Una storia infinita
di Simona Maria Frigerio
Entrando in questo museo ciò che colpisce è la ricchezza delle sue raccolte e la vetustà degli ambienti che le ospitano. Viene da pensare che gli statunitensi, in tanti anni, non abbiano mai investito nella conservazione e valorizzazione di questo Paese, utile solo per scopi geopolitici nell’area indocinese. Forse hanno fatto un po’ meno peggio i colonizzatori francesi, ai quali si deve, se non altro, la costruzione proprio di questo museo, inaugurato nel 1920).
Il Museo è a metà strada tra quelli che definiremmo archelogici e quelli etnografici con reperti della vita quotidiana cambogiana dei secolo scorso e altri provenienti da Angkor e dai suoi magnifici edicifici civili e religiosi.
Ad accoglierci c’è Garuda, il capostipite della stirpe degli uccelli, in stile Koh Ker (prima metà del X° secolo d. C.) che pare sfidarci a entrare. Nentre, volgendoci a destra, colpisce la serie di pannelli di legno dipinti con grazia e raffiguranti divinità e demoni. Nella stessa Sala vari oggetti di bronzo, alcuni risalenti al Periodo di Angkor (IX° / XIII° secolo d. C.), molti di uso rituale e alcuni domestico. Imponente, e caratteristico anche di altre regioni indocinesi, il tamburo rituale, del III° / II° secolo a. C. che introduce alla Sala successiva, dove una serie di statue del Buddha ci attraggono in quanto mostrano le differenze nell’iconografia dell’Illuminato a seconda dei periodi storici, della provenienza geografica e delle posizioni che assume (reclinato, seduto, inginocchiato, in piedi, con una o due mani alzate, eccetera), tutte con un proprio significato preciso e ben codificato.
Uno splendido telaio del XIX° secolo fa bella mostra di sé accanto al più lungo tappeto al mondo tessuto a mano, che raggiunge i 1.149,8 metri. Per chi ami le scatole, la Sala successiva offre sorprese di gusto e raffinatezza: laccate, in legno, in madreperla, a forma di uccello con volto umano, e per gli usi più diversi – dalle cerimonie matrimoniali alla conservazione del betel. Gli animali mitologici sono raggruppati su un piedistallo di legno: ancora Garuda dal becco d’aquila; Hamsa dalla portanza di gallo da combattimento (ne abbiamo visti pochi minuti prima due, in strada, contendersi la vittoria), sebbene sia l’oca sacra; l’elefante tricefalo (figura che si ritrova spesso anche nei siti archeologici thailandesi); e l’immancabile nāga, gli uomini-serpente. In una teca laterale ammiriamo una piccola statua di Ganesh finemente cesellata e diverse figure mitologiche. Cambiando genere, una cabina di una barca del XIX° secolo, in legno intagliato, occupa un’intera Sala suggerendo come dovesse essere la vita sui fiumi cambogiani due secoli fa. Più oltre, ornamenti tradizionali delle danzatrici corredati da suggestive foto d’epoca in bianco e nero.
Un Hanuman – personificazione di saggezza, celibato, devozione, giustizia, onestà e forza – sorveglia l’accesso alle Sale dedicate alla scultura (con basso e altorilievi, statuaria, frontoni, pedimenti, eccetera). Da notare un busto di Yakṣa (divinità protettrice di foreste e villaggi), tra due teste, in stile Bayon (tardo XII° / XIII° secolo d. C.): la rotondità e la carnalità delle figure Khmer si sposa con i colori dorati e caldi dell’arenaria, materiale che accomuna quasi tutte le sculture presenti nel Museo: un amalgama che rende vive e vibranti queste imponenti forze benefiche. Interessante anche un bassorilievo del Buddha con i suoi adoratori, sempre del medesimo stile e periodo, ma con figure più ascetiche e slanciate e lineamenti più raffinati. A seguire, Lokeshvara (nel Buddhismo Mahāyāna, il bodhisattva della grande compassione), che presidiava il Cancello della Morte di Angkor Thom, sempre del XII° / XIII° secolo d. C. L’espressione serena di questo Caronte o San Pietro si allontana totalmente dall’iconografia cristiana immergendoci in un Lete ove la memoria si scioglie nel fiume della vita e della morte senza soluzione di continuità. Gli occhi chiusi sembrano ricordarci che ormai tutto è stato esperito e non resta che guardare in noi stessi e lasciarsi andare. Osservare questa divinità mitologica permette di sentire la forza catartica di un’esperienza insieme teatrale e mistica. Espressivo e profondamente umano, al contrario, il volto di Jayavarman VII (il re che conquistó il regno dei Cham, situato nel moderno Vietnam), proveniente sempre da Angkor Thom. Pur appartenendo al medesimo stile e periodo, qui la mano dello scultore sembra puntare su una stlizzazione straordinariamente moderna che riesce, in pochi tratti incisi con ferma delicatezza, a restituire il carattere e a comunicare una capacità di introspezione che trascende le culture e travalica il tempo. Chiude questa Sala imperdibile, Duryodhana (personaggio del Mahābhārata), in stile Koh Ker (seconda metà del X° secolo d. C.), che si confronta con il rivale Bhima. A fianco, la medesima scena (stesso stile e periodo) ma proposta in un bassorilievo realizzato con una serie di blocchi affiancati e sovrapposti per inserirsi perfettamente in un frontone. La cesellatura dei corpicapi unita alla rotondità delle forme e all’espressività dei volti fieri degli avversari ne fanno un piccolo capolavoro.
