnologica e del consumo di massa (le magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria) – con maggiore acume e sagacia di tanti illustri letterati.
Renthall, il protagonista del racconto, è il tipico Narratore di fine Ottocento e, come tale, non perennemente onnisciente bensì teso a coinvolgere il lettore nelle sue sensazioni e nei suoi pensieri. Di fronte alla presenza di ipotetici marziani (tangibili in quanto abiterebbero le torri d’osservazione del titolo ma di cui si può dubitare, dato che nessuno li ha mai visti), e all’apatia dei suoi concittadini (scuole chiuse sine die, così come teatri, cinema o sale da concerto – il che dovrebbe ricordarci tempi più recenti e i continui, cavillosi termini di provvidenti che si rinnovano senza soluzioni di continuità), decide di sfidare il Consiglio comunale. Quest’ultimo, infatti, sarebbe investito di un potere superiore, ossia dovrebbe essere in grado di comunicare con i presunti marziani ma, in realtà, il fatto non è provato: “«E come credi che avvengano le comunicazioni tra il Consiglio e le torri di osservazione? […] Per telefono? Oppure si servono di un semaforo?»” – così come i nostri politici o i tanti, troppi esperti non è dato sapere se siano davvero edotti a livello medico-scientifico ed economico-finanziario, da contemperare la salvaguardia della salute con le conseguenze socio-economiche delle loro scelte, o siano solamente dei dilettanti più o meno ben intenzionati.
Renthall decide quindi di organizzare una festa all’aperto – in dispregio al divieto di assembramenti (nella fiction come nella realtà), in quanto il nostro anti-eroe è indispettito sia dall’apatia della popolazione sia dal modo in cui “il Consiglio si dava più da fare per consolidare la propria posizione, emettendo una valanga di norme e di regolamenti meschini”, che della loro efficacia, necessità e congruità. E anche qui, l’attuale caterva di decreti – che si accavallano con le ordinanze regionali e comunali – che ci stanno soffocando da mesi paiono trasformare la nostra realtà in una copia sbiadita dell’originale romanzesco.
A un certo punto, però, la cittadinanza smette di vedere le torri di osservazione aliene e solamente Renthall si rende conto che pericolo e percezione dello stesso non sono dinamiche dipendenti. Eppure sarà lui, alla fine, ad accorgersi – unico nell’intera città/mondo – che l’invasione aliena prosegue infettando le menti e impedendo loro di vedere il reale pericolo.
E così, nell’Anno del Topo 2020, l’Aids è scomparso dai radar. Nemmeno il 1° Dicembre (forse a causa dell’inflazione di Giornate Onu dedicate a qualcosa) ci si è ricordati di uno tra i più temibili virus che miete vite (soprattutto giovani) da mezzo secolo a questa parte. Obliato da media e politica, circonfuso dalla credenza che ormai sia una malattia curabile (quando, al massimo, è cronicizzabile, il che non significa guaribile), mentre le industrie farmaceutiche si sono forse ‘arrese’ all’idea che non si possa sviluppare un vaccino (o alla considerazione che le patologie croniche nei Paesi occidentali rendono meglio delle campagne vaccinali), non ci si è resi conto che le ‘torri di osservazione’ sono sempre là. E se nel 2018 morivano di Aids solo 770 mila persone al mondo, il 7 dicembre i morti di Aids (o, meglio, di patologie insorte a causa dell’abbassamento delle difese immunitarie provocato dall’Hiv) – per l’anno in corso – raggiungevano già quota 1.578.368 (su 42 milioni di contagiati diagnosticati e con l’obiettivo preventivato di non superare il mezzo milione di morti l’anno, a livello globale, entro il 2020). Nel contempo, si stima un tasso di letalità intorno al 5% (o almeno lo si stimava prima dei succitati dati), laddove il Covid-19 si prevede si assesti tra lo 0,3 e lo 0,6%. Ma l’Aids è scomparso dalle nostre menti e non vale nemmeno più lo spreco di una campagna pubblicitaria a favore dell’uso del preservativo.
Venerdì, 11 dicembre 2020
In copertina: Foto di Stefan Keller da Pixabay.