“Un giorno o l’altro le cose cambieranno…” e non so se quella frase fosse una preghiera, una minaccia, o le due cose insieme (1)
di Simona Maria Frigerio
A Buenos Aires la palla passa nuovamente alla destra. Le politiche liberiste che propugna Javier Milei, nuovo Presidente eletto, sono solamente un po’ più ‘fantasiose’ di quelle del neolibearista Mauricio Macri che ha cercato, tra il 2015 e il 2019, di ‘rimettere in sesto’ le Casse dello Stato tagliando drasticamente – come da prassi – i sussidi per i trasporti, l’elettricità e il gas. Macri, pur riducendo le tariffe sui semi di soia – impoverendo così ceti rurali e meno abbienti – non è riuscito comunque a ridurre l’inflazione e, anzi, con l’aumento dei tassi di interesse statunitensi, il Paese ha assistito a una fuga di capitali (ovviamente soprattutto stranieri e speculativi) finché la Banca centrale argentina non è stata costretta essa stessa ad aumentare i propri (il che, ovviamente, ha causato nuovi disavanzi di bilancio statali per ripagare i medesimi). Persino i 57 miliardi di dollari ‘iniettati’ nel sistema dal FMI – che ha imposto, in cambio, la solita ‘medicina amara’ del rialzo del costo di tutti i servizi pubblici perfino del 100% – non hanno ‘salvato’ il Paese, bensì impoverito la classe media, e portato al di sotto della soglia di povertà un argentino su tre. Niente di nuovo sotto il sole: il meccanismo liberista del capitalismo finanziario globalizzato – permesso e sostenuto da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – agisce sempre secondo le medesime direttrici e, ogni volta, fallisce a livello di benessere delle popolazioni locali ma ottiene ottimi risultati per gli speculatori – che ormai reggono le sorti delle economie nazionali.
Gli argentini, in ogni caso, sembra se ne siano scordati o, forse, il peronismo è riuscito troppo poco (e troppo tardi) a liberarsi della sudditanza agli States e ai potentati finanziari internazionali sì da immaginare nuovi modelli di produzione e sviluppo – svincolati dalle logiche capitalistiche occidentali. Logicamente, quindi, dopo la ‘pausa’ pseudo-peronista di Alberto Fernández (che, però, era riuscito a fare approvare la Legge sull’Interruzione Volontaria di Gravidanza in un continente tuttora machista come l’America Latina. Legge che Milei vuole abolire a seguito di referendum), l’Argentina ritenta la ‘carta’ della destra, sperando forse (come l’Ucraina di Zelensky) che, avendo per Presidente un personaggio socialite, il quale spara a zero contro tutto e tutti, l’intera popolazione questa volta ‘sbancherà’, sebbene con ‘mani’ che, come sempre, paiono né più né meno che bluff.
In particolare, si fa notare l’annuncio di voler rinunciare alla valuta nazionale e alla Banca centrale affidandosi al ‘dio’ dollaro. Forse all’ex conduttore radiofonico argentino nessuno ha fatto notare che quando uno Stato non ha più una Banca centrale, perde anche la possibilità di utilizzare la politica monetaria in funzione, ad esempio, anti-inflattiva o per scegliere come investire eventuali riserve auree, finanziando imprese o settori sui quali lo Stato può e deve puntare – cosa in cui è stata maestra la Russia del Presidente Putin. Per comprendere fino a che punto questa sia una scelta suicidaria, rimandiamo sia all’interessante libro dell’economista statunitense Stephanie Kelton, Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo (2), sia all’esperienza italiana. In effetti, quando il nostro Paese uscì dallo SME riuscì a ottenere quel “riallineamento ampio dello Sme che l’Italia aveva proposto senza successo nel settembre 1992”, mentre “la nostra Banca centrale riportava gradualmente il tasso di sconto ai livelli pre-crisi e ricostituiva le riserve in valuta” (da IlSole24Ore). In pratica, riacquisendo la sovranità sul proprio sistema di cambio l’Italia salvò l’economia del Paese.
