Orgia sentimental-poetica firmata da Antonio Latella, dove di Fassbinder resta solo l’ombra
di Simona Maria Frigerio
Sottottoilo: Du côté de chez Fassbinder
Premettiamo, questa non sarà una recensione. Quindi, se si vogliono leggere tre righe con “mi piace/non mi piace”, meglio abbandonare la pagina e fare altro. Questo scritto è, al contrario, una ricerca amorosa di R.W. nelle pieghe di uno spettacolo che ci appare lontanissimo dalla sua poetica e dai suoi valori etici.
Riguardo a Fassbinder, Antonio Latella afferma di avere “finalmente capito la sua dimensione di autore classico”, non pensandolo più come “autore alternativo o, peggio, trasgressivo” e di essere consapevole “del suo rapporto con Čechov, con Goldoni, con la tragedia greca”. Partiamo da queste affermazioni, contenute nel programma di sala a cura di Federico Bellini, per esaminare il perché la lettura di Latella non ci abbia minimamente convinti e la sua messa in scena di Veronika Voss ci sia sembrata di un’opulenza che rasenta la ridondanza.
Iniziamo dall’identificazione del lavoro di R.W.F. con la tragedia greca. A prescindere dalle considerazioni nietzschiane o steineriane sull’impossibilità della tragedia greca in età moderna, sulla sua effettiva e ineluttabile morte, laddove la dimensione assoluta dell’evento tragico si scontra ormai con la dimensione storica o psicologica del dramma dell’uomo contemporaneo (a cui l’intero opus fassbinderiano fa riferimento), ci sembra alquanto ironico far interpretare il coro non direttamente dai personaggi che hanno segnato la vita della protagonista o da figure spettrali – o, meglio, al limite del concettuale in una visione metacinematografica à la Derrida – ma da sei gorilla albini (che solo successivamente impersoneranno i ruoli del film). Gorilla albini che non rimandano nemmeno alla “scimmia” connessa con il mondo dell’alcolismo o dell’assuefazione da droghe, ma che stranamente suscitano immagini tratte dal prologo di 2001: Odissea nello spazio; dal romanzo La donna e la scimmia di Peter Høeg; o, ancora, da ll gorilla di Brassens e De André. Il cortocircuito si completa quando i coreuti iniziano a rappare i loro stasimi (in un profluvio di mezze frasi e parole ripetute che si dipana come un filo privo di matassa).
La rappresentazione, di tipo frontale, risulta (come ne Le sorelle Macaluso di Emma Dante) statica e poco coinvolgente, mentre Monica Piseddu (al di là del premio Ubu) non ci sembra dimostrare né l’estensione vocale né quell’espressività che permisero a Rosel Zech di immortalare il ruolo di Veronika Voss accanto a quello di Nora Desmond della Swanson. Una scelta, quella della frontalità, che se poteva essere perfettamente condivisibile in quel gioiello di tagliente maestria qual è Caro George (magistralmente interpretato da Giovanni Franzoni e frutto di un’aderenza estetica oltre che etica al soggetto trattato tale da lasciare sbalorditi), in questo dramma corale spegne qualunque scintilla di immedesimazione e di compartecipazione da parte del pubblico.
A livello scenografico, mentre si srotolano brandelli caotici di vita della protagonista, ecco ben tre “comparse” predisporre le mascherine che ricomporranno il volto stilizzato di Fassbinder – elemento scenografico che si sarebbe potuto risolvere con un semplice modellino illuminato dal basso (si veda, Come ne venimmo fuori di Sabina Guzzanti). Oppure una sfilza di scarpe dipinte a mano da Massimo Giussani. O, ancora, la macchina da presa su rotaia, orpello dei più inutili, basti pensare a come sia riuscito a farne a meno lo stesso Fassbinder nel suo Effetto Notte, ossia Attenzione alla puttana santa – dove il Maestro non impersona nemmeno il regista, bensì Sasha, l’organizzatore generale di quel film abortito sul nascere.
E torniamo ancora all’affermazione di Latella di non considerare più R.W.F. un “autore alternativo o, peggio, trasgressivo” (con una connotazione del termine trasgressivo che sembrerebbe negativa). Fermo restando che noi troviamo la trasgressività una dote di Fassbinder, e un mezzo espressivo indispensabile all’autore per denunciare la politica e la società tedesca. Se vogliamo accettare l’affermazione di Latella non ci spieghiamo il perché del bacio saffico; della scelta dei costumi color carne (corpi nudi o costumi colorati, il color carne è davvero rétro); o la canzone con allusione sessuale eseguita da Estelle Franco in body stile guêpière (con continue e inutili traduzioni dal tedesco all’italiano, anche di termini quali “qui” e “non è vero?”).
