Seconda parte dell’incontro con il Direttore artistico di Teatri di Vita
di Simona Maria Frigerio
Su www.persinsala.it abbiamo affrontato la questione della nomina del nuovo Direttore di Emilia Romagna Teatro Fondazione. A questo punto, partendo dal casus belli, sollevato da Stefano Casi, cerchiamo di capire come funzionano le Fondazioni e perché sarebbe utile che le stesse nominassero le figure direttive in base a bandi pubblici europei, dato che, come suggerisce Casi sarebbe: «davvero da ribaltare l’intera ingessatura generazionale nazionale»; e poi allarghiamo il discorso al teatro online e alle piattaforme, come ItsArt, sulla quale esprime un giudizio tranchant: «già dal titolo inglese mi sembra che mostri interamente il suo velleitarismo».
Nel settore pubblico, visto che i teatri nazionali sono finanziati dal Fus e, quindi, dalle tasse dei cittadini, i direttori non dovrebbero essere scelti in base a bando pubblico europeo? Le dirigenze museali, negli ultimi anni, proprio grazie a questa formula, hanno visto l’arrivo di professionisti di fama internazionale, spesso con idee innovative e, soprattutto, un serio ricambio generazionale.
S. C.: «Condivido l’idea che il direttore di un Teatro Nazionale debba risultare da un bando europeo, proprio per il livello che ha questa categoria nel sistema teatrale italiano definito dal decreto che regola il FUS. Anche se le dirigenze museali dipendono direttamente dal Ministero, mentre i Teatri Nazionali no, ed è giusto che siano i singoli amministratori a valutare le modalità di gestione. Comunque, eviterei anche di dare troppa enfasi alla provenienza internazionale del direttore, come se di per sé fosse una garanzia di maggiore qualità. La vera sfida sta nel cambiare la mentalità e i meccanismi di chi ha il potere decisionale: la ventata d’aria nuova funziona se chi arriva lo fa in un ambiente ricettivo e disposto a mettersi in gioco, altrimenti è inutile e si ripropongono i soliti meccanismi. Poi ci sarebbe tutta la questione del ricambio generazionale, che mi sembra assolutamente importante (anche se, analogamente, da non considerare automaticamente una panacea), ma qui sarebbe davvero da ribaltare l’intera ingessatura generazionale nazionale: da noi si è giovani finché non spuntano i capelli bianchi, mentre sarebbe l’ora di aprire le porte di ruoli significativi anche agli under 40».
Le fondazioni teatrali che dovrebbero sovrintendere a queste nomine e che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto portare, innanzi tutto, a pareggi di bilancio e investimenti privati, e secondariamente a un’amministrazione più trasparente, non hanno finito per diventare parte del problema?
S. C.: «In realtà ogni aspetto è potenzialmente parte della soluzione e parte del problema. Non sono in grado di addentrarmi con competenza nella questione delle Fondazioni teatrali, ma non è difficile rendersi conto che il problema non sta quasi mai nella formula. La corsa alla Fondazione come modello ideale di gestione della cultura ha generato modelli virtuosi e mostri, non si può generalizzare».
Se un bando non è vincolante, come nel caso di Ert, a quale scopo farlo?
S. C.: «Il problema in questo caso sta a monte. Lo statuto di Ert non prevede l’obbligatorietà del bando per la nomina del direttore. Anche in questo caso, più che un problema di procedure è un problema di trasparenza. A me va bene che il CdA decida usando gli strumenti che vuole, ma dovrebbe farlo con trasparenza e soprattutto con un senso di servizio per la comunità. In questo caso, mi sembra molto chiaro che il bando sia arrivato dopo un lungo periodo di stallo per incapacità di arrivare a una sintesi rispetto a diversità di vedute all’interno del CdA. Per carità, tutto questo è legittimo, e poi io preferisco sempre la dialettica all’unanimità, ma già qui poteva esserci un primo momento di confronto pubblico. Detto questo, il bando non vincolante è davvero una formula curiosa: una sorta di call di autocandidature, ma con la porta sempre aperta a soluzioni maturate all’esterno della call stessa. Insomma, un mezzo pasticcio. Lanciare immediatamente un bando vincolante sarebbe stato più serio, ma a quel punto sarebbe stato importante definire anche una commissione più articolata e con maggiori competenze, quindi con maggior peso e autorevolezza. Oggi il direttore di un Teatro Nazionale come Ert è stato deciso da un CdA che, dopo mesi di stallo, ha scelto alla fine sulla base dell’analisi affidata a una commissione composta da due eccellenti docenti universitari di cinema e di filosofia, un’organizzatrice teatrale di piccoli festival (che sinceramente non conosco e su cui non mi posso pronunciare) e il bravo direttore di un importante festival catalano: ma non c’è nessuna figura omologa a quella di un direttore di Teatro Nazionale. La mia perplessità non ha nulla a che vedere con le loro qualità professionali nei loro àmbiti, né tantomeno con le qualità del direttore che hanno selezionato, ma è un punto su cui vale la pena riflettere. Non c’è solo il bando a dover essere ben concepito. C’è anche la commissione che deve essere composta con attenzione, certamente e doverosamente aperta a sguardi esterni al nostro mondo, deve essere certamente composita, ma senza rinunciare a competenze molto precise e omogenee con la figura che andrà selezionata, e possibilmente con un’ampiezza numerica tale da consentire un maggiore confronto interno e da avere un maggior peso».
Cambiando argomento. Ha avuto modo di leggere il PNRR? Secondo lei, vi sono previsioni interessanti di finanziamenti per il settore della cultura, ivi compreso il teatro?
