Lucca, crogiolo di atelier e botteghe artigiane
di Simona Maria Frigerio
Le città toscane – e specialmente Lucca – negli ultimi anni sono diventate preda di un turismo sempre più mordi e fuggi, anche a causa dei grandi eventi, che portano un numero spesso difficilmente gestibile di visitatori – viste le dimensioni degli abitati – per periodi estremamente brevi. Dal concertone estivo che blocca la città e i suoi cittadini per 48 ore al Lucca Comics, che ha perso la dimensione di incontro tra appassionati e artisti del fumetto a favore delle installazioni delle Major – che propongono l’ultimo videogioco o il blockbuster roboante – e la proliferazione di negozi di gadget che aprono e chiudono nel giro di pochi giorni. L’ecosistema fragile della città murata che, durante l’anno, non permette nemmeno piccole iniziative di socializzazione e creazione artistica, può essere bellamente stravolto per le varie ‘fiere delle vanità’ – dalla rock band che non si comprende perché non si esibisca, come fa di solito, allo stadio e pretenda, al contrario, come scenografia le delicate Mura; alla sfilza di tensostrutture che invadono, tra la fine d’ottobre e i primi di novembre, ogni metro quadrato, per esporre bacchette magiche e cappelli da fatina, robot e gnomi di plastica, gashapon e giochi da tavola, bijoux in pasta polimerica, t-shirt e peluche manga, kokeshi e furoshiki (semplici quadrati di stoffa che fanno molto Japan ma potrebbero essere il foulard della nonna o il fazzoletto del ‘dolce’ Remi). Stand che sarebbero ospitati – ristoratori del centro permettendo – molto più appropriatamente in Fiera.
Eppure quella che un tempo era la ‘città del garbo’, come ci racconta la scultrice Viviana Natalini, è tuttora un intrico di viuzze medievali che ospitano botteghe artigiane e raccolti atelier di artisti i quali, nonostante tutto, cercano di ridare a questo antico agglomerato urbano un po’ di quell’eleganza che pare aver perduto in favore dell’evento usa e getta e di un turismo che, dopo 15 mesi di Covid-19, andrebbe ripensato dalle fondamenta. È nel suo atelier, che incontriamo Natalini, per farci raccontare il suo lavoro di scultrice ma anche di figlia della regista Maria Grazia Cipriani, fondatrice del Teatro del Carretto – la storica Compagnia lucchese ospite, tra l’altro, nel 2017 della Biennale Teatro di Venezia con tre spettacoli, tra i quali il lancinante Le Mille e una Notte.
Partiamo dalla sua formazione. Dove e come si è avvicinata al mondo dell’arte?
Viviana Natalini: «La mia prima esperienza è stata in uno studio di decorazioni dove ho imparato davvero tanto grazie agli insegnamenti di Sergio Ortili, che è scomparso purtroppo da tempo, e che era un decoratore molto famoso a Lucca, che aveva anche lavorato negli Stati Uniti. All’epoca c’era talmente tanta richiesta che potei aprire un laboratorio per conto mio, dove portavo avanti alcune delle sue commesse ma, data la mole, non riuscivo quasi a stargli dietro. Poi ebbi dei problemi di salute e i medici mi consigliarono di non continuare in quell’ambito perché l’uso delle vernici avrebbe potuto nuocermi ai polmoni. In ogni caso e, a distanza di anni, posso affermare che è a bottega dove ho appreso la manualità. Dopodiché, dovendo reinventarmi, decisi di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Era la metà degli anni 90. Mi iscrissi, per la precisione, a scenografia e fu una grande delusione perché all’epoca l’Accademia non era ben organizzata e gli insegnanti di scenografia, generalmente, venivano da altre regioni; di conseguenza erano poco presenti, poco interessati all’insegnamento e, a mio parere, sembravano tutti presi dall’autoglorificazione di se stessi. Cominciai, quindi, a studiare storia dell’arte e, anche se non avrei dovuto e potuto visto il corso di studi scelto, decisi di laurearmi in tale materia».
Prima di diventare scultrice a tempo pieno ha collaborato per alcuni anni con il Teatro del Carretto. Ci racconta questa sua esperienza?