Al contrario, e lo vediamo oggi con l’Euro, quando si adotta un’altra valuta si finisce per sottostare alla politica monetaria di una Banca centrale che non risponde politicamente (ma nemmeno geograficamente o ‘affettivamente’) al nostro Paese e che anteporrà sempre gli interessi dei propri investitori a quelli dei comuni cittadini. Questo lo stiamo verificando oggi, come privati e come aziende, di fronte alle scelte della BCE, che privilegia le rendite finanziarie (di investitori internazionali) alle necessità delle aziende produttive e delle famiglie (nei vari Stati nazionali).
Come potrebbe l’Argentina giovarsi delle scelte della Federal Reserve, la Banca centrale statunitense, se mai adottasse il dollaro? Il problema in Argentina (che, tra l’altro, ha annunciato che non entrerà nei Brics e non potrà, quindi, accedere ai prestiti della Nuova Banca di Sviluppo la quale, almeno sulla carta, ha finalità diverse dal FMI e dalla Banca Mondiale, ossia non vuole solamente impoverire le popolazioni per continuare a sfruttarle a favore di un capitalismo finanziario globalizzato), come in tutti i Paesi ‘periferici’ rispetto ai ‘centri’ di potere, è che se lo Stato non assume il controllo del surplus o dell’accumulazione (2) – il che significa poter contare sugli investimenti delle aziende locali, dei cittadini privati e dello Stato – non riuscirà mai a sottrarsi allo sfruttamento del lavoro; alla dipendenza tecnologica e di know-how; al depauperamento delle risorse minerarie e naturali a favore di multinazionali straniere; e alle ‘ricette’ del Fondo Monetario Internazionale – che mira a che quel gap esistente oggi, tra centro e periferia, non sia mai superato perché, altrimenti, il centro (leggasi gli Us) perderebbe il predominio geo-politico ed economico.
E adesso veniamo al discorso di Milei a Davos che non fa che da controprova al nostro inciso finale.
Torna in auge il pensiero economista neoclassico (astorico)
Nei giorni scorsi Milei ha tenuto un discorso fiume nel consesso dei potenti della Terra. Ne riportiamo alcuni stralci, tratti dalla dichiarazione originale fornita dalla stampa italiana (4), con alcune, brevi considerazioni a latere.
«Oggi sono qui per dirvi che l’Occidente è in pericolo. È in pericolo perché coloro che dovrebbero difendere i valori dell’Occidente sono cooptati da una visione del mondo che conduce inesorabilmente al socialismo e, di conseguenza, alla povertà».
In realtà il capitalismo transnazionale attuale è in crisi a causa del suo stesso modello di sviluppo. Non riuscendo più a sfruttare le periferie senza che queste si trasformino, o pretendano di trasformarsi, in centri (di accumulo di capitale e controllo della produzione e della tecnologia), viene meno la possibilità per questo capitalismo di creare un plus valore da immettere nel sistema finanziario globalizzato, che è ormai la sua principale fonte di reddito. Al contrario, in tutto l’Occidente e, soprattutto in Europa, vediamo un progressivo deterioramento del welfare state e uno spostamento della spesa pubblica verso il finanziamento del riarmo (con dichiarazioni europee ufficiali sempre più belliciste), e il risanamento dello stesso debito pubblico (con politiche di tagli miliardari alla spesa sociale).
«Per tutto il periodo compreso tra l’anno zero e l’anno 1800, il Pil mondiale pro capite è rimasto stagnante», ha continuato Milei: «Ebbene, non soltanto il capitalismo ha generato un’esplosione di ricchezza dal momento in cui è stato adottato come sistema economico ma, se si analizzano i dati, quello che si osserva è che questa crescita è stata in accelerazione durante tutto il periodo… E se prendiamo il periodo tra il 1950 e il 2000, vediamo che il tasso di crescita è stato del 2,1% composto annuo, il che porterebbe che in soli 33 anni potremmo raddoppiare il Pil mondiale pro capite… Se prendiamo il periodo tra il 2000 e il 2023, il tasso di crescita accelera nuovamente al 3% annuo. Il che implica che si potrebbe raddoppiare il nostro Pil pro capite in soli 23 anni». E chiude con: «Non dobbiamo mai dimenticare che nel 1810 circa il 95% della popolazione mondiale viveva nella più estrema povertà, mentre quel numero è sceso al 5% nel 2020, prima della pandemia. La conclusione è ovvia: lungi dall’essere la causa dei nostri problemi, il capitalismo della libera impresa come sistema economico è l’unico strumento che abbiamo per porre fine alla fame, alla povertà e all’indigenza in tutto il pianeta». Anche più avanti torna sull’argomento, rincarando: «Non c’è mai stato, nella storia dell’umanità, un momento di maggiore prosperità di quello che viviamo oggi. Il mondo di oggi è più libero, più ricco, più pacifico e più prospero di qualsiasi altro momento della nostra storia. Questo è vero per tutti, ma è particolarmente vero per i Paesi più liberi, dove vengono rispettati la libertà economica e i diritti di proprietà dei singoli».
