Il monologo di Marcela Serli scritto per Caterina Simonelli
di Simona Maria Frigerio
Il teatro ha la capacità di trasformarsi, in quanto è un insieme di mezzi e linguaggi che, coniugandosi sulla scena, traslano un testo in uno spettacolo – o in una performance che dir si voglia – che, da quel testo certamente parte, che a quel testo si rifà più o meno fedelmente, che quel testo traduce però anche in immagini, azioni, movimenti, espressioni facciali e mimica, e poi (se se ne hanno i mezzi) scene e costumi, elementi multimediali, musiche magari dal vivo e sound design, apparato luci, movimento di parti di scena o di oggetti o, ancora, arredi, e così via.
Nel teatro di regia è spesso quest’ultima a operare la trasformazione: qualche volta snaturando, altre trasformando il testo di un autore nello spettacolo di un regista (l’autoreferenzialità narcisistica non è appannaggio solamente degli attori), altre ancora compiendo, al contrario, la magia del teatro che è proprio rendere tridimensionale un testo porgendolo poi dal vivo allo spettatore – elemento indispensabile per il suo compiersi.
Compiendo al contrario noi, per una volta, il percorso: se in un altro articolo (su questo stesso magazine, intitolato Teatro di Corte) abbiamo scritto una recensione relativa allo spettacolo, ora vogliamo approcciare il testo originale, firmato da Marcela Serli, intitolato Voglio cambiare lavoro (che riportiamo a fondo articolo avvertendo che lo stesso, gentilmente concesso dall’autrice per la pubblicazione, non potrà essere riprodotto totalmente né parzialmente, in nessun contesto o format, senza il permesso della stessa).
Il testo ha tre punti fondamentali sui quali focalizza l’attenzione del pubblico. La precarietà del lavoro teatrale, specialmente al femminile. La differenza tra fare teatro e fare cabaret (o peggio, televisione, dato che alcuni cabarettisti italiani riescono a virare verso la complessità del teatrale abbandonando la macchietta, e pensiamo ad esempio alle Brugole, https://www.google.com/amp/s/teatro.persinsala.it/cabaret-per-2-donne-e-1-amore/3985/, che vedemmo anni fa a Zelig – il locale, e non il programma TV). E infine la pretesa (di politici come di operatori) che i teatranti e gli artisti, debbano divertirci, intrattenerci, farci ridere – come giullari alla corte del re (o del reuccio di turno).
Nella scrittura di Serli spesso sono i puntini di sospensione a spostare gli accenti e, impercettibilmente, anche i registri – tra l’altro, l’interprete scelta, Caterina Simonelli, ha perfettamente compreso come riempire i vuoti, i puntini, con un mix di svanita leggerezza e incombente isteria (da almodovariana donna sull’orlo di una crisi di nervi). Questi continui spostamenti di senso ci mostrano, sotto una apparente levità, il vuoto e lo squallore di un mondo che continua a essere dominato, non solamente dai maschi (il che varrebbe anche per un ufficio o un’aula universitaria), ma da un alto grado di precarietà lavorativa.
Un precariato, quello teatrale, che non deriva solamente dalla mancanza di una normativa e forme di tutela del lavoro di stampo, ad esempio, francese, e la cui mancanza lascia danzatori, attori, autori e registi in una condizione di ricattabilità. O da una incapacità dell’artista di considerarsi più uomo o donna di mestiere, che appartiene a una categoria lavorativa, che non estro e astro unico e in perenne ascesa – salvo poi schiantarsi. Bensì un precariato che forse affonda le radici nel modo, comune almeno in Italia, di guardare al lavoro artistico, ossia come a un piacere che, in quanto tale, va esercitato gratuitamente o, nel caso non si abbiano altre rendite, nel tempo libero (per buona pace dei politici che, nel famoso o famigerato Codice dello Spettacolo dal Vivo equipararono amatoriale e professionale). Se, quindi, l’attore e il regista, come l’autore e il musicista, il pittore, l’intellettuale e il danzatore (tutti anche al femminile) si divertono a fare ciò che fanno, ovviamente non lavorano (dato che, per matrice cristiana, l’uomo lavora con sudore e la donna partorisce – nonostante l’epidurale – con dolore). E se si divertono loro, ne consegue, che devono far ridere pure noi, altrimenti a cosa si può aspirare sedendosi in poltrona – a casa propria o nella platea di un teatro?
