Da Milano a Hollywood dove vogliamo andare?
di Simona Maria Frigerio
Alcuni giorni fa leggevo la biografia dello storico Yuval Noah Harari su Wikipedia – la stessa fonte che ha epurato, ad esempio, i fatti di Odessa e, quindi, dovrebbe essere ben accetta dal mainstreem politically correct. Sotto Vita Privata, si legge: “Harari vive col marito Itzik Yahav…”.
Nulla di strano: due uomini sposati saranno marito e marito. Due donne sposate moglie e moglie. Per anni gay e lesbiche hanno rivendicato il diritto di sposarsi come gli eterosessuali e di ricoprire precisi e riconoscibili ruoli sociali, indipendentemente dalla scelta di avere come partner affettivo e sessuale una persona del proprio sesso (invece di una di sesso opposto).
E allora perché mi si è accesa in testa una lampadina?
In queste settimane si è rinfocolata, in Italia, la polemica – diciamocelo – gretta e retorica (nel senso di sostanzialmente vuota) sul fatto di togliere gli appellativi padre e madre dai documenti dei bambini, per sostituirli con genitore 1 e genitore 2.
Logica conseguenza, a questo punto, sarebbe che non esista oltre il termine marito o moglie. Harari vivrebbe con il coniuge (1 o 2 non sappiamo) ma, a quel punto, certe femministe potrebbero obiettare che coniuge rientra in quel neutro che a loro non piace e nemmeno il fatto che esisterebbe la differenza dell’articolo (maschile o femminile) potrebbe portarle a ragionare. Se entriamo poi nella diatriba non-binary allora il termine corretto dovrebbe essere una traduzione che si accordi con l’uso del they al singolare per appellarl* (l’asterisco è così trendy!). Il/la they non-binary sposerebbe un ‘coniugi’ al singolare? Non pensiate, però, che tale disquisizione riguardi un pelo di lana caprina. Il signor Burke, qualche mese fa, sarebbe finito in carcere, in Irlanda, perché non voleva appellare al maschile una ragazza in transizione di genere. Pur non condividendo la fede e le scelte etiche del signore, incarcerare chicchessia per le stesse è paragonabile ad arrestare una donna perché non indossa il velo – anzi, è peggio, dato che il velo in certi Stati è obbligatorio per legge mentre in Europa, per legge, dovrebbe essere garantita la libertà di parola, opinione, critica, fede religiosa o politica, eccetera.
Ma torniamo al they. Sempre in queste settimane, Emma Corrin ha dichiarato a BBC News che non dovrebbero più esistere le categorie miglior attore e miglior attrice alle premiazioni filmiche bensì una sola categoria gender-free. Così facendo si taglierebbero della metà i premi e, dato che a questo Settimanale i premi non piacciono, potremmo anche esserne contenti, ma siamo sicuri che sia positiva una scelta gender-free? Ossia, ‘libera dal genere’?
Dopo che per decenni le femministe hanno cercato di convincere i maschi e i cosiddetti compagni che esiste una differenza di genere, e che la risoluzione della questione femminile non coinciderebbe con l’avvento della rivoluzione socialista o comunista, che (come diceva Lenin) ci avrebbe portate: “a lavorare da pari a pari per trasformare la vecchia economia e la vecchia ideologia” con gli uomini, ci ritroviamo di fronte a una pretesa libertà dal genere che corrisponderebbe all’azzeramento di qualsivoglia differenza.
Siamo sicure, noi donne soprattutto, di non voler rivendicare specificità come la procreazione? E lo scrive una donna che ha scelto di non essere madre ma rispetta le donne che, al contrario, in quella scelta vedono una tra le espressioni della loro unicità e che la rivendicano anche come valore di cura verso l’altro da sé. Del resto, negare la specificità della procreazione pare andare nella direzione della legittimità dell’utero in affitto – o madre surrogata che dir si voglia. Se si accetta il fatto che ciascun uomo e ciascuna donna può usare il proprio corpo come preferisce – e, in una società capitalistica, anche venderlo, come si fa col proprio tempo e la propria intelligenza – ne consegue, però, che sia altrettanto legittimo acquistare un utero, un ovulo, lo sperma e perfino un bambino? E da qui ad affermare che sarebbe altrettanto legittimo comperare un organo per un trapianto, o il sangue per una trasfusione, il passo può essere più breve di quanto si pensi. Ne conseguirebbe che la prostituzione (maschile, femminile e i vari +) andrebbe fatta rientrare nel novero delle prestazioni professionali fatturabili e tramonterebbe per sempre l’idea, un po’ desueta e ancora comunista, di un mondo in cui nessuno più dovrebbe vendersi per vivere e, soprattutto, a nessuno verrebbe mai in mente di comprare un altro essere umano – per piacere sessuale, per procreare o per soddisfare il proprio desiderio (che non equivale a diritto) di genitorialità da spot tivù.