V. N.: «Si può dire che io sia cresciuta con la Compagnia! Quando mia madre la fondò avevo 12 o 13 anni e, a dire la verità, in quegli anni provavo quasi un’allergia nei confronti del teatro perché all’epoca era il responsabile della mancanza della famiglia tradizionale – che avrei tanto voluto. Mia madre ha sempre vissuto per il teatro e, anche quando era a casa, pensava al suo lavoro e io per il Teatro del Carretto, allora, provavo un misto di amore e odio. In ogni caso, anche quando andavo a scuola, d’estate, passavo del tempo ad aiutarli, soprattutto a preparare le maschere. All’epoca si usava la vetroresina, che era anche abbastanza tossica. Partivamo dalla creta, poi facevamo i calchi in gesso e, alla fine, producevamo le maschere che sono una tra le caratteristiche principali della Compagnia – insieme alle scenografie e ai costumi. Gli interpreti erano definiti attori meccanici perché era il côté scenotecnico l’elemento distintivo della compagine. Basti pensare all’importanza dei nani in Biancaneve o degli dei dell’Iliade. Tra l’altro, nel 2013 [in occasione del trentennale della Compagnia. n.d.g.], abbiamo riallestito quest’ultimo spettacolo e mi sono occupata, con un’altra scenografa, di rimettere mano a tutti gli oggetti di scena proprio perché la cartapesta col tempo si deteriora. Negli ultimi anni ho anche partecipato, come organizzatrice, all’allestimento della mostra Le Stanze del Sogno, la cui direzione artistica era affidata a Graziano Gregori che, da sempre, è lo scenografo e il costumista del Carretto. Per quanto mi riguarda, mi sono occupata sia del materiale informativo e pubblicitario sia di trovare chi sviluppasse un sito relativo alla mostra e poi ho contribuito all’allestimento della stessa».
La mostra Le Stanze del Sogno, che raccoglie gli oggetti di scena – e non solo – di oltre trent’anni di vita del Carretto ed è l’emblema della Compagnia – fiore all’occhiello di Lucca – non è più visitabile. Come mai?
V. N.: «È rimasta aperta un paio d’anni dopodiché abbiamo compreso che, forse, Lucca non era la città giusta perché i turisti – e soprattutto quelli che vanno sulle Mura – fanno un giro veloce in carrozzella o in bicicletta e non si accorgono nemmeno degli eventi ospitati nei vari edifici. I lucchesi, dal canto loro, ricordo che si lamentavano perché c’era da pagare un biglietto – anche se molto contenuto. Purtroppo lo sbigliettamento era per noi necessario in quanto l’allestimento – che comprendeva il disegno luci, la proiezione di video e la suddivisione dello spazio in più stanze ricreate con pannelli in legno – era stato curato e finanziato dal Teatro del Carretto. Non solo. Il Comune di Lucca non intervenne minimamente per aiutarci a livello economico e pretese, al contrario, l’affitto dei locali; così come le spese di luce e riscaldamento erano sempre a carico della Compagnia. Alla fine l’esperienza si è conclusa quando il Comune ha deciso di non accollarsi nemmeno la responsabilità di assumere una persona che si incaricasse stabilmente della biglietteria e dell’apertura quotidiana della mostra. La complessità e il costo del suo allestimento non rendono possibile proporla in forma itinerante e, alla fine, probabilmente, sono mancate anche le energie a mia madre per tentare altre strade. Abbiamo capito che mancava la volontà, da parte del Comune ma direi anche del Teatro del Giglio, di collaborare con noi e di trasformare questo progetto in una proposta culturale stabile della città. Purtroppo, sembra non ci sia spazio per un contemporaneo di qualità a Lucca. Mi basti dire che, per provare gli spettacoli, il Teatro del Carretto ha dovuto, a volte, chiedere ospitalità al Teatro di Valdottavo! [Piccola frazione del Comune di Borgo a Mozzano, 17 km da Lucca, n.d.g.]».
Prima di aprire il suo atelier a Lucca, era a Pietrasanta. Come mai la scelta di tornare nella città ‘murata’?
V. N.: «Per molto tempo mi sono appoggiata alla Galleria Intrecciarte [Associazione culturale con uno spazio espositivo nel comune di Pietrasanta, n.d.g.], dove mi sono sempre trovata molto bene grazie alle persone che la gestiscono e alla bellezza dello spazio dedicato. Purtroppo, con l’arrivo del Covid-19 e lo stop del turismo, sono iniziati i problemi. A quel punto ho deciso di continuare a esporre a Pietrasanta e, nel contempo, aprire un piccolo spazio nella mia città – che penso abbia bisogno di proposte diverse da quelle esclusivamente commerciali».
Ha aperto il suo atelier alla vigilia del secondo lockdown. Come sono stati questi mesi per chi lavora nel suo settore ma anche per i normali commercianti lucchesi, città da sempre votata al turismo?
V. N.: «Ovviamente molto negativi. La pandemia non solo ha bloccato il turismo ma crea una situazione di insicurezza economica e di timore, nella gente, per cui un lavoro come il mio, artistico, appare superfluo. In ogni caso, quando ho aperto – in settembre – e per i primi due mesi ho avuto un buon riscontro. Sebbene non ci fossero presenze straniere, vi erano comunque turisti provenienti da altre regioni che, si vede, sono più sensibili e interessati dei nostri concittadini al lavoro di un’artista. Da novembre in poi si è creato il vuoto, anche a causa dei continui cambiamenti di colore delle regioni con conseguente altalena di chiusure e riaperture. Va anche considerato che il mio atelier si trova in una strada che ho scelto perché nel cuore di Lucca ma non certamente nella via dello struscio. Eppure eleggere questa strada è anche un modo per stabilire una distanza dalle zone più commerciali e dare un’indicazione precisa a chi entri qui dentro: bisogna decidere di venirci e lo si fa perché si vuole vedere e vivere un’altra Lucca, si vuole confrontarsi con un’idea artistica e non con un prodotto industriale».
