Elezioni e Covid-19: la situazione vista da Gerusalemme e Tel Aviv
di Simona Maria Frigerio
Abbiamo contattato il professore Samuele Rocca – docente universitario che abita a Gerusalemme – e Ariel David – giornalista italo-israeliano, nato a Roma e che vive a Tel Aviv, dove collabora con il quotidiano israeliano Haaretz – per conoscere, attraverso le loro esperienze ma anche le loro opinioni personali, come si sta evolvendo la situazione nel Paese. Le elezioni appena svoltesi (sembra che solo in Italia sia impossibile andare a votare in regime pandemico), ma anche l’Occupazione dei Territori dello Stato di Palestina, sono stati oggetto delle nostre domande. A sollecitare questi incontri – purtroppo a distanza – l’interrogazione parlamentare: “presentata da Boldrini, Ehm, Fassina e Palazzotto (di fine febbraio, n.d.g.) sulla situazione di stallo nelle vaccinazioni anti-Covid in Cisgiordania e a Gaza e sugli obblighi di Israele: «da questa campagna di vaccinazione sono però esclusi i palestinesi che vivono nei territori occupati e, nonostante da settimane si susseguano gli appelli delle associazioni per i diritti umani, a tutt’oggi i quasi 5 milioni di palestinesi di Cisgiordania e Gaza, che vivono di fatto sotto il controllo militare israeliano, rimangono ancora senza possibilità di essere vaccinati»”(Il Manifesto).
Medici Senza Frontiere ha denunciato a fine febbraio che: “si hanno 60 volte più possibilità di essere vaccinati in Israele che in Palestina. Israele ha la responsabilità come potenza di occupazione di assicurare le forniture vaccinali alla popolazione dei Territori Occupati”. La situazione è cambiata?
Samuele Rocca: «Tra il Governo israeliano e non tanto l’Autorità palestinese quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità vi è una disputa. Da un lato, il Governo israeliano dal suo punto di vista ha ragione – cita gli accordi di Oslo per cui l’Autorità palestinese è l’unica responsabile per la distribuzione delle vaccinazioni; ma secondo l’OMS, poiché Israele si trova in questo momento a governare la Cisgiordania e i Territori, la responsabilità è di Israele. Detto questo, più di una volta l’Autorità palestinese e il Governo israeliano sono riusciti a collaborare e, comunque, adesso sono in arrivo delle dosi di vaccino – che certamente non è Israele a dover pagare e che saranno distribuite. Attenzione però quando si parla di questo tema, che i settlers (ossia gli israeliani che vivono nei Territori Occupati, n.d.g.) hanno recentemente manifestato la loro opinione dicendosi favorevoli alla distribuzione dei vaccini alla popolazione palestinese. Dal mio punto di vista è, però, probabile che la presa di posizione del Governo israeliano – in questo caso giustificata – di non distribuire direttamente le vaccinazioni e lasciarlo fare all’Autorità palestinese è dovuta al fatto che se si assumesse la responsabilità, la decisione potrebbe essere vista in alcuni ambienti come un tentativo di annessione – anche se non lo è. Ai miei occhi l’iniziativa presa dal Governo israeliano è stata giusta. Per quanto riguarda gli arabi israeliani, hanno ricevuto la vaccinazione nello stesso periodo del resto della popolazione. Anzi, il primo a essere vaccinato in Israele è stato un arabo israeliano. Tuttavia va fatto presente che sia all’interno di parte della popolazione ebraica, ossia gli ultraortodossi, e di parte della popolazione araba c’è una visione abbastanza negativa della vaccinazione. Vi sono molte persone, soprattutto anziane, o che vivono nei villaggi, nonostante gli arrivi a casa l’ordine – che però è volontario – di farsi vaccinare, che rifiutano. È un problema che non deriva dal fatto né che gli uni siano arabi o gli altri ortodossi ma dalla loro visione della modernità che, come si può capire, è molto problematica».