Se è vero che esistono gli stereotipi di genere, contro i quali ha senso fare un’opera di educazione soprattutto nei bambini e negli adolescenti (che dovrebbero anche usufruire di un’educazione all’affettività fin dall’età scolare), non è lecito sottacere le problematiche nelle quali incorriamo da sempre proprio a causa delle difficoltà che insorgono quando si ha una famiglia disfunzionale, o se non ci si riconosce nelle nostre madri o nei nostri padri. L’anoressia, solo per fare un esempio, ha molto a che fare con il bisogno delle giovani di impedire al proprio corpo di diventare donna in quanto vi è una difficoltà nel riconoscersi nelle proprie madri – donne, a loro volta, la cui femminilità è stata svalutata, oppure che assumono atteggiamenti fagocitanti nei confronti delle figlie. Anche solo il fatto che l’anoressia colpisca le ragazze (soprattutto tra i 15 e i 18 anni) con un rapporto di 9 a 1 rispetto ai ragazzi dovrebbe farci comprendere che, non solamente esiste il genere, ma anche che la differenza di genere è insita nel nostro immaginario collettivo – e nella nostra biologia: siamo e restiamo una specie animale.
Se fino a qualche tempo fa si tentava di dare a tutte e tutti i cittadini gli stessi diritti di fronte alla legge, cercando di creare una società in cui la differenza non fosse considerata come un detrimento bensì come un arricchimento del corpo sociale e relazionale, pare che adesso si tenti di omologare i corpi, come già si fa con i pensieri – con le orwelliane ‘pillole contro la disinformazione’, gli algoritmi dei social o NewsGuard, l’agenzia statunitense nata nel 2018 e denunciata in un nostro precedente articolo (1).
Anche restringendo il campo di indagine alla questione del cognome, cosa c’è di tanto sbagliato se la donna partorisce, che il padre intervenga riconoscendo il figlio e, quindi, dando il proprio cognome? Ma mettiamo che si vogliano anche usare entrambi i cognomi, il paradosso lo affronterebbero le seconde generazioni con un bambino che si ritroverebbe (per non far torto a nessuno) con quattro cognomi e, la generazione successiva, con otto e così via. Si potrebbe lasciare la scelta al figlio che, raggiunta la maggiore età, potrebbe optare per il cognome del padre o della madre. Ma il problema, in quel caso, sarebbe tutto burocratico. In un Paese in cui fuori Regione le strutture sanitarie non riescono nemmeno a leggere la tessera sanitaria del cittadino, e il sistema informatico della Regione Toscana (per esperienza diretta) è così desueto che non può modificare la scelta del medico di famiglia – nel caso lo si cambi – pensate a cosa succederebbe nel momento che decine o centinaia di migliaia di giovani, ogni anno, volessero assumere un cognome differente: occorrerebbe aggiornare tutti i certificati amministrativi, i diplomi scolastici, le cartelle sanitarie (e, ovviamente, il certificato vaccinale), i documenti anagrafici, e così via. Potremmo quasi quasi abolirlo, il cognome, a questo punto. Ma quante Maria, Laura, Viviana o Chiara diventerebbero indistinguibili? Soluzioni alternative? Tre o quattro nomi per ciascun bambino? O un numero? Così finalmente avremmo realizzato il sogno dei lager nazisti. Saremmo tutti solo e unicamente numeri.
Senza volare troppo pindaricamente, ci chiediamo perché una donna, madre e lesbica, non dovrebbe volere che suo figlio o sua figlia la chiami mamma. Così come non capiamo perché l’eterosessuale, che non si riconosce in una Pangea sessuale, non possa più essere padre – se maschio – e madre – se femmina.
In questa nuova società sarebbe politicamente scorretto rivendicare di non essere they?
(1)
venerdì, 31 marzo 2023
In copertina: Foto di Marjon Besteman (gratuita da usare sotto la licenza Pixabay)