Nella Sala successiva, intenso anche il confronto tra Valin e Sugriva (tratto dal poema epico Rāmāyaṇa), in stile Koh Ker, della prima metà del X° secolo; e curiosa la statua di Vajimukha, la figura teriomorfa che rimanda inevitabilmente alla statuaria dell’antico Egitto per il volto animale (in questo caso, equino) su corpo umano, la posizione ieratica e il gonnellino a pieghe sottili. La medesima figura mitologica torna nella Sala successiva con forme più arcaiche ma maggior movimento del busto e dell’anca, appartenendo al periodo pre-Angkor (fine del VI°/ inizio del VII° secolo d. C.). Due ciuriose statue si susseguono a qualche passo di distanza: Skanda (ossia lo zampillante), Deva della guerra che cavalca il Pavone, finemente inciso per rendere sia il magnifico piumaggio sia il ricco copricapo (stile Koh Ker, X° secolo d. C.); e ancora Skanda col padre Śiva (del medesimo periodo e provenienza), che si fa notare per l’atmosfera familiare della composizione.
Imponente e di una precisione meticolosa la stuatua di Vishnu, che si discosta dalle altre per il materiale utilizzato, lo scisto, ed è altresì antecedente, ossia del VI° secolo a. C. Accanto, un coevo Balarāma (figura che rappresenta Vishnu quando scende sulla Terra) con capigliatura a boccoli, che lo fa assomigliare stranamente a un kùros dell’Antica Grecia. Anche l’adiacente Paraśurāma (nell’induismo, altro avatara di Vishnu), in stile Phnom Da (inizio VI° secolo d. C.), con gonnellino e movimento dell’anca, oltre che capigliatura a boccoli, ha un che di greco arcaico. Da notare, inoltre, l’altorilievo (stessi stile e periodo) di Krishna Govardhana, espressivo e dotato di un movimento sinuoso del corpo. Di fronte, anche alcuni esempi di Linga e Yoni, simboli sessuali comuni alla tradizione di molti altri popoli cone, ad esempio, i balinesi. E accanto, la statua di Devī, in stile Sambor Prei Kuk (VII° secolo s. C.), ritrovata da Adhémard Leclère sull’isola di Krieng, e soprannominata localmente donna di tutte le perfezioni, si contraddistingue per il torso nudo (come le statue minoiche) con sarong stretto in vita da una cintura ornata di pietre. Elegante l’elaborata acconciatura. Furbo, infine, lo sguardo di un Ganesh in stile Sambir Prei Kuk, del VII° secolo.
Nelle ultime sale, dove giace un Buddha reclinato molto arcaico e la testa e parte del torso di un Vishnu anch’esso reclinato (dell’XI° secolo e con assonanze con le opere contemporanee di Igor Mitoraj), si nota Harihara (metà Śiva e metà Vishnu, secondo l’induismo classico, in stile Sambir Prei Kuk, datata VIII° secolo d. C.), una statua di giovane dagli addominali scolpiti perfettamente, con delicato appoggio sull’anca e la gamba destra e un’espressione enigmatica (quasi un sorriso alla Monna Lisa), che non può, ancora una volta, non rimandare alla statuaria della Grecia antica, soprattutto di epoca classica. E infine un Buddha in piedi stranamente molto rilassato, con mantello aderente alle forme e occhi semichiusi proveniente da Angkor Borei in stile Phnom Da, del VI° secolo d. C.
Chiudono il museo i piedi di Shiva, una serie di steli in antico Khmer e, avendo girato tutto intorno in senso antiorario, ci ritroviamo nuovamente all’entrata e a un’altra serie di pannelli di legno dipinti con divinità e demoni. Nelle teche anche alcune pregevoli statue in bronzo di varia epoca.
Tra una Sala e l’altra, il giardino che sorge centralmente al museo, tra verzure e vasche con orchidee e pesci, offre un angolo piacevole e silenzioso ove riposare e riflettere.
venerdì, 12 aprile 2024
In copertina: il giardino del Museo Nazionale della Cambogia (foto di Simona Maria Frigerio)