Ariel David: «La questione è complessa. Molte organizzazioni umanitarie e alcuni governi hanno assunto nei confronti d’Israele la posizione che hai citato. Israele risponde che secondo gli Accordi di Oslo è l’Autorità Nazionale Palestinese a doversi far carico dei servizi medici alla popolazione palestinese. Al di là della questione giuridica, anche in Israele si sono levate diverse voci per chiedere al governo di contribuire alla vaccinazione dei palestinesi, sia per un principio di solidarietà sia per il fatto che un’ampia popolazione vicina non vaccinata rappresenta comunque un rischio per Israele stessa. Tra queste voci, un po’ a sorpresa, c’è anche quella del consiglio Yesha, l’organizzazione che riunisce i sindaci degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Nei fatti, l’ANP non ha richiesto a Gerusalemme di fornire vaccini, ma li ha ordinati da altre fonti, soprattutto tramite il programma COVAX delle Nazioni Unite. Israele ha comunque vaccinato circa 100.000 palestinesi che hanno il permesso di lavoro in Israele e ha trasferito alcune migliaia di dosi di vaccini all’ANP nelle ultime settimane. Inoltre, oltre 150.000 dosi hanno raggiunto la Cisgiordania e la Striscia di Gaza tramite il COVAX e donazioni da parte degli Emirati Arabi. La campagna vaccinale nei territori è, dunque, appena agli inizi e le dosi disponibili non sono ancora sufficienti a coprire la popolazione di oltre 4 milioni di abitanti. La pandemia ha fatto circa 2.500 morti tra Gaza e la West Bank, dove da febbraio si registra una nuova impennata dei contagi».
Com’è la situazione in Israele, a livello psicologico? In Lombardia, ad esempio, si è registrato un aumento dei tentativi di suicidio e di atti autolesionisti tra i teen ager.
S. R.: «Per quanto riguarda la situazione psicologica, la stessa è stata per lungo lungo tempo difficile. Innanzi tutto fino a che non sono arrivati i vaccini, come dappertutto vi è stata una grande incertezza. Questo però ha voluto dire che a più riprese il Governo ha messo in atto provvedimenti diversi, vi è stata tutta una serie di lockdown, i voli internazionali sono stati ridotti e, a un certo punto, bloccati. Per quanto riguarda i giovani, certamente non erano contenti però non si può parlare di una situazione così drammatica come quella registrata in Lombardia».
A. D.: «Più di 6.000 morti, tre lockdown e una crisi economica profonda hanno sicuramente lasciato il segno a livello psicologico. Non ci sono ancora dati completi ma si è verificato sicuramente un aumento dei suicidi e dei tentativi di suicidio. Ad esempio, la ONG che gestisce il numero verde del Ministero della Salute che offre aiuto a chi sta pensando di commettere suicidio riferisce che dall’inizio della pandemia il numero delle chiamate è raddoppiato. Inoltre, secondo il Ministero per gli Affari Sociali e il Lavoro, durante l’ultimo anno le denunce per violenza domestica sono quasi triplicate, da una media di 270 al mese nel 2019 a 699 nel 2020. Quasi raddoppiati anche gli omicidi di donne da parte dei loro partner (25 nel 2020 contro 13 nel 2019)».
Come sta andando la campagna vaccinale e come stanno reagendo le persone alle notizie riguardo all’AstraZeneca? Siete tornati a una vita normale o dovete ancora sottostare a misure restrittive?
S. R.: «La situazione è ben lontana dall’essere tornata alla normalità. Per esempio, vi è ancora l’obbligo di indossare la mascherina in pubblico – questo non vuol dire che tutti la portino, ma persiste l’obbligo e chi non la porta può essere soggetto a multe. Per quanto riguarda l’AstraZeneca, Israele non si è mai posta il problema perché è stato distribuito sia a persone anziane sia a giovani il Pfizer, che ha funzionato».
