da Cartoline dalla Cambogia
di Simona Maria Frigerio
Eccone un altro: un sacco nero, il mio bottino. Spero di trovarci dentro almeno quattro o cinque bottiglie di plastica. Nell’ultimo, solo due – tra una lordura di gusci di vongole cucinate con i peperoncini rossi, bucce rugose di duriram e cespi di insalata idroponica, che coltiva il banchetto all’angolo, infestata di larve. Mio marito si gira e mi sorride mentre raccoglie due sacchi come se fossero il suo tesoro: da quando ha perso il canino di destra sembra un vecchio. Si passa la mano tra i radi capelli unti e chiama nostro figlio, che corre felice a svolgere quello che definisce con orgoglio il suo ‘lavoro’: saltare a piè pari sulle lattine per schiacciarle e così farne uscire i rimasugli di liquido e fare in modo che occupino meno spazio sul carro. Ha le caviglie e i polpacci unti e appiccicosi di birra e cola. Per fortuna che i suoi pantaloncini gli sono diventati così corti che non si imbrattano. Sorride al padre: quando sono insieme, loro due, sono sempre felici. Avrebbe bisogno di andare a scuola, mio figlio, ma non ho il coraggio, la mattina, di svegliarlo e mandarlo a lezione dopo che ci ha seguiti, lavorando, quasi tutta la notte… E poi, dove gli laverei i piedi e le mani in questo lago di polvere e cemento?
Ieri lui ha tentato un colloquio al bordello, per pulire i cessi otturati di preservativi e pisciati di birra. Ma sembra che bisogna presentarsi meglio perfino per ottenere quel posto. E dire che quindici anni fa avevano offerto anche a me di starmene in vetrina con l’abito di lamè, ma io ho rifiutato. Allora il futuro sembrava già scritto e roseo come il culo di un neonato: sul lago, avevano aperto dei deliziosi ristorantini per turisti e noi pescavamo, mio padre, mio fratello, mio marito, io, e vendevamo bene il pesce per sollazzare gli stranieri che si guardavano quel tramonto, da sempre nostro, come se fosse loro… Poi ci hanno prosciugato il lago con una specie di proboscide di elefante e l’hanno riempito di sabbia e macerie e noi, tutti noi, siamo stati costretti a pescare bottiglie e lattine di quella viscida birra che ingollano i vecchi per dimenticare, ché tanto costa meno dell’acqua!
Alzo lo sguardo dal sacco nero che, aprendosi, emana olezzo di aglio e teste di pesce. Cosa c’era da aspettarsi qui al Mercato centrale, dove essiccano i calamari accanto alla spazzatura? Mia figlia dorme beata, stesa per la larghezza del carro, che occupa per intero ma solo per quei pochi centimetri che misurano le sue spalle. È più piccola dei suoi quattro anni e più adulta. Dorme con qualsiasi tempo, sotto la pioggia dei monsoni e nelle serate soffocanti e umide, come questa; dorme nel buio e nella luce abbacinante dei lampioni; dorme nel silenzio protettivo delle mura del Museo o parcheggiata sul bordo della strada, mentre le sfrecciano accanto motorini e fuoristrada. Quando si sveglia chiacchiera con la sua amica immaginaria, si inventa storie raccontandosi le leggende del lago con cui le riempie la testa il padre. È una bambina nata antica, e quando tossisce è talmente riservata da sedersi a cavalcioni sulla sua sediolina di plastica rossa, che abbiamo salvato al naufragio delle nostre vite, per mettersi a tossire contro la spalliera così da non disturbare nessuno, quasi chiedendo scusa di esistere.
Ed eccola che passa, la ragazza con la canotta. Mi guarda triste ma non le leggo negli occhi la compassione ipocrita di chi si crede fortunato. Le rispondo con il mio volto fiero: di chi giace ma non si dà per vinto. Non abbocca e torna a guizzare nella notte densa di odori come un pesce gatto che brilli sulla superficie un attimo prima di scomparire nelle acque profonde, e io torno a pescare bottiglie.
venerdì, 26 aprile 2024 (la settimana prossima, un nuovo racconto)
Per chi si fosse perso il precedente:
In copertina: Foto di Simona Maria Frigerio
(Cartoline dalla Cambogia, di Simona Maria Frigerio ©2024, tutti i diritti riservati, vietata la pubblicazione integrale o parziale senza il consenso dellʹautrice)