Leggere il testo fa sorgere dubbi e domande. Fa pensare. Ogni tanto scappa anche un mezzo sorriso, ma è a denti stretti, come quando la nostra Maria Antonietta affacciata al balcone sembra la vicina che ci sbraitava addosso: «Io resto a casa» – il diktat del Premier, tormentone della primavera, chiave delle nostre case/prigioni che avrebbero dovuto proteggerci da un’influenza con complicanze per ultrasettantacinquenni con tre patologie – che lo fossimo o meno. Ma è il sorriso tipico del teatro, ossia proprio della vita e, quindi, mischiato con la consapevolezza triste di comprendere, ma anche con la bellezza caduca dell’esserci, qui e ora, a tentare un dialogo con l’altro da sé.
Marcela Serli, attrice, drammaturga e regista argentina di origini italo-libanesi, da vent’anni lavora e vive sia nel nostro Paese sia all’estero, interessandosi di tematiche legate all’intolleranza politica e morale, all’identità di genere, al disagio psichico, che affronta mixando linguaggi e generi in quello che definisce lei stessa: una ricerca stilistica ove il caos politico ed economico si applica ai concetti artistici.
Voglio cambiare lavoro
di Marcela Serli
L’ATTRICE VESTITA DA REGINA ELISABETTA O MARGHERITA O MARIA TERESA O QUEL CHE L’È (PARLA CON QUALCUNO DIETRO O DI LATO)
Caratteristiche: irruenta, nevrotica ma fragile e insicura. Parla spesso velocemente.
Ma che senso ha, che senso, ma dimmi te, che senso ha?
Voglio cambiare lavoro.
Perché, no? mi chiedo, no? a che serve ? A che serve il mio lavoro?
Ma no, ma che senso ha, no, che senso ha farlo, cioè, nel senso di senso. Di senso proprio.
Voglio fare un lavoro che sia… che serva …. cioè che sia utile, che serva a qualcosa.
No no no no no, non devo entrare ancora, no no no no non so, no.
Mi devono chiamare boh.
No, non ho gli occhiali, sono… no, non li ho trovati, non so dove li ho messi, non li vedevo, appunto…
Certo, certo che potrei usare le lenti ma (SUSSURRA) costano troppo.
E non sono in un momento particolarmente…
Ma sì, a volte uso gli occhiali. A volte sì, a volte no, no, a volte scelgo di no. Perché non voglio… come… vedere, ecco, non conviene, ho imparato questo, ultimamente.
Ma aspetta un attimo, che ti stavo dicendo un’altra cosa che era più… e…
Senti… ah! Ecco: io voglio cambiare lavoro.
Capisco duecento anni fa, ma adesso ha senso?
Senti. Ma a te chi t’ha detto questa cosa che non posso cambiare adesso? Certo sì, so, mi sono specializzata in questo lavoro. Che sia troppo tardi per specializzarmi in altro? Dici?
Beh, io so fare un sacco di cose, tipo… tipo… Ma sì che le so già fare, sì, sì, le ho viste fare 100 volte. Per esempio?
Per esempio, mungere il cavallo, dare fieno (o come si chiama) alla vacca, scusa, mucca, prendere le uova delle capre, tosare le vigne, Heidi…
(DOPO UN PO’ DI TENTATIVI, SI DEPRIME)
Lo so che da me vi aspettate… vi aspettate altro.
Che vi faccia ridere. È che io non sono un giullare di corte.
Guarda che comunque non ho nessun problema a far ridere.
Eh sì certo, adesso??? Ma non è che posso far ridere così dal niente, d’amblé.
Cioè tu mi dici: fai ridere e io? cosa? Sì, beh, so delle… Barzellette, barzellette sì, hai sentito quella di…. (E RACCONTA TRE BARZELLETTE BRUTTISSIME: quella dei pomodori, per esempio).
