Venti di destra o bonaccia a sinistra?
di Luciano Uggè
Tra circa due settimane si tornerà a votare in Grecia. Il premier (e leader del partito conservatore Nea Dimokratia), Kyriakos Mītsotakīs, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso 21 maggio (con un 40,79%) ma senza aver raggiunto quella maggioranza che gli avrebbe consentito di governare senza il ‘lacciuolo’ di una coalizione, ha deciso che il Paese debba tornare alle urne. Potrà contare su una nuova legge elettorale che dà un premio di maggioranza fino a un massimo di 50 seggi – garantendo la famosa ‘governabilità’ ma con un deficit di democrazia. E in Italia ormai sappiamo cosa significhi una tale deriva.
Per quanto riguarda gli altri partiti, Syriza, guidato dall’ex premier Alexīs Tsipras, si è fermato al 20,07%; il Pasok, ha ottenuto l’11,46%; il Partito comunista greco (Kke) è salito al 7,21% mentre, con il 2,5%, il partito di sinistra MeRA25 di Gianīs Varoufakīs, già ministro delle Finanze nel primo Governo Tsipras, sembra destinato a non tornare in Parlamento visto che non supera la soglia del 3%. Eppure proprio il suo partito, il Fronte della Disobbedienza Realistica Europea, che mira a una trasformazione della UE – ormai dominata dalle Commissioni e prona ai diktat statunitensi – pareva una speranza anche transnazionale per un rinnovamento in senso democratico dell’Unione. Mentre lo stesso Varoufakīs ricordiamo che fu l’artefice di un piano finanziario per la soluzione della crisi greca che prevedeva di tagliare il rimborso dei bond detenuti dalla Banca Centrale Europea e di sottrarle il controllo della Banca Centrale Greca – il che avrebbe favorito se non una fuoruscita tout-court della Grecia dalla UE sicuramente l’instaurazione di partnership economico-finanziarie con altri Paesi, quali la Russia. Purtroppo Tsipras non ebbe il coraggio di Boris Johnson e sappiamo cosa è accaduto agli asset e al welfare greci. Oggi la débâcle delle cosiddette sinistre – Syriza come MeRA25 – è ormai, forse, irreversibile.
Aldilà di come andrà a finire il 25 giugno, il primo partito anche in Grecia è quello dell’astensione. La partecipazione alle elezioni del 21 maggio si è attestata al 56,1% mentre Mītsotakīs ha già fatto sapere all’Unione Europea che batterà cassa per finanziare l’ennesimo ciclopico muro – questa volta tra Grecia e Turchia – così da ‘difendere’ la nostra ‘roccaforte europea’ non dalla recessione o dalla deindustrializzazione (con conseguente impoverimento delle classi medie e basse grazie alle politiche US) bensì dai migranti.
Dall’altra parte del muro, la Turchia ha consegnato al Partito del Presidente Erdoğan il Parlamento – 266 seggi contro i 166 dell’opposizione; e a livello di coalizione 322 seggi contro i 213 dell’opposizione su 600 totali. Mentre le elezioni presidenziali hanno visto lo stesso Erdoğan essere rieletto, al secondo turno, con il 52,18% dei consensi. L’affluenza in Turchia è stata elevata: 84,15% (al primo turno addirittura l’87,04%). Esattamente il contrario dei desiderata dell’Occidente e delle previsioni della nostra élite massmediatica.
La Turchia dovrà far fronte all’inflazione galoppante (che resta uno dei grandi problemi del Paese) ma Recep Tayyip Erdoğan, nell’ultimo anno, si è mosso decisamente bene a livello geopolitico e diplomatico. Il progressivo disimpegno della Turchia in Siria potrebbe comportare una diminuzione delle spese militari sebbene infastidisca gli States che non avrebbero, forse, più scuse per occupare il Paese che ha votato il Presidente Assad. La Turchia, inoltre, ha cercato di svolgere un ruolo diplomatico tra Russia e Ucraina con gli accordi di Ankara del 2022 che avrebbero permesso all’Ucraina di mantenere la sua integrità territoriale, al Donbass di ottenere un’autonomia dovuta, e alla Russia (probabilmente con il diniego a Kiev di aderire alla Nato) quella sicurezza che persino Noam Chomsky ammette sia legittima (1). Ma non solo. “La ferrovia Baku-Tblisi-Kars, inaugurata nel 2018, è stata un elemento chiave nel piano generale di Ankara per configurarsi come un hub ineludibile per il trasporto di container tra Cina ed Europa” (2). E le vie dei commerci, come sappiamo, sono importanti per lo sviluppo economico dei Paesi.
