Quante sono le aziende italiane emigrate?
di Simona Maria Frigerio
Gli esseri umani no, ma le merci e le aziende possono viaggiare e insediarsi ovunque. Il paradigma dell’attuale società globalizzata è questo, e i recenti tagli Covid ai diritti degli individui nelle cosiddette democrazie occidentali – di libera impresa, di spostamento, di riunione e perfino di parola (visti gli strali lanciati contro chiunque abbia osato muovere qualsiasi critica o sollevare dubbi) – dovrebbero forse far comprendere a noi tutti come sia aleatorio il termine ‘libertà’ e quanto sia inumano impedire a chicchessia l’esercizio della propria volontà.
In questo lungo periodo, apparentemente di stasi, hanno però continuato a produrre le loro merci, spesso dozzinali, le televisioni e – a tal proposito – non si può che sottoscrivere quanto ha affermato proprio in questi giorni Gabriele Lavia: «Ci vogliono morti. Il teatro non è mai piaciuto al potere. Dà fastidio» a proposito del ‘teatrino’ sul Festival di Sanremo. Quel contenitore di canzoni vecchie ancora prima di debuttare, fronzoli, banalità e gossip spicciolo che, però, riempie le pagine dei social più dell’indignazione per le categorie di lavoratori a casa da mesi, senza alcuna copertura, o del semplice fatto che se si può lavorare in Rai o Mediaset, si può anche lavorare in un ristorante, un bar, un impianto sportivo, su un palcoscenico teatrale o in una sala cinematografica.
Ma soprattutto hanno continuato a macinare soldi pubblici quegli industriali che, dalla crisi, si stanno facendo finanziare manovre che dovrebbero preservare il lavoro ma che lasciano l’amaro in bocca.
Tra queste, Fiat Chrysler che, con garanzia statale SACE all’80% (il famoso MEF del Premier Conte che, al primo punto, stabiliva come le società dovessero avere sede legale in Italia), a giugno, otteneva un prestito da Intesa San Paolo di 6,3 miliardi di Euro (ossia il 25% del proprio fatturato realizzato in Italia). Questo, nonostante il gruppo avesse già sede legale in Olanda e fiscale a Londra – e ci si domanda perché non abbia chiesto sostegno a quegli Stati.
Come scriveva Il Fatto Quotidiano – Pietro Gorlier, l’allora responsabile delle attività europee di FCA, affermava che: “Il 100% delle risorse che fanno parte di questo accordo sarà indirizzato al nostro businessin Italia, quindi alle migliaia di imprese e alle centinaia di migliaia di lavoratori il cui futuro dipende dal rilancio del nostro intero settore, nel momento in cui noi proseguiamo nella trasformazione e nell’evoluzione verso un domani guidato dai motori elettrici e ibridi”.
Questo sei mesi fa.
Il 16 gennaio 2021 nasce Stellantis, sulla carta dalla fusione alla pari tra Fiat Chrysler e Psa (il gruppo francese che comprende, tra le altre, Peugeot, Citroën e Opel). Ma a questo punto sorgono i primi dubbi sulla continuazione delle attività di FCA in Italia, non tanto per quel che riguarda il lavoro manovale a breve termine, ma per ciò che concerne la strategia del nuovo gruppo, la ricerca, il know-how e gli investimenti futuri. Soprattutto viene da chiedersi se gli operai, i tecnici e gli ingegneri di Fiat, Lancia, Alfa Romeo e Maserati subiranno la stessa sorte di quelli di Opel dato che: “da quando… è stata rilevata da PSA, un lavoratore su tre, dei 19.000 che compongono la forza lavoro di Opel, ha perso” il proprio posto. E ancora più preoccupante pare la situazione rispetto allo sviluppo di modelli e tecnologie nel nostro Paese, quando leggiamo, sempre su www.milanofinanza.it dell’ottobre 2019, del “piano di esuberi in attuazione già da un anno presso il Centro internazionale di ricerca e sviluppo (ITEZ) della società [da intendersi dell’Opel, n.d.g.]. Fino a 700 ingegneri e tecnici saranno trasferiti presso la società di servizi francese Segula, mentre altri 2.000 perderanno il proprio posto di lavoro”. E tutto ciò nonostante le rassicurazioni che aveva a suo tempo ottenuto la Cancelliera tedesca Angela Merkel dal management di Psa.
I dubbi aumentano quando si apprende che il Consiglio d’amministrazione di Stellantis, composto da 11 membri, ne ha 6 espressi da PSA e solo 5 da FCA; mentre l’amministratore delegato – ossia colui che regge le sorti dell’azienda – sarà Carlos Tavares, ex Chief Operating Officer di Renault e, quindi, in quota francese.
Non solo. Nel Consiglio d’Amministrazione si siederà anche lo Stato francese, mentre quello italiano starà a guardare, come sempre, dalla finestra. Sebbene il viceministro dell’Economia e delle Finanze del Conte II, Antonio Misiani, in un’intervista a Repubblica, avesse detto che “un’eventuale presenza dello Stato italiano nel capitale sociale del nuovo gruppo, analogamente a quella del governo francese, non può e non deve essere un tabù” (e chissà perché dovrebbe esserlo: forse che l’Italia, o l’ex Governo Conte, tenessero a dimostrare di essere meno di ‘sinistra’ della Francia?), il nostro Stato, pronto a garantire i prestiti, nel momento di sedere ai tavoli che contano, non c’è.
