Tra detrattori e fan: cosa ha rivelato Elon Musk?
di La Redazione di InTheNet (traduzioni di Simona M. Frigerio)
In questi ultimi mesi (ma anche precedentemente) si è letto tutto e il contrario di tutto riguardo al miliardario statunitense, ora proprietario di Twitter, Elon Musk. Paladino green quando era il Deus-ex-Machina di Tesla, voce dei new-con quando affermava che gli States avrebbero fatto di tutto per accaparrarsi il litio (leggasi: non stupitevi del golpe in Bolivia), audace (o feroce) pirata della rete quando scalava le quote societarie di Twitter per farsi paladino delle libertà, rivelando la complicità dei manager di quest’ultima con il Federal Bureau of Investigation.
Facciamo un passo indietro. I cosiddetti Twitter files sono stati pubblicati a scaglioni mentre tre giornalisti – Matt Taibbi, Bari Weiss e Michael Shellenberger, incaricati da Musk – esaminavano la documentazione concentrandosi su alcuni processi decisionali che hanno portato, ad esempio, alla chiusura dell’account dell’ex Presidente Donald Trump a gennaio 2020.
I Twitter Files in pratica sono costituiti da migliaia di documenti interni, che riguardano le decisioni dei cosiddetti ‘moderatori del social’ (onnipresenti ormai ovunque nella rete, da FB a YouTube). I documenti finora pubblicati si focalizzano sul materiale che sarebbe stato trovato nel laptop di Hunter Biden (https://twitter.com/mtaibbi/status/1598822959866683394?t=2c6hbUzovHaWgkadt-vTEA&s=19); su come Twitter abbia utilizzato alcuni strumenti per diminuire (o azzerare) la visibilità di alcuni account (https://twitter.com/bariweiss/status/1601008766861815808); e sulla decisione, come scrivevamo, di rimuovere Trump della piattaforma dopo quanto successo in Campidoglio.
Aldilà della denuncia del giornalista Bari Weiss, secondo cui i documenti rivelerebbero che la limitazione “attiva della visibilità di interi account o di tematiche di interesse” fosse portata avanti “in segreto, senza informare gli utenti”; fa più specie notare che i social hanno una policy riguardo a ciò che è ammesso scrivere e a ciò che non lo è che rivela immediatamente come la libertà di parola, negli States ma non solo, sia ormai solo sulla carta. Dai cosiddetti hate speech (o discorsi che fomenterebbero l’odio) alla protezione dei minori, dalle immagini troppo crude per la sensibilità di alcuni alla vignetta blasfema fino alla critica dell’azienda nella quale si lavora, la verità è che quando si cominciano a mettere dei paletti a ciò che una persona può o meno dire in pubblico si è già in un sistema che vieta la libertà di esprimersi e criticare. Come scriveva Evelina Beatrice Hall: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita affinché tu possa farlo”.
La pratica dello shadow banning comporterebbe, in particolare, l’uso di algoritmi per ‘de-amplificare’ i tweet sgraditi – ossia evitare che raggiungano un’ampia fascia di utenti. Ma parrebbe che in Twitter significasse anche qualcosa di più invasivo, ossia “rendere il contenuto di qualcuno deliberatamente irrintracciabile da altri”. In ogni caso Musk pare abbia twittato che la sua policy sarà: “freedom of speech, but not freedom of reach” e, quindi, i “negative/hate tweets will be max deboosted” (ovvero, de-amplificati come prima). Il che ci riporta al ragionamento già espresso: chi giudica cosa sia, ad esempio, un hate speech? Quando un palestinese denuncia l’ennesimo omicidio compiuto da un soldato, un colono o un membro delle forze dell’ordine israeliano contro un cittadino dello Stato di Palestina è un commento antisemita? E se una persona ha la convinzione religiosa che sia giusto che una donna vada in giro col velo o un bambino subisca la circoncisione e lo afferma, esprime la sua opinione o un parere che la parte più liberal o laica della società potrebbe considerare negativamente, in quanto per la stessa retrivo?
Per quanto riguarda Hunter Biden e lo scandalo denunciato da The New York Post (vedasi anche 1) a ottobre 2020, pare che Twitter e Facebook abbiano limitato il diffondersi della storia perché insicuri circa la fonte della stessa e perché contrari all’uso di materiale hackerato. Ovviamente nell’attuale clima da caccia alle streghe statunitense, in cui Assange è etichettato come “terrorista high-tech” dal Presidente Joe Biden in persona, c’è da chiedersi come possa lavorare seriamente un giornalista investigativo se può solo pubblicare materiale già pubblicizzato. E come possa un articolo di un online minore o sgradito al sistema arrivare alle masse se si blocca la sua trasmissione persino come messaggio diretto – “strumento di solito utilizzato dai social solo in casi gravi come la pornografia infantile”, come puntualizza Taibbi. Per dovere di cronaca aggiungiamo che i medesimi manager di Twitter hanno poi deciso di “etichettare i Tweet” invece di bloccarne la condivisione. Anche in questo caso nulla di nuovo sotto il sole, visto che sono quasi tre anni che FB, ad esempio, avverte (o cerca di scoraggiare?) gli utenti di non leggere articoli sul Covid-19 o sul vaccino senza prima consultare l’Oms o altra fonte secondo lo stesso social ritenuta attendibile (come se paracetamolo e vigile attesa e l’inoculo salvifico avessero davvero abbattuto la mortalità e impedito alla pandemia di trasformarsi in endemia. Ma purtroppo, permettere che si metta in dubbio o, peggio, si esamini puntigliosamente l’intera narrazione potrebbe essere, forse, troppo pericoloso per alcuni poteri forti).