Senza considerare il peso delle tecnologie sulla produzione dalla rivoluzione industriale in avanti e, quindi, sui dati forniti da Milei, già Samir Amin, circa 40 anni fa, confutava questa visione semplicistica. Considerare il capitalismo come forza irrefrenabile di sviluppo, o i Paesi più liberali/democratici, come i più ricchi perché le loro forme politiche sarebbero le migliori, è idea di economia neoclassica astorica. Vi si è già risposto con il discorso dello sviluppo ineguale, ma vorremmo qui succintamente fare un paio di esempi chiarificatori: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno accumulato capitale e sono diventati centri di potere perché più liberi o abitati da cittadini più intelligenti e con piglio maggiormente imprenditoriale, ma perché il primo ha usato la forza lavoro degli schiavi e dei migranti, e il secondo un Impero da depredare a livello di risorse umane e naturali. Per quanto riguarda la povertà, su cui torneremo, non va solo detto che la ricchezza (o il benessere, ricordate il Bil?) non corrisponde direttamente al Prodotto Interno Lordo e il reddito pro-capite è una media spesso fuorviante soprattutto laddove la forbice salariale è ampia, ma dai dati della Banca Mondiale pubblicati nel 2023, in Africa sub-sahariana ben 15 Paesi hanno almeno il 90% della popolazione che vive con un reddito disponibile inferiore alla soglia dei 6,85 dollari al giorno. Nel mondo circa 3,5 miliardi di persone (che sono il 40% e non il 5% rivendicato da Milei…) si trovano in questa condizione. E stiamo parlando (per considerare la soglia di povertà) di una cifra ridicola come 210 euro al mese. Quelli appena al di sopra al momento non li consideriamo per non far sfigurare del tutto il nuovo Presidente.
Ma proseguiamo. «Dicono che il capitalismo è male perché individualista e che il collettivismo è bene perché altruista e, di conseguenza, lottano per la giustizia sociale… Il problema è che la giustizia sociale non solo non è giusta, ma non contribuisce neanche al benessere generale. Al contrario, è un’idea intrinsecamente ingiusta, perché violenta. È ingiusto perché lo Stato si finanzia attraverso le tasse e le tasse sono riscosse in maniera coattiva».
Vero e le tasse dovrebbero sempre essere conteggiate in misura proporzionalmente maggiore con l’aumentare del reddito. Questo semplicemente perché non viviamo in una giungla. Il Presidente Milei si dimentica, e anche qui facciamo un banalissimo esempio, che per portare le merci al porto occorrono strade e ponti, oltre che un porto. E strade, ponti e porti non li costruisce l’imprenditore a proprie spese ma la collettività, attraverso la tassazione, e l’imprenditore edile ne ha un guadagno immediato mentre il produttore di merci differito. Ma non solo. Se razziano un magazzino, chi svolgerà il ruolo della polizia e della magistratura? O Milei immagina un Paese in mano alle milizie private? E se il lavoratore si ammala (in questo suo sogno da economia pre-globalizzazione, quasi pre-luddista), l’imprenditore non ci rimette perché perde manodopera specializzata e plus-valore? Quindi, occorrerà avere un medico che possa curare il paziente. Eppure, in un sistema privatistico, il lavoratore non potrà ricorrere a un medico per motivi economici e i giorni in cui sarà malato saranno di più. A meno che Milei non pensi che quando un lavoratore si ammala (come accade in molti Paesi della periferia capitalistica), possa essere immediatamente licenziato e sostituito da un altro – il che equivarrebbe a considerare il know-how inutile in una fase di capitalismo avanzato, e questo è un errore di fondo: non siamo più in una fase di produttività espansiva in cui basta saper cucire a cottimo mantelline di loden! Il problema non è il carico fiscale ma la sua distribuzione anche sui profitti delle imprese (al che dovremmo fare riforme internazionali contro i paradisi fiscali) e il suo utilizzo per il progresso sociale, lo sviluppo delle imprese economicamente sane e il benessere dei cittadini.