Vedi, non ridi, lo vedi che non ridi, che non fa ridere, e lo so che non fa ridere lo so… lo so che me l’hai detto, non fa ridere…
(SI ACCENDE LA LUCE IN PLATEA O LE PASSANO I SUOI OCCHIALI RITROVATI, VEDE LA GENTE E SI BUTTA GIÙ A TERRA – STRISCIA DI QUA E DI LÀ SENZA SENSO E SUSSURRA)
Ci sono! Li ho visti!
Perché mi sono buttata a terra? E che ne so, mi è venuto così, spontaneo. È stato spontaneo.
Ma no, è come, è una tradizione: vedi qualcosa, ti spaventa, ti butti a terra.
Ma come se mi sento in guerra? No no no no non mi sento in guerra, nel senso che sì, per dir la verità, a volte sì, a volte mi sento in guerra.
Perché?
Tu non ti senti in guerra?
No?
Dovresti.
Perché parlo così? Semplice: li ho visti! Cioè, nel senso, tu lo sai che senza gli occhiali non vedo una mazza, cioè una talpa, cioè no! Che sono come una talpa. Ecco ora li ho visti, li ho visti. Minchia se li ho visti. Ascolta! Loro sono qui, e che ne so! scusami qualcuno li ha portati!
(ALZANDO SEMPRE DI PIÙ IL VOLUME)
Un organizzatore, li avrà portati un organizzatore, che ne so.
Che li abbiano pagati per essere qua? Perché ormai ci toccherà… No? Pagare come.
E se non li han portati, loro si saran portati da soli, i capannoresi, canarini, capa, vabbè, quelli di qua.
O no, o forse sono degli indipendenti, dei rivoluzionari, e sono venuti da soli, con le sediette, che gente audace!
Vabbè, comunque, chi se ne frega.
Ma non è che non mi interesso degli altri! Non è vero che io sono come tutti quelli che fanno il mio lavoro, un’egocentrica,
La verità è che io ho dei problemi.
Lo so che lo sai. Ma intendo che in questo periodo si sono accentuati.
Nel senso, guarda ora. Io ho capito che loro sono qua, loro hanno capito che io sono qui, ma non riesco a partire, capisci.
(URLANDO) Lo vedo che mi stanno guardando. Ora dovrei dire qualcosa, vero? Cioè cosa, cosa? (USCENDO)
Ah, ok.
Scusate (DI LATO): quindi devo far ridere o no?
(SPINTA DA FUORI, CADE SUL PALCO)
(PER TUTTO QUESTO PARAGRAFO VERRÀ CENSURATA DA FUORI SCENA MENTRE PARLA)
Ecco, buona sera (ah, non devo salutarli?),
come va (neanche?).
Periodo duro, eh? Vedo, vedo, Lei manco è andato dal parrucchiere vedo, oh scusi: sto vivendo un momento difficile. Certo, può non interessare.
Comunque, per certa gente non è stato così duro: guarda che bella abbronzata, avevi il giardino, ne?
Eh, beh, i ricchi…
Perché i poveri se la sono passata in un modo e ricchi in un altro.
Che io stavo in un appartamento, che quando aprivo la finestra vedevo il muro dell’altro palazzo, e siccome mi annoiavo cosa potevo fare, mi sono messa lì sulla finestra e ho cominciato a guardare di sotto (URLANDO):
- La mascherina! ti devi mettere la mascherina! Dove vai a correre, serial killer! Oh niente baci, non vi baciate, non si può, cosa fate!
Ma no, cosa credi, non ho solo urlato durante, all’inizio ho anche cantato, (ti faccio sentire?) (Fratelli d’Italia).
(SUONA UN TELEFONINO)
-cos’è? No, non ci credo, sta suonando un telefono, avete lasciato acceso il telefono, ma questo è teatro, io non sono la tv, io vi vedo.
(SI INCAZZA)
Lo vedi che il mio lavoro non conta niente! Tengono acceso il telefono! Non gliene frega niente che io sia qua, ma cosa vuoi che gli importi, loro vogliono ridere. Non ci sto, vado fuori, basta, voglio cambiare lavoro.
INTERVALLO
Non voglio, te l’ho detto, non voglio rientrare, questi vogliono ridere e io non so neanche una buona barzelletta.