Sempre riguardo a Hunter Biden, Musk ha puntualizzato che cancellare un tweet su richiesta dei connected actors (ovvero persone coinvolte indirettamente) “sarebbe una violazione del Primo Emendamento” e, peggio, sarebbe farlo su richiesta del Governo. A chi ha risposto a Musk che a intromettersi sia stata l’FBI più che il Governo, occorrerebbe domandare a chi risponda il Federal Bureau – oggi, come negli anni di Hoover o del Patriot Act. Gli esperti di diritto cavillano, però, che tale articolo della Costituzione statunitense protegge i cittadini dall’intromissione del Governo nel loro diritto di libera espressione, mentre i social sarebbero aziende private che forniscono un servizio definibile come forum di discussione. A questa affermazione si potrebbe obiettare che la libertà di parola, in una società civile, va garantita a tutti da tutti (altrimenti non si avrebbe un sano dibattito tra posizioni contrastanti ma un pensiero unico dominante). Non solo. Considerare i social non come aziende che forniscono piattaforme ma come moderatori dei contenuti ivi espressi va nella direzione di un’intromissione nel pubblico dibattito paragonabile alla censura preventiva sulle opere autorali, dai film ai libri fino agli spettacoli teatrali perché, di base, si agisce – ufficialmente – per proteggere l’utente (o il fruitore) ma, in effetti, si impedisce allo stesso di diventare un lettore, uno spettatore, un cittadino consapevole che decide da sé cosa pensare di un determinato argomento. E infine, in Italia, con il nuovo Codice di comportamento per la Pubblica Amministrazione, sarà direttamente la PA, grazie al Governo, che potrà censurare qualsiasi critica espressa da un dipendente su un social (come già fanno le aziende private). Se si va avanti così forse, alla fine, si tornerà allo speaker’s corner, al ciclostile da distribuire al mercato rionale, al libello attacchinato fuori dagli spazi consentiti – per riprenderci almeno un minimo di libertà di espressione.
Kenan Malik su The Guardian (2) ricorda che “solo negli ultimi sei mesi del 2021, Twitter ha censurato lo straordinario numero di 4 milioni di tweet – una cifra che in se stessa dovrebbe farci riflettere. Il pregiudizio politico su quei 4 milioni di decisioni non è noto. Vi è poca discussione, per esempio, circa la soppressione delle voci palestinesi, pratica che è proseguita anche sotto Musk”.
Ma veniamo a quello che ci pare il fatto più grave e al quale abbiamo solo accennato. Ossia la connessione tra un’azienda che si occupa di social media e le organizzazioni incaricate della sicurezza di uno Stato, come l’Fbi. Parrebbe che agenti del Federal Bureau tengano “incontri regolari coi manager di Twitter”, come denuncia ancora Kenan Malik, “facendo pressioni perché agiscano contro la disinformazione, persino quando si tratta di poco più di un tweet satirico, e chiedendo i dati personali dell’utente”. Non solo l’Fbi vuole, quindi, che i social violino la privacy dei loro iscritti – senza un’accusa precisa e quel famoso mandato che si sventola in ogni telefilm statunitense – ma pagherebbe i social per farlo. Se, come scrive Cnn (3), è giusto che il Federal Bureau ripaghi del tempo sprecato le società quando queste le forniscono dati, è altrettanto vero (anche se non pare venire in mente ai colleghi) che tale pratica comporta una serie di ricadute. Immediatamente tornano in mente i metodi maccartisti di denuncia; più sottilmente, si potrebbe obiettare che quando un social fornisce del materiale alle forze dell’ordine sulla base di un regolare mandato – e nel corso di un’indagine – sta solamente facendo il proprio dovere (e forse dovrebbe farlo gratuitamente). Se al contrario rivela dati sensibili o si trasforma nel watchdog a pagamento del Federal Bureau o di un’altra agenzia per la sicurezza nazionale, è il sistema democratico nel suo insieme che prende a scricchiolare. Ed è lo stesso Kenan Malik a ricordare come in “molti pare si siano scordati la sordida storia dell’Fbi quando minava i movimenti radicali – dai sindacati alle organizzazioni per i diritti civili. L’indifferenza dei liberali e di molti nella sinistra rispetto a tale interferenza statale nella vita pubblica è allarmante”.
Salvaguardare la libertà di opinione su ogni media equivale a difendere le basi sulle quali poggia la democrazia – sempre meno sociale, a tratti nemmeno più formale.
- https://nypost.com/2022/12/20/the-naked-truth-on-the-hunter-biden-laptop-coverup/
- https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/jan/01/the-twitter-files-should-disturb-liberal-critics-of-elon-musk-and-heres-why
- https://edition.cnn.com/2022/12/20/media/elon-musk-fbi-twitter-reliable-sources/index.html
venerdì, 3 febbraio 2023
In copertina: Foto di 巻(Maki) (gratuita da usare sotto la licenza Pixabay)