Milei si fa filosofo quando afferma: «Chi promuove la giustizia sociale parte dall’idea che l’economia nel suo complesso sia una torta che può essere distribuita in modo diverso. Ma quella torta non viene data, è ricchezza che si genera in quello che Kirzner chiama un processo di scoperta. Se il bene o il servizio offerto da un’azienda non è desiderato, quella azienda fallisce a meno che si adatti a quello che il mercato chiede. Se produce un prodotto di buona qualità a un prezzo attraente, andrà bene e produrrà di più».
Al di là che il desiderio di beni è un processo indotto fin dagli anni del cosiddetto boom economico, e che oggi la ricchezza del capitalismo transnazionale è dovuta alla finanza e non all’economia reale, le aziende in perdita spesso sono letteralmente salvate proprio dagli Stati con interventi miliardari a cui gli imprenditori non si sono mai opposti. Inoltre, il prezzo cosiddetto attraente spesso non è dovuto a ricerca e sviluppo di prodotti innovativi ma semplicemente alla delocalizzazione della produzione in aree dove il costo del lavoro è inferiore.
Confutata, dalla realtà dei fatti, la successiva affermazione: «Per ultimo, e non meno importante, il capitalismo è virtuoso perché promuove la pace. “Dove entra il commercio, non entrano i proiettili” diceva Bastiat. O come ha detto lo stesso Milton Friedman: “Posso odiare il mio vicino, ma se non compra il mio prodotto andrò in bancarotta”».
I dati ufficiali dicono che nel 2023 le guerre in corso erano 59. Un numero che corrisponderebbe al livello più alto dal 1945. Non solo. Dalla Libia alla Siria fino all’Iraq (che a Davos ha chiesto alla Coalizione capeggiata dagli States di ritirarsi dal Paese) sappiamo bene perché ha agito l’Occidente negli ultimi 30 anni: per depredare risorse e spodestare Governi recalcitranti ai diktat statunitensi. Gli Us e l’Europa sono oggi impegnate in conflitti – dall’Ucraina al Medio Oriente – anche per un’altra ragione: la destabilizzazione di aree sufficientemente ampie per far ripartire il ciclo e prosperare il capitalismo transnazionale. Gli spazi periferici di sfruttamento sono agli sgoccioli e i due anni pandemici hanno solo dato tempo ai think tank di Davos per ripensare le strategia e optare per lo sforzo bellicista che stanno dispiegando.
Proseguiamo. In questo passaggio Milei manca del tutto di contatto con la realtà: «Dico che l’Occidente è in pericolo proprio perché in quei Paesi dove dobbiamo difendere i valori del libero mercato, della proprietà privata e delle altre istituzioni del libertarismo, settori dell’establishment politico ed economico, alcuni per errori nel loro quadro teorico e altri a causa dell’ambizione di potere, stanno minando le basi del libertarismo, aprendo le porte al socialismo e potenzialmente condannandoci alla povertà, alla miseria e alla stagnazione». Ci pare, al contrario, più centrata l’affermazione di poco oltre: «È proprio l’accumulo di capitale a spiegare la crescita esponenziale del Pil mondiale negli ultimi 200 anni. Perché è l’accumulo di capitale e la divisione del lavoro che consentono di aumentare la produttività e ottenere rendimenti di scala crescenti».