(LA SPINGONO DA FUORI E CADE SUL PALCO)
Ahia, ahia!
E neanche danzare, nel senso che non so, non so farlo, che al limite entravo con quella di prima. Ma non mi hanno voluta. Per la danza dico.
E adesso cosa faccio?
Oh basta con questa cosa che devo far ridere! Non mi hai lasciato parlare con loro, lo so che non è per quello che vengo pagata. Ma volevo entrare in confidenza. Stavo appena conoscendoli, lo so, ma ormai mi avevano vista. Non potevo far finta di niente, la magia si era già rotta e si era rotta e malamente.
Adesso comincio! Va bene.
(FA UN GESTO PER CONCENTRARSI)
Non occorre che tu me lo dica.
Lo so che lavoro faccio, io faccio l’attrice (VERGOGNANDOSI). È inutile che me lo dici tu, lo sto dicendo io, faccio l’attrice. Ne sono certa, certo. Me ne sono accorta perché ho preso i 600 € di bonus dell’Inps Sitz.
Li ho presi questi 600 € di bonus malus. Ti dico la verità. Li ho presi, presi per il primo mese, dopo non ho preso più niente… e… perché sono un’attrice che… il mondo dello spettacolo, capisci, i giullari, noi facciamo divertire, facciamo ridere capisci? Non è il mio caso ora, ma in generale, dovremmo far ridere, no? Quindi non possiamo essere pagati.
Nel senso che abbiamo paura che il divertimento sia una cosa seria, ovvero che vada pagato. Ovvero temiamo che vivere la vita divertendoci non sia vivere la vita. Ovviamente io penso che la vita debba essere vissuta proprio per divertirci, amare, ridere, ecc. Ma tanto lo sapete anche voi ormai: sto vivendo un periodo difficile.
Comunque 600 li ho presi. E allora tu mi chiederai: cosa ci hai fatto con quei 600 €? Chiedimelo! Chiedetemelo tutti! Niente, cioè tutto.
Ovvero, 600 € per tre mesi fanno 200 € al mese, che fanno 50 € alla settimana che fanno 6, 66666 al giorno…
(Elenco di quello che si può fare con 600 euro in tre mesi)
Ovviamente l’affitto non lo paghi, l’elettricità non la paghi, il gas non lo paghi.
Vabbè alla fine li ho spesi in questo vestito, ho noleggiato questo vestito.
E sapete perché. Perché mi sono detta che anche io potevo fare la regina Elisabetta, Maria Teresa d’Austria, Maria Stuarda, lady Macbeth. SONO UN’ATTRICE!!! Basta stereotiparmi! Pure io, alta 1, 50, con le spalle che mi ritrovo posso fare una regina. Basta! Bastaaa! Che con questa scusa hanno trovato un altro modo per escludermi. Che non so se lo sapete, ma sui palcoscenici italiani solo il 30 per cento sono attrici. Il 70 sono uomini! Avete capito che il 70 per cento sono uomini? Ma questo va avanti così da secoli, eppure le donne sono di più al mondo, quindi le storie di donne sono di più, eppure si raccontano più storie di uomini che di donne. Anche perché sia le autrici (quelle che scrivono di teatro) sia le registe, a cui in Italia danno lavoro, sono solo il 15 per cento. Lo capite??? Eppure le abbonate, lo spettatore medio è una DONNA! Quella che paga maggiormente è una donna! Quindi una donna paga perché le venga raccontata la storia di un uomo!!!
Sì (VERSO FUORI) ho capito che devo chiudere.
Comunque.
600 € di bonus per così tanto tempo senza lavoro è troppo, no?
Sì, certo, voi forse vi starete dicendo che “sono giustificati questi soldi”, per me, per una come me che fa il lavoro che fa. Cioè?
Che lavoro fa? Cioè faccio? Ecco, ma io cosa faccio? Che lavoro faccio?
Ti intrattengo?
Ti diverto? No questo no.
Ti consolo?
Ti ispiro?
Non so.
