Intervista ad Abeer Odeh, Ambasciatrice dello Stato di Palestina in Italia
di Simona Maria Frigerio
grafica di Lucia Mazzilli
18 maggio 2021, ore 17.00. Prima di iniziare a registrare le parole che mi giungono da Ramallah, chiudo gli occhi e immagino.
“Io mi ricordo, sì mi ricordo”. I nazisti occupano la Polonia. E io sono ebrea, indosso un bracciale con la stella gialla e i muri si innalzano, giorno dopo giorno, intorno a me. Varsavia ci rinchiude in due settori tagliati a metà da un’autostrada, mentre i 14 accessi sono sbarrati, uno a uno, con il filo spinato e presidiati. Con il passare del tempo le razioni alimentari si riducono al minimo, finché iniziano le deportazioni e, in pochi mesi, tra luglio e settembre del ʻ42, forse 300 mila ebrei sono sterminati a Treblinka. Il 18 gennaio del ʻ43 si rimette in azione la macchina della soluzione finale. Le SS entrano nel ghetto per rastrellare altri di noi e smantellare ciò che resta delle nostre case. Ma in pochi, per la prima volta, spariamo: resistiamo all’occupante. Le SS sterminano un migliaio di ebrei ma devono ritirarsi. È il 19 aprile 1943 quando le operazioni ancora una volta riprendono. L’ordine è chiaro: “annientare gli ebrei e i banditi del quartiere ebraico”. Nel ghetto siamo rimasti in poche centinaia contro l’esercito tedesco, il più potente al mondo – male armati, denutriti, nascosti in bunker sotterranei arrangiati nel corso dell’inverno. Ma di una cosa siamo certi: ci opporremo – al rastrellamento e alle deportazioni. Noi, ebrei, resisteremo ai nazisti. Con ogni arma e con ogni mezzo a disposizione.
Riapro gli occhi. Sono italiana. Gli italiani, nel 2021, sono andati in tilt per aver dovuto rinunciare all’apericena per qualche mese. In milioni, ci siamo stressati con un coprifuoco senza bombardamenti, rifocillandoci in case fornite di ogni comfort con device di ultima generazione e la comodità del take-away. Nemmeno alle sigarette abbiamo dovuto rinunciare. Ma la spesa per gli ansiolitici e le violenze domestiche raccontano la storia di un popolo sfibrato, privo di consapevolezza, di senso delle proporzioni, di coscienza verso ciò che accadeva 80 anni fa, o che accade ancora oggi solo a pochi chilometri dai dorati cancelli d’Europa.
E a questi italiani chi può raccontare cosa significa essere un palestinese – sotto occupazione, esiliato, sottoposto a pulizia etnica e genocidio da 73 anni? Tre generazioni – non un lustro o qualche mese. È l’ambasciatrice dello Stato di Palestina, Abeer Odeh, a raccontarci cosa significhi. Con la sua voce pacata, con un tono sofferto ma con spirito indomito – come quello del suo popolo, che resiste da 73 anni. Pensateci, anzi pronunciate il numero ad alta voce: la maggior parte di voi nemmeno era nata 73 anni fa – forse nemmeno i vostri genitori lo erano. Oggi io sono palestinese – dobbiamo essere tutti palestinesi.
Pensa che una parte della popolazione israeliana sia disposta a riconoscere lo Stato di Palestina e a riconsegnare al suo popolo i territori occupati, compresa Gerusalemme Est?
Abeer Odeh: «Veramente non vedo la società israeliana disposta a farlo. I palestinesi sono colpiti in tutto il territorio israeliano, e scontri si verificano un po’ ovunque. Bisogna riportare il diritto al riconoscimento dello Stato di Palestina nel suo giusto contesto. Questa è la chiave per la soluzione del problema. Ovviamente non si può dire che tutti gli israeliani la pensino allo stesso modo. B’Tselem [una tra le maggiori organizzazioni israeliane per i diritti umani che, nel rapporto del gennaio 2021, ha affermato come Israele “non possa considerarsi una democrazia finché continua l’occupazione dei Territori Palestinesi”, n.d.g.] ha dichiarato che Israele è uno Stato che pratica l’apartheid. Vi sono anche altre voci che chiedono la pace ma non sono molte».
Il rinvio delle elezioni palestinesi può essere stata una delle cause della presente crisi?