Ovvio, peccato che questi due paradigmi (accumulo del capitale e controllo della produzione) uniti al possesso di know how e tecnologie (che il G7 vuole monopolizzare e mantenere, non a caso, sotto il proprio controllo, come da dichiarazione finale del 2023), oltre che delle risorse minerarie e naturali, siano stati disattesi proprio nei Paesi del Sud del mondo, creando lo sviluppo diseguale sotto i nostri occhi. Facciamo due semplici esempi. Il Sahel è stato depredato per decenni dalla Francia con un sistema marcatamente neocoloniale; l’Argentina continua a ricorrere al Fondo Monetario Internazionale o ai prestiti stranieri, indebitandosi e gettando al vento percentuali di Pil in interessi. Le ricette dell’FMI, del resto, non hanno mai funzionato – come dimostra il caso della Grecia – ma servono solo a contrarre i diritti e il welfare e ad arricchire il capitale transnazionale palesemente in crisi – a causa del consolidamento di un fronte arabo, dello sviluppo impetuoso dei Brics, della tenuta dell’alleanza sino-russa, dei rinati nazionalismi latino-americani e africani.
Milei forse per compiacere l’ala più retriva (che accarezza anche ventilando un referendum per abolire il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza) afferma: «Prima di queste nuove battaglie è stata la lotta ridicola e innaturale tra l’uomo e la donna… Questa agenda del femminismo radicale ha causato un maggiore intervento dello Stato per ostacolare il processo economico e ha dato lavoro a burocrati».
Così dimentica, però, dati alla mano, che i Paesi dove le donne lavorano sono quelli che hanno il Pil (unico parametro con il quale lui stesso definisce il benessere di un Paese) più elevato, ovviamente perché vi concorrono a formarlo percentuali più alte di popolazione che lavora e produce. Le donne improduttive, in un sistema capitalistico, sono un lusso che solamente i Paesi arabi ricchi di petrolio possono permettersi.
Riguardo al green, Milei sbaglia nuovamente bersaglio: «Un altro dei conflitti che i socialisti sollevano è quello dell’uomo contro la natura. Sostengono che gli esseri umani danneggiano il pianeta, che va protetto a tutti i costi, fino a difendere i meccanismi di controllo della popolazione o la tragedia dell’aborto. La cosa più crudele dell’agenda ambientale è che i Paesi ricchi, che sono diventati ricchi sfruttando legittimamente le loro risorse naturali, cercano ora di espiare la propria colpa punendo i Paesi più poveri e impedendo loro di sviluppare le loro economie, condannandoli per un presunto crimine che non hanno commesso».
In realtà chi si sta battendo a fianco di Greta Thunberg (ma non se vuole chiudere le miniere a carbone o difendere i bambini palestinesi) è, in primis, Ursula von der Leyen e lo scopo precipuo è, probabilmente, far accettare agli europei un impoverimento generalizzato da de-industrializzazione e riconversione energetica dovute alla guerra contro la Russia, che non ha portato quest’ultima a implodere trasformandosi in un bancomat energetico, nel quale non avremmo nemmeno più dovuto inserire la carta di credito per prelevare gas, petrolio e uranio. Per quanto riguarda il Sud del mondo, come hanno ribadito i Paesi africani durante il Summit a San Pietroburgo solo pochi mesi fa, le politiche green dovranno tenere conto di chi ha finora inquinato (sfruttando non le proprie ma le risorse energetiche altrui), che il loro sviluppo non può essere condizionato dagli errori commessi dall’Occidente in passato, e soprattutto che le tecnologie e il know-how green dovranno essere forniti senza aggravio per il loro debito pubblico.
Infine Milei spiega la crisi argentina in maniera perlomeno fantasiosa: «Un Paese che all’inizio del XX secolo era il più ricco del mondo, oggi ha circa il 50% della popolazione al di sotto della soglia di povertà e conta il 10% di indigenti, quando l’Argentina è un Paese che produce alimenti per 400 milioni di esseri umani. Dove finisce tutto quel cibo?… La risposta è che lo Stato si appropria del 70% di ciò che viene prodotto».