Con il Comune di Lucca gli artisti presenti in città stanno immaginando delle iniziative per rilanciare il settore – intendendo per settore l’insieme di atelier e botteghe artigiane?
V. N.: «Non mi risulta ci sia alcuna proposta in merito. Avevamo pensato, come strada, di posizionare delle vetrofanie all’ingresso della via – che avremmo pagato noi – con alcune indicazioni utili ai turisti, ma stiamo attendendo una risposta e sono passati mesi. Avevamo anche chiesto di organizzare degli eventi coinvolgendo la Fondazione Puccini (dato che la casa del compositore sorge a pochi metri di distanza) ma non abbiamo trovato accoglienza – nemmeno il direttore della Fondazione Puccini, Massimo Marsili, ci ha finora ricevuti. In breve, un silenzio assordante: pare impensabile persino posizionare un indicatore di cartone! Se vogliamo abbellire la strada con delle piante, dobbiamo fare richiesta al Comune, attendere la risposta e poi pagare la tassa per l’occupazione dello spazio pubblico. Nessuna attenzione nemmeno in circostanze tanto gravi».
Venendo al suo lavoro di scultrice, lei predilige la creta. Come mai questa scelta?
V. N.: «L’ho scelta in primis perché materiale molto antico e, in secondo luogo, perché malleabile – il che mi dà la possibilità di rendere concrete le mie idee con una certa celerità. Ovviamente non ha la preziosità del marmo o del bronzo. Però è più calda, come materiale, e questo me la rende più ‘vicina’. Inoltre, è ancora mia intenzione creare le sculture con le mie mani, lavorando i materiali e non ho nessuna voglia di appoggiarmi a laboratori esterni che si occupino di fare i calchi delle mie opere. So che siamo pochissimi noi artisti, che lavoriamo ancora con le nostre mani il marmo, la creta o un qualsiasi altro materiale. Oramai gran parte degli scultori – anche tra i più quotati – fanno una semplice stampa in 3D dell’oggetto che intendono realizzare, la portano al laboratorio che ne fa il calco, le colate in resina di diversa dimensione e il prodotto finito è frutto del lavoro dell’artigiano ma ha la firma dell’artista: questa dimensione non la capisco e non mi appartiene. Una cosa è l’artigianato, un’altra il design e un’altra ancora è l’arte. Perdere la manualità è perdere se stessi. La manualità porta con sé anche le idee. La creatività si nutre del fare, sperimentare, lavorare tutti i giorni, conoscere pregi e difetti dei materiali e delle tecniche».
Oggi una tra le artiste più quotate al mondo, Jenny Saville, è pittrice e si dedica al corpo e al volto femminile in maniera fortemente destabilizzante ed espressionista. Pensa si torni, dopo anni di installazioni, objet trouvé e performance art, alla materia prima – sia nella scultura sia nella pittura?
V. N.: «Secondo me c’è questa tendenza che, però, si scontra con i meccanismi del mercato dell’arte. Siamo tutti fagocitati da ritmi frenetici. Basta guardare Instagram, dove anch’io ho il mio profilo e, attraverso il quale, seguo il lavoro di altri artisti perché il confronto, lo scambio è uno stimolo di cui non si può fare a meno e che non va confuso con il copiare. Vi è bisogno di un milieu per crescere, di influenzare ed essere influenzati dalla creatività altrui. Al contrario, ciò che noto, è che vi è una rincorsa continua a dover produrre qualcosa di nuovo ogni giorno perché, altrimenti, non si è nessuno. Bisogna pretendere di avere il tempo per pensare un oggetto d’arte, e poi di lavorare i materiali e realizzare l’idea in completa autonomia. Questa rincorsa alla produzione fine a se stessa finisce per rovinare anche gli artisti, che non operano più in base a esigenze creative né pensano di potersi permettere di avere il tempo per lavorare i materiali con le proprie mani».
Le sue terrecotte sono parzialmente colorate, spesso in base a una scelta espressionistica più che realistica. Il colore si basa sull’emozione del momento o sull’espressione che ha assunto la figura da lei plasmata?
V. N.: «Io penso che, nel mio caso, la scelta del colore avvenga addirittura prima di mettere mano alla scultura. Il bianco, ad esempio, che è onnipresente nei miei lavori è già in me. Direi che è la scultura che si adatta al colore».
Venerdì, 21 maggio 2021
In copertina: Viviana Natalini, foto gentilmente fornita dall’artista.