Al Giglio tre ex compagni di lavoro di Baker, Tommaso, Rava e Gatto, rendono omaggio alla voce/tromba più cool del jazz
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Chet Baker era uno strumento a fiato, nel senso che ogni fibra del suo corpo stava lì: in quella sua voce inconfondibile quando parlava, quando cantava come un angelo (solo Jeff Buckley lo eguaglierà), e quando il suo fiato si incanalava nella tromba per gridare quel suo essere ‘Born to be blue’ (1).
Dal giorno in cui, nel 1952, Chet Baker reinterpretò per la prima volta – con il sassofonista e compositore, Gerry Mulligan – My funny Valentine (come avrebbe fatto Jeff Buckley con l’Hallelujah di Leonard Cohen, che si trasformò da canto a base biblica in un inno all’orgasmo sensuale), sui palchi di tutto il mondo nacque un artista dalla voce che (anche quando si allungava nelle note della tromba) era semplicemente inconfondibile – nel 1952 come lo sarebbe stata fino al suo ultimo giorno, il 13 maggio 1988.
Come riassumere una carriera ultratrentennale in poche righe? Come raccontare un uomo dalle profonde contraddizioni che trovava, come affermò lui stesso, la sua identità nella siringa e nella tromba? Chet Baker trasformò in capolavoro Almost Blue di Elvis Costello (abbastanza scialba nella sua versione originale e decisamente strimpellata); seppe cogliere le atmosfere della Ragazza di Ipanema in Retrato em branco e Preto, scritta sempre da Jobim; ebbe l’umiltà di reinterpretare So What (il capolavoro di Miles Davis) con la medesima talentuosa impronta che era insieme cool e suadente; si autoconfessò con la classe di un James Dean in Il Gigante, e altrettanto da gigante fu la sua versione di I falll in love too easily; e costruì una magia dialettica con il pianoforte in Time after time.
Tutto nelle esecuzioni di Chet Baker era perfezione pura: ogni strumento e ogni musicista contribuiva a quell’effetto rarefatto e sofisticato, con una precisione maniacale, con la generosità di prestarsi a una fusion che avrebbe prodotto un brano malinconico e incantevole, che rapiva chiunque lo ascoltasse, riconciliandolo con un mondo che di bello ha poco e con un’umanità che ancor più raramente esprime bellezza.
Poche erano le divagazioni solistiche (e spesso solipsistiche) dei musicisti che collaboravano con lui e, per questo, l’etichetta di jazzista applicata a Chet Baker ci pare riduttiva. Così come appare riduttiva di fronte alle sue capacità vocali: la tromba è una voce in sé ma lui aveva anche la propria, il suo stesso corpo era una tromba, come sarà il palco del suo disfacimento che, però, non gli impedì di esibirsi mirabilmente anche nel suo ultimo concerto, al Teatro Carignano di Torino, il 21 aprile 1988 – ospite dell’amico Enrico Rava.
E rieccoci, quindi, al Giglio, il 13 maggio 2024, con Enrico Rava che tenta di reinterpretare alcuni dei brani che hanno contraddistinto la carriera di Baker. Reinterpretare, appunto, con il suo proprio stile e i limiti di un’età avanzata (che, però, non ne inficiano la maestria di fondo), ma non in grado di cogliere quella fusion e quel sense of blue che erano i marchi di fabbrica dell’amico.
Particolarmente fuori dal coro, la pianista Rita Marcotulli – indubitabilmente brava ma incapace di fare un passo indietro, anzi sempre in competizione con Rava. Errore colossale quando si ascoltino i brani di Baker e il posto assegnato al pianoforte. Più in linea con il maestro scomparso, Roberto Gatto (alla batteria) e Giovanni Tommaso (al contrabbasso), i quali, non a caso, lavorarono a lungo con Baker.
Chet era il cantore della nota lunga, della lentezza (che per alcuni potrà sembrare esasperante ma, per altri, pura e celestiale armonia) e del tempo come concetto astratto. Il ritmo jazzistico al quale sono abituati i molti che hanno seguito, ad esempio, l’evoluzione di un Miles Davis da Kind of Blue (l’album che vedeva John Coltrane al sassofono, del 1959) e la sua So What, alle sperimentazioni elettroniche della fine degli anni 60 con il Lost Quintet, composto oltre che da Davis da Dave Holland (basso acustico ed elettrico), Chick Corea al Fender Rhodes piano, Jack DeJhonette alla batteria, e Wayne Shorter al sassofono (soprano e tenore) non potranno comprendere l’abissale differenza tra i due migliori trombettisti nel Novecento. Davis fu il maestro delle sperimentazioni à la Picasso, Baker fu il cantore lirico di una interiorità sensibile e raffinata, troppo rarefatta per la ruvidezza dell’universo musicale (nel quale, oltretutto, essendo il jazz considerato musica ‘nera’ – come se la musica potesse avere un colore – era guardato con sospetto persino dai suoi stessi compagni di strada).
Purtroppo a Lucca, sul palco del Giglio, il doveroso omaggio non ha colto l’essenza, ha semplicemente reinterpretato dei brani con uno stile che non apparteneva agli originali di Baker. E, per di più, calcando continuamente la mano sulla dipendenza di Chet, che lo portò a farsi oltre un anno di carcere a Lucca. Come se domani, invece di ricordare Charlie Parker per Ornithology o Billie Holiday per Strange Fruit (che le procurò l’odio dei bianchi razzisti statunitensi, accusati implicitamente di linciare e impiccare i neri negli Stati del Sud) o, cambiando arte, l’interpretazione magistrale di Pierre Clementi nel capolavoro di Buñuel, Belle de jour (e ricordiamo che l’attore scrisse anche un libro contro il regime carcerario e la società repressiva italiani, Quelques Messages personnels), la critica perdesse tempo con le loro dipendenze – che sono fatti privati e che, nel 2024, dovrebbero vedere la società (non solamente italiana) battersi per la liberalizzazione delle droghe leggere e la legalizzazione degli oppioidi così da restituire all’individuo la piena autodeterminazione sul proprio corpo e da sottrarre finalmente Pil miliardari alle mafie (prima fra tutte la ʻNdrangheta calabrese).
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro del Giglio
piazza del Giglio, 13/15 – Lucca
lunedì 13 maggio 2024, ore 21.00
Chet, we remember you
Concerto in ricordo di Chet Baker
con Giovanni Tommaso (contrabbasso)
Enrico Rava (tromba)
Rita Marcotulli (pianoforte)
Roberto Gatto (batteria)
Alle 15.30, nel ridotto del Teatro, si è altresì tenuta una Tavola rotonda con Domenico Manzione, Francesco Martinelli, Carlo Andrea Giorgetti, Vittorio Barsotti e Giavanni Tommaso
(1) Essere blu in inglese significa avere un particolare mood intriso di malinconia – lontanamente riallacciabile, ma senza la connotazione del rimpianto nostalgico, alla saudade lusitana
Buon ascolto:
venerdì, 24 maggio 2024
In copertina: La Locandina (particolare). Disegno di Massimo Scapecchi, 2016