Io faccio l’attrice, e loro forse si aspettano che io faccia ridere, o al massimo Shakespeare da me, Goldoni, Pirandello da me. Ma io non posso più ingannarli con Shakespeare, questi qua, no, no, non posso più dire essere o non essere questo è il problema, il problema è che a questi bisogna ingannarli con qualcosa di contemporaneo, capisci? Sono troppo abituati ad essere ingannati con il contemporaneo. Devo divertirli, divertirli capisci. Questi dovrebbero ridere capisci.
(ALZANDO SEMPRE DI PIÙ IL VOLUME)
E no, cara, scusa, mi oppongo a fare cabaret, ho anni e anni di studio nella scuola di teatro più importante che ci sia e mi metto a far cabaret.
Per una volta che escono da casa io gli propongo lo stesso che hanno visto in questi giorni in TV, in questi, in questi mesi, anni, sì, anni. Trent’anni col bidimensionale davanti, con la pappa in bocca, i pensieri serviti.
No, infatti, volevano chiamare quello, Claudio, e come si chiama, quello famoso che fa cabaret, ma con i soldi che avevano, capisci, hanno chiamato me, me, una sopravvissuta dei tre mesi, donna attrice, il precariato del precariato, capisci?
(GIRETTO SU STESSA)
DI-VER-TIR-LI, da diverticoli, sì, diverticoli intestinale. Quella infiammazione che ti viene… io ce l’ho: anzi, ogni volta che qualcuno mi chiede di divertirlo mi viene la diverticolite. Cioè mi si gonfia, capisci. E mi viene la diverticolite solo perché non mi può venire l’orchite. Che sono una femmina. Anche se dalle spalle non si direbbe.
Oh!
Ma la salvezza, signori miei NON STA NEL DIVERTIMENTO!!! MA NELLA COMPRENSIONE, NELL’APPRENDIMENTO!!!! Lo so di essere una pippaiola.
Vado via, no, sì, torno (FA PER SCENDERE PIÙ VOLTE E POI TORNA SU).
Sai cosa voglio fare? Il teatro. Lo so che all’inizio ho detto il contrario, lo so, ma sai cosa? Sì, ma sai cosa intendo io per teatro, teatro con la T maiuscola. Se io potessi fare il teatro bene, bene, con il tempo per farlo, il tempo quello giusto, quello che ci vuole e con i soldi per farlo, sì hai sentito bene, con i soldi. Cos’è che diceva Virginia Woolf: “per creare ci vogliono soldi e una stanza tutta per sé”.
Che cosa faccio io? L’attrice, o meglio teatro, faccio teatro,
Cos’è? Cos’è il teatro?
Una cosa che apre la mente all’immaginazione, che ti fa sviluppare una parte sopita: il sogno, il fantastico nascosto nei meandri del cuore, che poi ti accompagna alla catarsi, quella sensazione di liberazione, di sprigionamento delle proprie energie, emozioni, stati d’animo repressi che è possibile, se durante uno spettacolo ti immedesimi, empatizzi con quello che ti racconta l’attore, e in questo caso l’attrice!
Il teatro SERVE signori. Ti allena la mente!
Lo so, sto diventando sentimentale, ma sai, mi prende così, che ci posso fare.
Ecco, dicevo, la catarsi! Ti fa esplodere, e questa tua rivoluzione interiore compiuta in così breve tempo, in questi minuti così, sono una porta verso la speranza, verso la consapevolezza, verso l’amore. Mamma mia sto esagerando col romanticismo? Scusatemi. Aspetta che mi concentro sul bonus e mi passa subito. Ecco, passato.
(INIZIA UNA MUSICA E SI VA ALZANDO DURANTE)
Sì, è così. Siete voi, sei tu che lo scrivi insieme a me questo pezzo, io non sono la tv, io non sono una bidimensionale e atemporale realtà. Perché io sono qui, ora, davanti a te. Quasi ci possiamo toccare.
E il teatro è esattamente questa cosa magica che c’è qui in mezzo, tra noi. Qui. (E LO DISEGNI NELL’ARIA).
Vabbè, cosa facciamo? Cominciamo?
BUIO
Venerdì, 7 agosto 2020
In copertina: Foto di FotoKalde da Pixabay.