Una tra le tragedie più nere di Shakespeare, firmata da Lenz Fondazione e interpretata da Sandra Soncini e dagli ospiti del REMS di Mezzani
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Le disabilità (in questo caso, psichiche) come ponti capaci di travalicare i paradigmi, sovrapponendo i linguaggi della razionalità e della follia per costruire un percorso poetico dalle radici fortemente e intimamente sofferte, in grado di realizzare un progetto estetico autonomo ma non autoreferenziale.
Un lungo percorso (sei mesi di laboratorio e tre di prove) all’interno della realtà invalicabile dei cancelli del Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale, per scoprire il labile confine tra colpa e responsabilità, attraverso il linguaggio e la fantasia poetica di Shakespeare, resi contemporanei, attuali, immanenti nella carne sofferente, nei gesti stranianti, nello sguardo perso e ritrovato, nei ricordi spezzati di chi vive – a volte da un’intera vita – in quei non-luoghi che, fino a un paio di anni fa, erano i gironi senza fine dei manicomi criminali.
Il libro della vita (installazione firmata dalla stessa regista, Maria Federica Maestri) che si apre per raccontare, attraverso lampi e suggestioni, brani della tragedia shakespeariana intessuti del linguaggio nuovo che scaturisce dal confronto con chi ha sperimentato direttamente la materia testuale nella propria esistenza. Tessere scomposte di un puzzle che ricostruisce la storia di un tradimento, un omicidio, un lento scivolare nella follia senza possibilità di salvezza – o, per chi ci creda, redenzione.
Scelta forte quella di creare un diaframma tra la performer, presente in scena, e gli ospiti del REMS, solo in video. Scelta, in parte dovuta a norme di sicurezza, che rafforza, a livello poetico, queste figure quali presenze/assenze, imago archetipiche di colpa dell’immaginario filmico, che si fanno materia carnale all’interno della struttura/prigione (reale e metaforica), sebbene non possano e non debbano compartecipare la scena per non trasformarsi in racconto di se stesse.
Unico momento d’incontro tra la Lady e Macbeth – la performer in carne e ossa eppure più irreale e intangibile nel suo ruolo attorale, e il disabile psichico, immagine filmica bidimensionale che incarna però la sofferenza autentica – è il lavaggio delle mani; insieme compartecipazione della colpa, accettazione dell’umana comune follia, sublimazione del dato reale nella rappresentazione e, quindi, astrazione formale filmica (di Francesco Pititto, che firma anche il testo, oltremodo suggestivo).
Uno spettacolo coinvolgente che pecca, forse, solo di un’eccessiva frammentazione che può rendere difficile, per chi non conosca il Macbeth, orientarsi a livello narrativo.
Luciano Uggè e Simona M. Frigerio
Pubblicato su Artalks.net, il 9 dicembre 2016
In copertina: Foto di Twighlightzone da Pixabay.