Intanto anche Iveco (che fa sempre parte di Exor) rischia di cambiare lingua, diventando cinese. E, a proposito di ‘scatole cinesi’, non è un segreto che Exor N.V. sia una holding finanziaria di diritto olandese, controllata sempre dagli Agnelli.
Dagli U2 a Exor: l’Olanda, nuova capitale dell’evasione fiscale legalizzata
Premessa. Senza una omogeneizzazione della tassazione così come dei diritti dei lavoratori e delle coperture sociali (disoccupazione, pensione di invalidità, eccetera), oltre che un livellamento delle retribuzioni e dei diritti (si spera verso l’alto), l’Europa non sarà mai unita e si troveranno sempre scappatoie per evadere legalmente il fisco o sfruttare i lavoratori.
Per dimostrarlo partiamo da un settore completamente diverso, quello dello showbiz. Cosa avranno in comune Rolling Stones e U2? Le ‘pietre rotolanti’, come scrive nella sua autobiografia (Life), Keith Richards, non volendo pagare le tasse in Gran Bretagna (dove potevano toccare l’83% per la loro fascia di reddito, ai tempi in cui in quel Paese, in effetti, lo stato sociale era garantito ai massimi livelli), “balzarono in piedi e se ne andarono in Francia”. Erano gli anni 70. Dall’altro lato della Manica, i campioni del Live Aid, il cui leader, Bono Vox, è sempre stato il paladino di ogni causa umanitaria soprattutto in Africa, secondo la biografia di Steve Jobs (firmata da Walter Isaacson), nel 2004, dopo aver detto “di no a chi aveva offerto loro fino a 23 milioni di dollari per usare una loro canzone negli spot televisivi”, andò a trovare proprio il patron della Apple offrendogliene una per uno spot dell’Ipod con un “«pacchetto» di mutuo vantaggio”.
Entrambe le band, dai profili e all’apparenza esempi, rispettivamente, del politically incorrect e del politically correct (o quasi), secondo i colleghi Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi de IlSole24Ore Inchieste (https://www.ilsole24ore.com/art/u2-rolling-stones-e-acdc-cuore-patria-e-portafoglio-ricco-olanda–AEDarwLG), sono domiciliate in Olanda. Per l’esattezza: al “numero 566 di Herengracht, [presso] un manager di 53 anni, Johannes Nicolaas Favié, per gli amici Jan. Favié è l’uomo che custodisce il portafoglio di Bono Vox, Mick Jagger e compagni. Sebbene dal vivo abbiano suonato poche volte insieme, in questo edificio di mattoni rossi, invece, condividono quasi tutto. Compresa la passione per il fisco leggero dei Paesi Bassi, che esenta da qualsiasi tassa le royalties in uscita dal Paese”.
Ma non solamente i vip del palcoscenico rock emigrano – a livello fiscale o di sede legale – in Olanda. Negli ultimi anni, nel completo disinteresse dei vari Governi italiani che si sono succeduti (e specialmente dei due Conte) sono molte le società che hanno ‘piantato baracca e burattini’ per trasferirsi nel Paese dei tulipani. Ma perché ci si trasferisce in Olanda? Ovviamente per pagare meno tasse ma anche perché “la legislazione olandese… consente all’azionista di maggioranza relativa di avere la maggioranza assoluta in sede di CdA” (come puntualizza https://quifinanza.it/).
E veniamo a un rapido elenco delle società che hanno spostato la loro sede legale (ma non sempre quella fiscale) in Olanda. Un elenco non esaustivo desunto da vari articoli di colleghi del settore economia e da https://valori.it/elusione-fiscale-made-in-italy-olanda/.
FCA (sede legale in Olanda e fiscale in Gran Bretagna), sebbene da anni dica di pagare le tasse in Italia per quanto riguarda le attività produttive nel nostro Paese, in realtà è almeno dal 2016 che non chiude un bilancio in attivo – e, quindi, non versa tasse se si esclude l’Irap.
La Ferrero preferisce il Lussemburgo quale sede legale e fiscale. La Exor (ossia la holding della famiglia Agnelli, prima società italiana per fatturato) con partecipazioni in Stellantis, Ferrari, Juventus, Iveco attraverso Cnh Industrial, The Economist e il gruppo editoriale Gedi, ha sede legale e fiscale in Olanda.
Il marchio Campari, quello dell’omino di Depero, colosso nel settore delle bevande alcoliche e analcoliche ha da poco trasferito la sede legale in Olanda (sebbene quella fiscale dovrebbe restare in Italia). Stessa scelta per la nuova holding MediaforEurope (ex Mediaset), che continuerà comunque ad avere sede fiscale nel nostro Paese.
La Illy smentisce di aver spostato la propria sede e ribadisce di avere sede legale e fiscale in Italia e solamente una filiale in Olanda, che svolge funzioni di distribuzione commerciale in quel Paese; mentre l’ex patron di Luxottica – ormai fusa con la francese Essilor, di cui detiene la maggioranza azionaria – Leonardo Del Vecchio, ha racchiuso tutte le proprie partecipazioni azionarie e la liquidità nella Delfin S.à.r.l., con sede in Lussemburgo.
A noi, poveri mortali, pagare le tasse in Italia. Pensiamoci quando acquistiamo un prodotto: un altro mondo è possibile anche privilegiando le aziende che versano le tasse nel nostro Paese.
Venerdì, 5 febbraio 2021
In copertina: Parigi, la Tour Eiffel. Foto di Walkerssk da Pixabay.