Colui che i media occidentali, poco rispettosamente, additano come il ‘sultano’ pare, quindi, più attento ai bisogni o, semplicemente, più in sintonia con le istanze del suo Paese e del suo popolo di quanto non lo siano i Premier occidentali, che promettono indipendenza da Washington, benessere e futuro e poi regalano sudditanza, impoverimento e guerra. E su questo punto occorrerebbe interrogarsi, soprattutto a sinistra: dove si è tagliato per sempre quel cordone ombelicale che univa la volontà popolare agli eletti? Perché il politico pensa di dover rispondere ad altri (Capi di Stato di Paesi stranieri o Commissioni di organismi sovranazionali) invece che a coloro che lo hanno eletto, su una precisa base programmatica, e potrebbero togliergli il voto alla successiva mandata elettorale? Domanda ancor più pregnante proprio per la cosiddetta sinistra, dato che il voto per il meno peggio pare non funzioni più (almeno da quanto visto in Italia al ballottaggio delle amministrative).
Tornata elettorale anche in Spagna il prossimo 23 luglio, dopo la clamorosa sconfitta del PSOA nelle elezioni locali del 28 maggio (con un’affluenza del 63,91%). Il Presidente Sánchez ha deciso di dimettersi, contando forse sull’esiguità del tempo a disposizione perché gli avversari politici possano organizzarsi. Vedremo come andrà a finire a livello nazionale ma, nel frattempo, ricordiamo le politiche molto diverse, durante la pandemia, degli amministratori locali del PPE – in primis, la Presidente della Comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso – che hanno osteggiato il lockdown, vincendo a carte scoperte contro le chiusure del Governo di Sánchez e di alcune Comunità rette dal PSOE. E pensiamo anche a una mancanza di indipendenza in molte altre questioni dell’attuale Governo rispetto ai diktat di Bruxelles – non ultima la guerra in Donbass, con la promessa del “pieno sostegno” del Presidente (anche scontentando l’alleato Podemos) all’omologo Zelensky: “Continueremo a sostenervi per tutto il tempo necessario. L’Ucraina prevarrà”. E pensiamo ai diritti del popolo Saharawi calpestati o alla violenza contro i migranti a Melilla. Ovvio chiedersi – come per i Verdi in Germania – dove siano finite le istanze pacifiste e le priorità, quali il lavoro, i diritti delle minoranze e il welfare state, della sinistra spagnola. Dove starebbe la differenza profonda tra left & right?
Due righe anche per l’Italia, dove si è votato l’ultimo weekend di maggio (nel secondo turno delle elezioni amministrative). Più che l’effetto Schlein ha contato, forse, quello Emilia-Romagna. Persino la ‘rossa’ Toscana è ormai saldamente a destra e, dato che la sede della redazione è in questa regione, ci siamo resi conto di come il problema non sia lo spostamento a destra degli elettori storicamente di sinistra ma l’assoluta mancanza di un pensiero di sinistra credibile – o almeno non subordinato a quello di Bruxelles e Confindustria. Con meno del 40% di affluenza alle urne, viene da chiedersi fino a che punto le elezioni potranno essere considerate ancora legittime in questo Paese (e anche le destre dovrebbero essere preoccupate rispetto al seguito reale che hanno). Ma per quello che fu il PCI di Gramsci, parafrasando Nanni Moretti nel suo miglior film, rivolgendosi a D’Alema, viene da chiedere alla sua erede: «Dì una cosa di sinistra. Dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà…».
(1) L’Antidiplomatica, 16 aprile 2015: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-chomsky_lucraina_nella_nato_come_se_il_patto_di_varsavia_si_fosse_allargato_a_canada_e_messico/6_11284/
(2) La traduzione dell’articolo di Pepe Escobar: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pepe_escobar__il_nuovo_grande_gioco_geoeconomico_incentrato_sullintsc/5694_49757/
venerdì, 2 giugno 2023
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