E, ancora, in queste montagne russe di registri che, dalla tragedia, dovrebbero forse innalzare il pubblico all’empireo della commedia, mentre lo spettacolo assomiglia sempre più a un musical lisergico, sorge spontaneo domandarsi il perché del rifiuto dell’estetica melodrammatica tanto cara a Fassbinder (intento dichiarato da Latella, così da “avvicinarci alla tragedia greca”). Eppure, Verdi era melodrammatico. Douglas Sirk (ossia Hans Detlef Sierck, regista molto amato da R.W.F.) altrettanto. E R.W. non è mai stato da meno. La sua adesione etico-estetica al mélo è ben documentata e un abbandono di sterili polemiche sulla supposta superiorità della tragedia a qualsiasi altro genere sarebbe ormai doveroso. Se Rohmer, Chabrol e Truffaut hanno sdoganato per sempre il cinema di genere e, in particolare, il giallo e Hitchcock, sarebbe forse il caso che gli italiani sdoganino il melodramma, un genere che è da sempre congeniale al nostro Paese (ma anche agli States, come dimostra Sirk), sia a livello operistico che cinematografico e teatrale. Del resto, il mélo si sposa perfettamente con l’amore di Fassbinder verso la realtà, anche la più scabra e scomoda; e verso i perdenti, un mondo di reietti e respinti dalla stucchevole e rigida società tedesca, tanto opulenta grazie alla sua adesione al Capitalismo quanto dimentica degli orrori del Nazismo. Una società i cui valori R.W.F. non ha mai condiviso – come non condivideva lo spregio che i tedeschi, i wagneriani, hanno sempre dimostrato per il nostro Paese, e il nostro caro melodramma.
Lentamente la rappresentazione si srotola verso il finale. Veronika Voss implora un’altra scena, un’ultima possibilità – che il regista (o il direttore della fotografia, vista la sua posizione accanto alla cinepresa) le nega. È il momento più emozionante, Monica Piseddu trova i giusti toni, sarebbe il finale perfetto: lancinante, come Latella afferma di aver pensato questo spettacolo, ossia più fassbinderiano “proprio perché non consolatorio”. Peccato che questo non sia il finale.
Ecco, quindi, Veronika Voss descrivere l’azione del “buco”. La scelta della descrizione dell’azione al posto dell’azione stessa cancella ogni possibilità di tragedia. Siamo lontanissimi da Giovanni Franzoni che, nudo di fronte al pubblico, si storce nelle pose di George Dyer: carne e sangue; dionisiaco e apollineo; ethos, logos e pathos. Ma non basta, Veronika comincia a raccontare una storia su un piattino, un cucchiaino e una teiera e l’immagine della teiera volante di Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo di Giulio Giorello irrompe nella mente, con una fragorosa risata.
Ma non finisce nemmeno qui. Ecco il terzo finale. Si cala un albero enorme sul palco con una profusione di mezzi che, in un periodo di crisi economica che si riverbera anche in campo teatrale, rasentano lo spreco (del resto, se si vuole mettere in scena Il giardino dei ciliegi basta anche solo un velo, come quello ideato da Luciano Damiani per la mitica versione strehleriana del lontano ‘74). Uno spreco ancora più doloroso quando si pensa che un autore come Danio Manfredini non riesce a trovare i finanziamenti per rimettere in scena uno dei suoi capolavori, Il principe Amleto, e tanti, troppi giovani faticano a produrre opere di grande pregio e creatività. E sotto l’albero di ciliegie, in stile Dame in giardino di Claude Monet, ecco che a Veronika Voss si affiancano anche altri personaggi femminili di Fassbinder in una specie di paradiso perduto (o ritrovato), lontanissimo da quella fame di vita vissuta dell’ateo R.W., e dalla stessa volontà di Latella di non volere uno spettacolo “consolatorio”.
Il nome non è garanzia di capolavoro. Ed è giusto che sia così. Il teatro italiano ha avuto un solo genio: Carmelo Bene. È morto. Oggi abbiamo molti bravi registi che firmano opere più o meno riuscite. Questa versione di Veronika Voss non ci ha convinti (come non ci avevano convinto, l’anno scorso, Le sorelle Macaluso di Emma Dante) ma questo non toglie nulla alla considerazione che si ha per altri lavori di Latella (o di Emma Dante) che hanno contrassegnato tappe fondamentali del teatro contemporaneo e di ricerca.
Pubblicato su Artalks.net, il 19 dicembre 2015
In copertina: La locandina dello spettacolo.