A. D.: «La campagna vaccinale al momento continua a registrare importanti successi e Israele rimane il Paese con la maggior percentuale di abitanti immunizzata. Con più del 50% della popolazione vaccinata il numero di contagi da Covid-19 è in picchiata – da punte di oltre 7.000/8.000 casi al giorno all’inizio dell’anno siamo ora sotto i mille nuovi casi al giorno. Sono crollati allo stesso modo i decessi e i casi gravi, a conferma dell’efficacia dei vaccini per i quali Israele, con i suoi 9 milioni di abitanti, ha fatto un po’ da grande laboratorio. Nell’ultimo mese il Paese sta uscendo dal terzo lockdown e la vita sta tornando lentamente alla normalità: scuole, bar, ristoranti e altri luoghi di aggregazione stanno riaprendo, seppur con diverse limitazioni. Si percepisce un clima di euforia e qui a Tel Aviv, centro della vita notturna israeliana, non è raro incrociare feste in strada o altri eventi all’aperto dopo tanti mesi passati più o meno chiusi in casa. L’obbligo di indossare la mascherina rimane in vigore ma potrebbe essere eliminato ad aprile. Rimangono però alcune incognite. Israele utilizza principalmente i vaccini Pfizer e Moderna, quindi le polemiche su AstraZeneca non hanno suscitato particolari preoccupazioni, ma rimangono ancora punti interrogativi sull’efficacia dei vaccini contro alcune varianti del Covid, soprattutto quella sudafricana, motivo per il quale le restrizioni sui viaggi e il turismo sono ancora piuttosto severe. Inoltre, Israele è un paese ‘giovane’, con il 30% circa della popolazione sotto i 16 anni, per i quali il vaccino non è ancora approvato. A questo, si aggiunge il fatto che la campagna vaccinale sta rallentando significativamente perché c’è anche una fetta consistente di popolazione adulta che è restia a inocularsi. Questa resistenza si registra soprattutto tra gli arabi israeliani e gli ebrei ultraortodossi, presso i quali circa un terzo degli adulti non ha ancora ricevuto il vaccino, malgrado queste comunità siano state le più colpite dal virus. Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici ma includono la forte mancanza di fiducia radicata in queste comunità nei confronti di qualunque iniziativa delle istituzioni israeliane, alimentata ulteriormente da teorie complottiste in salsa no-vax. Ad esempio è particolarmente diffusa tra gli ultraortodossi e nei gruppi di beduini che vivono nel deserto del Negev la credenza, priva di fondamento, che il vaccino causi sterilità e sia parte di un complotto israeliano per ridurre l’alta natalità in queste comunità. Tutto questo per dire che, per tutti questi fattori, non si sa se e quando Israele riuscirà a raggiungere l’agognata immunità di gregge e gli esperti temono che il virus possa continuare a vivere in importanti serbatoi locali e possibilmente mutare in forme più pericolose».
In Israele avete un buon sistema sanitario pubblico o dovete ricorrere ad assicurazioni private?
S. R.: «Il nostro sistema di assicurazione funziona: diciamo che è nazionale e poi vi sono una serie di ‘casse per ammalati’, ossia di mutue dipendenti dallo Stato, semi-private, a cui è stato distribuito il vaccino, appena è arrivato. La somministrazione del vaccino è avvenuta, quindi, attraverso le mutue e si sono stabiliti, in ogni città o centro abitato, dei luoghi ove si sono svolte le vaccinazioni. La campagna vaccinale ha preso il via quattro mesi fa, iniziando dalle persone con ottant’anni e oltre, poi si è passati agli ultrasettantenni e così a scendere. Oggi sono praticamente tutti vaccinati a eccezione di coloro che hanno contratto il Covid-19. Però, dato che il vaccino Pfizer richiede un ulteriore richiamo, ossia deve essere inoculato due volte a distanza di un mese e sarà necessario un ulteriore richiamo tra sei mesi, anche tutte le persone che hanno avuto il coronavirus riceveranno tra sei mesi – una volta che gli anticorpi prodotti con la malattia si saranno esauriti – la loro dose di vaccino con il resto della popolazione».
