Informazione, coercizione o… libertà di pensiero?
di Simona Maria Frigerio
Il 24 maggio compare sulla stampa questa dichiarazione : “Per far luce sull’origine del Covid sono assolutamente favorevole ad un’indagine”. Non lo afferma un cosiddetto ‘complottista’, bensì Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e consigliere della Casa Bianca sul Covid – facendo intravedere la possibilità che il virus sia stato sviluppato in laboratorio (il che, per coloro che abbiano vissuto gli anni Ottanta, rammenterà le molte teorie sull’origine artificiale dell’Hiv/Aids o, in epoca successiva, la never ending story sull’antrace). Ed ecco che, il 28 maggio, Facebook annuncia che non censurerà (sic!) più i post su un’origine non naturale del Covid-19. La decisione, secondo le fonti stampa, sarebbe stata presa a seguito dell’annuncio del Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di nominare una task force per un’inchiesta sull’origine del virus – la quale dovrebbe fare miracolosamente luce su un ‘dilemma’, mai risolto per i succitati casi, in soli tre mesi.
Nulla di strano?
Il collega Simone Fontana, in War, la newsletter di Wired che racconta le “tensioni tra istituzioni nazionali e grandi piattaforme tecnologiche”, riferisce come, nel recente conflitto israelo-palestinese, i contenuti social dei palestinesi siano stati oscurati; e come il Governo israeliano, il 19 maggio, abbia “comunicato di aver individuato negli ultimi dieci giorni circa 1.340 potenziali minacce alla sicurezza di Israele online – ovvero contenuti social segnalati per ‘incitamento o sostegno al terrorismo’”. Tik Tok, Twitter e Facebook sarebbero stati pronti nell’oscurare detti contenuti. Ma quanti erano messaggi terroristici e quanti, al contrario, denunce della situazione di occupazione – contraria a ogni legge internazionale – perpetrata da Israele contro lo Stato di Palestina? Nella stessa newsletter, a cui consigliamo di iscriversi, Fontana scrive: “Nelle ultime settimane, i gruppi di attivisti per i diritti digitali hanno, ad esempio, denunciato il sistematico silenziamento delle voci provenienti dai territori palestinesi, con la rimozione dei contenuti pubblicati dagli utenti per protestare contro gli sfratti di Sheikh Jarrah, la sospensione dei loro account – compreso quello della giornalista palestinese Mariam Barghouti – e le restrizioni in termini di visibilità applicate agli hashtag الاقصى# e الأقصى# (Aqsa e al-Aqsa, in riferimento alla moschea di Gerusalemme scenario degli scontri tra polizia israeliana e gruppi palestinesi)”.
Nulla di strano?
Già nel 2018 qualcuno cominciava ad accorgersi che le piattaforme social censuravano i contenuti degli iscritti. Dopo massicce campagne mediatiche (soprattutto a colpi di serial TV) contro la pedofilia e la pedopornografia (e chissà cosa avrebbero pensato, ad esempio, di un Wilhelm Von Gloeden), alcuni musei belgi avevano protestato, attraverso una lettera aperta indirizzata a Mark Zuckerberg, perché il suo Facebook aveva censurato i nudi di Rubens (quali contenuti per adulti), scambiando l’arte con la pornografia.
Nulla di strano?
Il Covid-19 e le fake news
Durante la pandemia oltre a rincorrere la notizia più calamitosa possibile per aggiudicarsi un click, la stampa internazionale ha tentato in ogni modo di bollare blog e social come ‘spacciatori di fake news’. Ma senza entrare nel merito di tutte le notizie – se non false almeno gonfiate – che la stampa con tesserino regala ai suoi lettori da anni e dell’omologazione al pensiero unico di un giornalismo al servizio del potere (denunciata da Chomsky o da Bellocchio/Volontè in tempi non sospetti), i social sono o dovrebbero essere davvero fonti d’informazione?
I social sono l’equivalente del campus universitario (FB, fra l’altro, della prestigiosa Harvard), con il paravento dello schermo, per dire fesserie o attaccare lo ‘sfigato’ di turno, dove praticare un bullismo più o meno velato e, nella migliore delle ipotesi, condividere passioni, idee e progetti come nel party del weekend. Al top, i social diventano l’unica arma non violenta di chi subisca un’ingiustizia: ma se tappi la bocca al bambino di Gaza, dovrai farlo anche alla passante che inquadra George Floyd mentre sta soffocando. Non sono un quotidiano che dovrebbe essere votato a un’informazione imparziale, precisa e il più veritiera possibile. Sono piattaforme di condivisione: il corrispettivo dello Speakers’ Corner londinese – in epoca digitale. E come, in una società democratica, non si entra nella cucina di una casa per censurare le idee dei commensali, così il potere di uno Stato liberale non dovrebbe intromettersi nel dialogo tra gli iscritti a un social (o nella corrispondenza via email) decidendo di cosa debbano chattare e quali idee sia giusto che esprimano – fino a prova contraria dovremmo garantire il diritto alla libertà di parola e associazione.
Gli Usa meglio della Cina? Ma anche no
Molti, troppi – e a sproposito – hanno citato 1984 di George Orwell. Il Grande Fratello è diventato un reality show (vero come una moneta da 3 euro), dove ci si fa spiare per compiacere il voyeurismo di un pubblico sempre più avido di superficialità. Ma quando la Repubblica Popolare Cinese mette al bando Google o FB, ecco che l’Occidente insorge contro uno Stato che – controllando e censurando – vuole imporre il pensiero unico. Eppure, il democratico Occidente fa peggio. Noi abbiamo affidato le nostre libertà di comunicare, socializzare e denunciare a un pugno di imprenditori privati statunitensi che controllano ogni nostro tweet.
“È la barbarie”, cantavano i 99 Posse.
Venerdì, 11 giugno 2021
In copertina: Foto di Thomas Ulrich da Pixabay.