Su questo abbiamo già risposto ma facciamo un breve ripasso di storia, materia che il Presidente non sembra maneggiare con destrezza: “Le prime difficoltà economiche dell’Argentina risalgono al XIX. Prima, negli anni ’20, per ripagare al Regno Unito un prestito per il finanziamento di una serie di opere pubbliche; il pagamento in questione non solo avviene per un valore pari a otto volte quanto ricevuto, ma tramite lettere di cambio (il Paese quindi a inizio 1900 è provvisto di pochissimi depositi in oro)” (5). In breve, non navigava già in buone acque e sempre per il medesimo motivo.
L’Argentina ha, quindi, due problemi che si trascina da decenni: l’inflazione (causata anche dalla necessità di continuare ad attrarre capitali stranieri aumentando gli interessi sui bond) e debito pubblico (in mano anche al succitato capitale straniero). Non a caso è stato appena rifinanziato il prestito da 36 miliardi di euro con il Fondo Monetario Internazionale. In realtà, i tagli al welfare e la svendita del patrimonio pubblico che imporrà Milei sono ricette ormai applicate ovunque (compresa l’Argentina del recente passato) e non serviranno a dare impulso all’economia nazionale ma a pagare gli interessi sul debito. Finita la svendita (con aumenti nei costi dei servizi) e tagliato il welfare, diminuirà la domanda interna e si rinnoverà il problema di come rifinanziare il debito, ma a quel punto non ci sarà più nulla da vendere. Teniamo anche conto che quando la collettività si priva di un bene pubblico, ad esempio l’acqua con la privatizzazione dell’acquedotto e della rete di distribuzione, o quando privatizziamo delle municipalizzate (magari milanesi) del gas o della luce, sono poi gli stessi Comuni che ne usufruiscono (e che prima ci guadagnavano, oltre che spendere) a perderci, in quanto possono solo pagare le bollette ma non incamerano più gli introiti delle nostre.
La conclusione sembra la parafrasi del motto di Steve Jobs. Vi ricordate: Stay Hungry. Stay Foolish? Milei lo ripropone con varianti: «Siete benefattori sociali. Siete eroi. Siete i creatori del periodo di prosperità più straordinario che abbiamo mai vissuto. Nessuno vi dica che la vostra ambizione è immorale. Se guadagnate, è perché offrite un prodotto migliore a un prezzo migliore, contribuendo così al benessere generale».
Basterebbe guardare ai board delle maggiori multinazionali per accorgersi di quanti AD siano i migliori e quanti i figli di… La maggiore economia al mondo che da sempre ha fatto sua la ricetta biecamente liberista di Milei vanta quasi il 12% della popolazione che vive nel bisogno, ossia 38 milioni di cittadini; gli afroamericani, il 13% della cittadinanza complessiva, costituiscono invece il 39% dei senzatetto che ormai ammontano a 600mila individui; ma soprattutto le statistiche dimostrano come la percentuale dei poveri, negli Stati Uniti, non è pressoché cambiata dagli anni 70 a oggi – il che dimostra, se ancora qualcuno avesse dei dubbi, che liberismo e capitalismo non porteranno ad alcun benessere generalizzato universale. Mentre il numero dei miliardari negli States, nel 2023, è aumentato del 5% rispetto al 2022, passando da 720 a 775.
Ma siamo sicuri che per Milei questi ultimi sono gli imprenditori migliori!
(1) Evita Perón
(2) la recensione del libro: https://www.inthenet.eu/2021/10/15/la-sovranita-monetaria-e-di-sinistra/
(3) vedasi cosa si intende per controllo dell’accumulazione in Samir Amin, La Teoria dello sganciamento, edizione in italiano, Diffusioni84, pagina 21
(4) Per il discorso completo vedasi: https://www.ilgiornaleditalia.it/news/esteri/569456/milei-wef-viva-la-liberta.html
(5)
venerdì, 26 gennaio 2024
In copertina: Javier Milei in VIVA22 (particolare). Vox España – https://www.flickr.com/photos/voxespana/52417706164/. https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/deed.en; nel pezzo, come vivono 3 miliardi e 500 milioni di persone nel mondo capitalista (foto di Simona M. Frigerio, vietata la rispoduzione)