A. O.: «Può essere una tra le ragioni dato che gli israeliani avrebbero impedito ai palestinesi, che vivono a Gerusalemme, di votare. Penso, quindi, che sia una tra le cause ma non la principale. Bisogna iniziare dalle espulsioni e dalla pulizia etnica a Sheikh Jarrah [quartiere di Gerusalemme Est, n.d.g.], dove le famiglie palestinesi rischiano di essere espropriate e le loro case occupate dai coloni. Altro motivo scatenante è stato la violenza della polizia e dei coloni contro i credenti palestinesi riuniti [presso la Spianata delle Moschee, n.d.g.] per l’ultima preghiera del venerdì, prima della fine del Ramadan. I palestinesi sono stati attaccati con proiettili di gomma e lacrimogeni, anche dentro una moschea [di Al-Aqsa, n.d.g.]. Tutti questi fatti hanno reso la situazione insostenibile fino un’escalation di violenza, di cui è responsabile Israele».
Lei ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Economia dello Stato di Palestina, dal 2015 al 2019. Com’era allora la situazione economica nella Striscia di Gaza?
A. O.: «Ho visitato Gaza a più riprese, nel 2017 e nel 2018, e come ho già dichiarato ai media è un disastro, un autentico disastro. La disoccupazione giovanile in quel momento era superiore al 60% e ho allertato la comunità internazionale che la situazione era allarmante perché i giovani non avevano lavoro, casa, speranze per il loro futuro. L’80% della popolazione a Gaza dipendeva dagli approvvigionamenti alimentari e oltre il 50% era sotto la soglia di povertà. Ovviamente, adesso la situazione è persino peggiorata. Tutti questi fattori sono campanelli d’allarme perché la gioventù non può vivere senza la speranza e una certa dose di benessere. Purtroppo la comunità internazionale è rimasta in silenzio e ha permesso che Israele rimanesse impunito».
Lei è Ambasciatore e, precedentemente, era Ministro. Qual è il ruolo delle donne nello Stato di Palestina?
A. O.: «Le donne in Palestina stanno conquistando i propri diritti. Le donne sono onorate e si attribuiscono loro molte responsabilità. Ci sono donne ministri, governatori e sindaci. Anche nel Parlamento siedono delle donne. A livello di istruzione scolastica, il 56% dei laureati è composto da donne. Siamo un elemento integrante della società. Lo Stato di Palestina è diverso da qualsiasi altra nazione!».
Le colonie israeliane in Cisgiordania hanno continuato a espandersi negli ultimi anni, nonostante la risoluzione dell’Onu del 2016, che le considerava “una violazione palese del diritto internazionale e un grande ostacolo per ottenere la pace”?
A. O.: «Purtroppo l’espansione è continuata ed è persino aumentata dopo che Israele ha dato il via libera, l’anno scorso, alla costruzione di nuove abitazioni [non solo in Cisgiordania ma altresì a poca distanza da Betlemme, dove il progettato quartiere di Givat Hamatos separerebbe per sempre la Cisgiordania da Gerusalemme Est, eliminando quella continuità territoriale indispensabile per creare uno Stato palestinese, n.d.g.]. Tutto questo in violazione delle leggi internazionali, e soprattutto della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lei ha citato, e che ha visto – per la prima volta – l’astensione degli Stati Uniti e il voto a favore di 14 Stati su 15. Risoluzione che è stata approvata proprio perché gli Usa non hanno posto il veto».
A parte il sostegno ‘morale’ o le frasi di rito, l’Unione Europea si sta seriamente impegnando a fare della Palestina uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme Est?
A. O.: «È una domanda difficile, questa. Sfortunatamente ciò che noto è che l’Unione Europea, in particolare ora, copre Israele affermando che lo Stato d’Israele ha il diritto di difendersi. Non si è mai sentito che uno Stato occupante difenda se stesso. La situazione è davvero critica. Vista l’importanza della UE, la sua vicinanza al Medio Oriente, le dichiarazioni di principio che ha sempre ribadito, ci sarebbe da attendersi dall’Unione e dall’Italia che agiscano in base alle loro stesse dichiarazioni di principio. È inaccettabile che nel ventunesimo secolo, quando le regole sono internazionali e si è tutti parte di un sistema complesso che pretende il rispetto dei diritti umani e che considera tutti gli essere umani come eguali, qualcuno possa agire diversamente».
Può spiegare cosa sta succedendo a Gerusalemme Est? Perché si definisce ‘pulizia etnica’ l’esproprio e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case?