A. D.: «Israele ha un sistema sanitario nazionale simile a quello tedesco basato su casse mutua che offrono una serie di prestazioni di base sovvenzionate dallo Stato. Le quattro casse mutua d’Israele sono enti indipendenti non a scopo di lucro, ma competono tra di loro per i mutuati e possono offrire dei servizi aggiuntivi privati a pagamento. L’idea è che questo sistema unisca la garanzia di prestazioni sanitarie offerta da un sistema pubblico mantenendo però anche l’efficienza che deriva dalla competizione. Le casse mutua sono state il vero protagonista della campagna vaccinale israeliana. Utilizzando avanzati database digitali e cartelle cliniche elettroniche per ogni mutuato hanno creato sistemi di prenotazione semplici ed efficienti, dando la priorità alle fasce più esposte prima di allargare la campagna a tutti. La presenza capillare sul territorio di queste mutue con le loro piccole cliniche distribuite in tutto il Paese ha poi permesso di inoculare in tre mesi la maggior parte della popolazione. Va detto che il sistema sanitario israeliano è frutto delle radici socialiste d’Israele e precede addirittura la nascita dello stato nel 1948 (la prima cassa mutua fu fondata nel 1911). Molti in Israele hanno fatto notare come questo sistema sia stato sotto finanziato negli ultimi anni dai governi di destra del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Prova ne è il fatto che appena Israele ha raggiunto la soglia relativamente bassa di mille casi gravi di Covid gli ospedali hanno cominciato a collassare e la mortalità è salita pesantemente. Questo anche perché negli ultimi anni il numero di posti letto per abitanti nel Paese è sceso drammaticamente (2,2 per mille abitanti contro 3,6 nell’OCSE e 4,1 in Europa). Molti critici del governo Netanyahu hanno fatto notare l’ironia insita nel fatto che proprio questa sistema sanitario nazionale poco supportato dalla leadership attuale del Paese sia uno delle chiavi del successo della campagna vaccinale su cui il Primo Ministro ha scommesso il suo futuro politico».
Com’è la situazione economica nel Paese?
S. R.: «È stata abbastanza tragica. I proprietari di ristoranti, bar e piccole imprese si sono trovati naturalmente in una situazione svantaggiata dato che la ristorazione ha dovuto chiudere. Però vi è stata anche molta fantasia nel reagire. Per esempio, coloro che hanno compreso cosa stava accadendo, hanno chiuso il bar o il ristorante ma hanno organizzato un sistema di distribuzione a domicilio. Lo stesso dicasi per molti negozi: si può acquistare la merce del negozio dove si va d’abitudine ma attraverso Internet. Mentre altri sono rimasti aperti facendo entrare una persona per volta. Certamente adesso Israele si trova nella condizione che molte tra queste persone – che hanno fatto fallimento – chiedono l’aiuto statale o l’aiuto municipale, e però questo aiuto non arriva nella maniera desiderata».
A. D.: «L’economia israeliana è stata colpita duramente dalla pandemia, e se tutti riconoscono a Netanyahu il merito di aver guidato con successo questa campagna vaccinale lampo molti criticano il governo per non aver sostenuto a sufficienza le attività economiche e il lavoro. Secondo un rapporto di Dun and Bradstreet, circa 80.000 attività commerciali hanno chiuso i battenti nel 2020 (più 70% rispetto all’anno precedente) e altre 60.000 potrebbero chiudere quest’anno. Particolarmente colpite sono state le piccole imprese, soprattutto nei settori della ristorazione, della moda e dei trasporti. La disoccupazione, che prima della pandemia era intorno al 4%, è salita fino a superare il 20%, scendendo al 16% ora che l’economia sta riaprendo. Come in molti altri Paesi, a perdere il lavoro sono state soprattutto le donne, che sono il 63% dei nuovi disoccupati contro il 37% di uomini. Questo dato si spiega in parte con il fatto che la scuola e i servizi sono tra i settori particolarmente colpiti dalla pandemia e in cui le donne sono sovra rappresentate. Inoltre, la chiusura degli asili e delle scuole ha spinto più donne a rimanere a casa per prendersi cura dei bambini. Nel corso degli ultimi mesi si sono susseguite manifestazioni e proteste di commercianti, ristoratori e altre categorie, che in alcuni casi hanno tentato anche di riaprire le loro attività violando le norme dei lockdown. Tuttavia, la protesta principale oggi in Israele è quella politica, contro Netanyahu, che si trova sotto processo per diversi casi di corruzione. Fino alle elezioni del 23 marzo, ci sono state manifestazioni quasi quotidiane soprattutto di fronte alla residenza del Primo Ministro a Gerusalemme e in tutte le principale città del Paese. In queste manifestazioni, che in alcuni casi diventano teatro di duri scontri con la polizia, si fondono diverse istanze, ma principalmente la rabbia per la situazione economica e la percezione di una politica corrotta. Anche durante i lockdown, in cui ci si poteva allontanare solo poche centinaia di metri dalla propria abitazione, gli attivisti utilizzavano i social media per darsi appuntamento in tutte le piazze e agli incroci, riunendo sempre migliaia di manifestanti (opportunamente distanziati). Il voto del 23 marzo – il quarto in due anni – ha mostrato un Paese spaccato esattamente a metà tra oppositori e sostenitori di Netanyahu. Non essendoci una chiara maggioranza in parlamento, le prossime settimane ci diranno se il Primo Ministro o l’opposizione riuscirà a formare un governo. Qualora Netanyahu dovesse riuscire a salvare la poltrona, è probabile che le proteste riprendano con rinnovato vigore».