S. C.: «Mi sembra che il PNRR parli esplicitamente dei teatri solo in relazione al miglioramento dell’efficienza energetica. Certo, è un po’ spiazzante, ma non ho le competenze per giudicare un piano di questo tipo. La sfida vera è trasformare l’approccio ordinario delle istituzioni nei confronti della cultura: renderla snodo nevralgico nel bilancio ordinario e nelle politiche ordinarie, cioè nella sua percezione come risorsa sotto ogni punto di vista, sociale, umano ed economico. Smetterla di considerare la cultura, e soprattutto lo spettacolo, alla stregua di un giochino di qualche mitomane velleitario a cui dare il contentino, o da usare come bacino di consenso con una manciata di denaro».
Negli ultimi sei mesi, i teatri che percepiscono il Fus, hanno ricevuto i finanziamenti come se fossero rimasti aperti al pubblico e hanno altresì potuto lavorare dietro le quinte. Oltre a occuparsi delle proprie produzioni, non avrebbero dovuto impegnarsi a redistribuire in parte quei finanziamenti, ospitando Compagnie e artisti privi di strutture proprie?
S. C.: «Teoricamente la domanda è corretta e condivisibile, d’altra parte non me la sento di entrare in quel che dovrebbero fare gli altri se non sono a conoscenza delle loro reali condizioni. So che ci sono state scelte virtuose particolarmente eclatanti, ma sono sicuro che ogni teatro abbia trovato sistemi suoi per affrontare questo periodo nel modo più corretto. Per dire, noi di Teatri di Vita non siamo riconosciuti come teatro dal Ministero, ma solo come ‘impresa di produzione’, pur avendo un teatro e facendo attività da Centro di produzione, quindi noi partiamo già da una sofferenza dovuta al disequilibrio tra l’attività svolta che ci ostiniamo a fare e il riconoscimento, anche economico, che ci consiglierebbe di agire in ben altro modo. In ogni caso, in questo periodo abbiamo messo al primo posto i lavoratori, cercando di garantire loro la liquidità per le spese correnti, anticipando le casse integrazioni, realizzando alcuni progetti online per offrire lavoro ai nostri artisti e tecnici, e aiutando perfino i nostri collaboratori saltuari con la messa a disposizione del nostro ufficio come consulenza e supporto pratico riguardo ai loro ristori».
Non crede che in questo momento storico – vista la chiusura del mondo della cultura a causa del Covid-19 (ma ricordiamo che altri Stati hanno garantito il settore ritenendolo indispensabile), e viste le proposte di tecnici e artisti scesi a più riprese in piazza – ci vorrebbero degli ‘stati generali della cultura’ (liberi dai laccioli della politica) in cui ripensare le garanzie lavorative ma altresì i parametri per le assegnazioni delle posizioni di potere?
S. C.: «Dal primo giorno della pandemia in cui la retorica generale rassicurava (comprensibilmente) con un ‘ne usciremo migliori’, ho sempre pensato che non era vero: ne usciremo come se nulla sia successo. Sono molto pessimista da questo punto di vista. Così come sono scettico sull’utilità di ‘stati generali’ di rifondazione. Se la rifondazione non è prima di tutto di mentalità e di etica, cambiare i meccanismi serve a poco. Dovremmo ripartire da lì. Ma soprattutto dalla centralità della cultura come riferimento identitario dell’umanità: vorrei una Repubblica fondata sulla Cultura fin dal primo articolo della Costituzione, perché questo è l’unico piano che può accomunare davvero tutti e renderci parte di uno stesso progetto di condivisione di una nazione».
Cosa pensa del teatro online e della nuova piattaforma, ItsArt, che dovrebbe partire il 31 maggio – forse per fare concorrenza a Rai5, RaiPlay e RaiCultura.it che già finanziamo con il Canone Tv – e che si inaugurerà con grandi eventi (gli unici che possono permettersi registrazioni video e audio di qualità)?
S. C.: «Non sono un fan del teatro online: quando il teatro va online cessa di essere teatro (cioè compresenza di attore e spettatore in uno spazio-tempo di esperienza condivisa) e diventa altro. Chiamiamolo in un altro modo, per esempio cinema o video o teleconferenza o inventiamo un altro nome. Il teatro è solo in presenza, per quanta tecnologia ci si possa mettere e per quanta interazione si possa creare, anche a distanza. Altra questione è la famigerata piattaforma ItsArt, che già dal titolo inglese mi sembra che mostri interamente il suo velleitarismo. La Rai, che è pubblica, ha già canali a disposizione per intervenire nella diffusione della produzione di spettacoli e la nuova piattaforma rischia di andare a sbattere come già analoghi ‘favolosi’ siti internet dal nome inglese che negli anni passati i ministri hanno maldestramente lanciato per incentivare la conoscenza dell’Italia all’estero. Mi sembra un rincorrere la moda dello streaming e delle ‘eccellenze’, senza comprendere che il vero investimento va fatto strutturalmente sull’intero settore per favorire da una parte la fruizione diffusa dei prodotti culturali con una buona politica di sostegno alla produzione, alla distribuzione, alla formazione e ai diritti dei lavoratori, e dall’altra parte sì, ci sta pure l’utilizzo dei media capillari di diffusione, ma devono rientrare dentro una visione d’insieme, e non usati come grimaldello risolutivo della questione svincolato da tutto il resto».
Quale futuro immagina per Teatri di Vita e, più in generale, per il teatro italiano?
S. C.: «Non voglio sembrare retorico, ma sinceramente non riesco a immaginare il futuro ma solo a costruirlo senza sapere dove ci porterà. In fondo, il teatro si può programmare finché si vuole, ma si nutre del presente e vive nell’istante, da tutti i punti di vista. Per cui, più che immaginare il futuro, posso solo provare a camminarci dentro, passo dopo passo».
Venerdì, 7 maggio 2021
In copertina: Stefano Casi (foto gentilmente fornita dall’intervistato).