A. O.: «La questione fondamentale è l’occupazione e l’espansione delle colonie. Israele sta praticando una forma di pulizia etnica. Ma non è una novità. Lo sta facendo fin dal 1948. Il 15 maggio si celebra l’anniversario dell’esodo palestinese, la Nakba [ossia la Catastrofe, che nel 1948 comportò la distruzione di 531 villaggi palestinesi e l’esilio forzato di circa 700 mila persone, n.d.g.]. Da allora hanno continuato con tale pratica. Nel quartiere di Sheikh Jarrah, i palestinesi posseggono tutta la documentazione necessaria a dimostrare il giusto possesso delle loro proprietà e dell’area, ma questo non impedisce a Israele di espellerli in favore dei coloni che non hanno alcun diritto sulle loro case. Va anche detto che per lungo tempo i palestinesi hanno portato avanti dimostrazioni pacifiche contro questa decisione di Israele, appellandosi anche alla comunità internazionale e alle varie nazioni singolarmente. Mi basti menzionare che il nostro Ministro degli Esteri [Riyad al-Maliki, n.d.g.] ha incontrato il Ministro Luigi Di Maio una decina di giorni fa [lo scorso 6 maggio, n.d.g.] riferendogli quanto stava accadendo a Gerusalemme Est e, quindi, l’Italia era consapevole di quanto succedeva. Purtroppo senza un’azione diretta, se non si preme su Israele perché ponga fine all’occupazione, rispetti i diritti umani e si attenga alle leggi internazionali, non succederà niente. Ormai più e più volte, nel corso dei decenni, lo abbiamo sperimentato: non cambia mai nulla. Stiamo perdendo i nostri bambini, degli innocenti, ma la situazione si ripete all’infinito. Anche Human Rights Watch ha accusato Israele di apartheid ma la comunità internazionale ha continuato a coprirlo, garantendogli l’impunità».
Cosa pensa degli Accordi di Abramo del 2020 o, meglio, dell’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti?
A. O.: «Occorre chiarire il quadro. Attualmente, vi sono dimostrazioni in ogni Paese arabo a sostegno dei palestinesi e della Palestina. Io credo sia importante ricordare che nel 2002 l’Arabia Saudita propose un accordo di pace molto chiaro e sostenuto da tutti i Paesi membri della Lega Araba, accettato anche dai palestinesi, che prevedeva uno Stato indipendente entro i confini precedenti al 1967 [ossia alla Guerra dei sei Giorni, n.d.g.] con capitale Gerusalemme Est».
Lei è a Ramallah in questo momento. Com’è la situazione a Gaza e in Cisgiordania? Giungono notizie che nella Striscia mancherebbero cibo e acqua. È corretto?
A. O.: «Sì, è corretto. A Gaza c’è carenza o mancano del tutto acqua, medicine, cibo, gas, elettricità, e sono stati distrutti sei ospedali finora. Abbiamo registrato circa 240 morti, tra i quali principalmente bambini, donne e anziani; e 55 mila persone sono rimaste senza casa. Potete immaginarvi cosa significhi questo? La situazione è davvero molto grave e ancora in questo momento registriamo bombardamenti da parte degli israeliani. Voglio anche ricordare che oggi [il 18 maggio, n.d.g.] in tutta la Cisgiordania, a Gaza e anche in Israele, il 100% dei palestinesi è in sciopero. Vi sono manifestazioni ovunque sia in Palestina, sia in Israele laddove vi sia presenza di palestinesi – da Betlemme a Ramallah a Gerusalemme, ovunque».
Vuole fare un appello agli italiani attraverso il nostro Settimanale?
A. O.: «Vorrei chiedere ai cittadini e ai politici italiani di sostenere la lotta dei palestinesi. Non si può supportare gli oppressori, bisogna inserire i fatti nel loro giusto contesto: siamo sotto occupazione da decadi, siamo sottoposti a pulizia etnica, siamo vessati eppure siamo sempre noi sotto accusa. Noi siamo l’unica nazione che è ancora oggi sotto occupazione. Per favore, svegliatevi!».
Speciale, mercoledì 19 maggio 2021
In copertina: Abeer Odeh, Ambasciatrice dello Stato di Palestina in Italia (gentilmente fornita dall’ufficio stampa dell’Ambasciata).
(Nell’articolo, gallery fotografica a cura di Lucia Mazzilli).