Cos’è accaduto alla vita culturale e associativa?
S. R.: «La vita culturale è stata forse la più grande vittima del coronavirus. Cinema, musei, teatri, le varie orchestre hanno chiuso e, mentre i musei ricominciano ad aprire, ci vorrà un po’ più di tempo prima che lo facciano cinema e teatri. Pian piano adesso i bar e i ristoranti riaprono ma solo parzialmente, dato che ci si può sedere ma all’esterno. Però, fortunatamente, stiamo andando incontro alla bella stagione ed essendo un Paese mediterraneo è possibile stare all’aperto».
A. D.: «Il mondo della cultura e quello della ristorazione sono stati ovviamente tra i più penalizzati durante la pandemia e sono state molte le manifestazioni di protesta contro il governo da parte degli operatori di questi settori. Al momento cinema, musei, teatri, bar e ristoranti, ma anche palestre e stadi, stanno riaprendo, ma con limitazioni sul numero di presenti e soprattutto con ingresso consentito solo a chi ha il cosiddetto Green Pass – il certificato che attesta la vaccinazione o la guarigione da un’infezione di Covid-19».
Le scuole e le università hanno ripreso con la didattica in presenza?
S. R.: «Le scuole sono passate a zoom, ma il sistema non funziona per gli studenti di ogni ordine e grado perché non tutti sono in possesso di un computer e non sempre insegnare via zoom è il metodo migliore. Quindi, gli studenti si sono trovati in una condizione svantaggiata. Per quanto riguarda le università, si sono subito organizzate con il medesimo sistema di didattica a distanza e, in questo caso, ha più o meno funzionato; certamente non è l’ideale per tutti i tipi di corsi ma, parlando anche come docente universitario, per molti si può affermare che abbia funzionato. Diciamo che, a livello universitario, non ci si può lamentare più di tanto, mentre le scuole si sono trovate e si trovano in difficoltà».
A. D.: «Le scuole hanno riaperto nelle aree con alto tasso di vaccinazioni e basso tasso di infezione, mentre rimangono online nelle ‘zone rosse’. Le università hanno ricominciato a tenere alcuni corsi in presenza ma in forma ibrida: con i vaccinati in presenza e i non vaccinati online».
L’anno scorso migliaia di israeliani hanno invaso le strade di Tel Aviv per manifestare contro i piani del Governo di annettere parti dei Territori Occupati. I dimostranti hanno sventolato bandiere israeliane e palestinesi. Com’è attualmente la situazione?
S. R. non risponde a questa domanda.
A. D.: «Come ricorderete il progetto di annettere unilateralmente parte della Cisgiordania è stato sospeso nell’ambito degli accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti siglati lo scorso anno negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump (Gli Accordi di Abramo, tra gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e Israele vertono principalmente sulla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, riconoscono la sovranità dello Stato d’Israele, e aprono a nuove alleanze geopolitiche e commerciali – ma lo Stato di Palestina non vi ha preso parte, n.d.g.). L’idea però non è stata certamente accantonata dai partiti più a destra nel panorama politico israeliano. Bisognerà vedere se, dopo queste elezioni sul filo di lana, Netanyahu riuscirà a mettere in piedi una coalizione con i soli partiti dell’estrema destra, che potrebbero chiedere l’annessione come ‘prezzo’ per il loro ingresso nella maggioranza. Tuttavia, anche se Netanyahu dovesse formalmente rimettere l’annessione sul piatto della bilancia politica, è improbabile che la metta in atto visto che l’amministrazione Biden, molto meno vicina al Premier israeliano rispetto a Trump, si opporrebbe sicuramente a una mossa del genere».§
Venerdì, 26 marzo 2021
In copertina: Tel Aviv – Foto di Iulian Ursache da Pixabay.