Dal golpe in Perù alla Palestina, passando per l’Iran
di Simona Maria Frigerio
Esistono intellettuali, come Noam Chomsky, che non si finisce mai di citare. Purtroppo sono sempre di meno mantre, sul palcoscenico geo-politico, le loro analisi sarebbero oggi più che mai utili a svelare i piani del neo-colonialismo ma, soprattutto, a leggere in trasparenza la realtà affogata dalla retorica dell’informazione mainstream.
Tre Paesi, tre storie, tre modi di trattare – da parte dell’Occidente – la morte di cittadini che protestano contro il potere costituito.
Mahsa Amini è morta – lo scorso settembre – dopo l’arresto a opera della polizia morale iraniana (che ci risulta essere stata recentemente sospesa). I nostri media hanno subito imputato la morte della ventiduenne a percosse, ma il medico legale (secondo l’Irna, l’agenzia di stampa iraniana) affermerebbe che la causa sia stata un “collasso multi-organo dovuto a ipossia cerebrale, o mancanza di ossigeno al cervello”, causato probabilmente da problemi cardiaci pregressi. Ovviamente alcuni colleghi hanno obiettato che il coroner – volente o nolente – abbia insabbiato un atto di violenza, ma se così fosse in Italia la situazione sarebbe diversa? Basti pensare alla morte di Pasolini o di Cucchi o, ancora, di Aldrovandi o Carlo Giuliani. Quante volte gli italiani non hanno avuto risposte definitive e, se le hanno avute, è stato solo grazie alla tenacia e alla perseveranza dei familiari delle vittime? Di certo Mahsa Amini è diventata un caso. Le femministe occidentali, portatrici dei valori dell’illuminismo, considerati fideisticamente universali, hanno sposato la causa del velo in Iran – senza nemmeno porsi il problema che ogni religione ha i suoi dogmi e noi dovremmo occuparci di quelli della Chiesa Cattolica in uno Stato ufficialmente laico. A nessuna è venuto in mente di chiedersi come mai in Afghanistan, dopo vent’anni di illuminismo inculcato a suon di razzi e bombe, le donne afghane (o almeno parte di esse) non siano scese in piazza contro i talebani. Nessun media occidentale ha ripreso le dichiarazioni del portavoce del Ministero degli esteri iraniano, Nasser Kanaani, quando ha accusato gli Stati Uniti: “Imporre sanzioni crudeli all’intero popolo iraniano, inclusi bambini, donne, ragazze e madri, è la miglior prova delle bugie statunitensi e dei loro gesti umanitari”. Aldilà di ciò che possa pensare io – donna giornalista occidentale atea – sul velo, resta da chiarire quanto le proteste in Iran siano spontanee e quanto rinfocolate da agenti stranieri. Il bilancio dei morti tra le forze dell’ordine pone dei seri dubbi sul fatto che le manifestazioni siano state pacifiche. Secondo BBC (che cita i dati della Human Rights Activists’ News Agency), il 13 dicembre il numero dei deceduti ammontava a 490. In tale numero erano ricompresi i manifestanti, 68 minori ma anche 62 membri delle forze dell’ordine.
L’11 dicembre è morta un’altra giovane, Jana Majdi Zakarneh, una ragazza di 16 anni che, mentre si trovava sul tetto di casa sua, a Jenin, è stata uccisa da un cecchino israeliano che le ha sparato alla testa. Un video, che è diventato virale, prova che, qualche giorno prima, il 2 dicembre, un altro palestinese, Ammar Mufleh, veniva ucciso a sangue freddo da un soldato israeliano, nella città di Huwara, mentre i suoi colleghi “impedivano ai residenti e alle ambulanze di soccorrerlo” – e a leggere il comunicato dell’Ambasciata palestinese in Italia, tornano alla mente le immagini di Collateral Murders che stanno costando la vita a Julian Assange. Ma il fatto più significativo è accaduto il 14 novembre, quando sempre un soldato israeliano ha ucciso un altro civile, ma questa volta israeliano, “credendo che fosse un palestinese” – della serie che la legge del contrappasso, a volte, funziona. Perché per Jana Majdi Zakarneh non ci siamo sentite di scendere in piazza a protestare, condannando lo Stato di Israele e il genocidio del popolo palestinese?
E infine guardiamo all’America Latina, dove Bolsonaro pare non voler lasciare il potere in maniera indolore e Cristina Kirchner, dopo essersi salvata da un attentato, è attaccata da quella magistratura che, nel subcontinente americano, pare manovrata da forze esterne o da oligarchie di destra interne agli stessi Paesi (basti pensare ai casi degli ex presidenti brasiliani Lula e Rousseff).
In questi giorni, nelle strade di Lima, si stanno rivedendo le medesime manifestazioni di piazza che accompagnarono il golpe in Bolivia. Ancora una volta, un Presidente regolarmente eletto è destituito e gli succede una vice-precidente, in questo caso Dina Boluarte che, prima è stata eletta nelle file del partito del Presidente, Perù Libre, e poi ne è stata espulsa dopo aver ammesso di “non aver mai condiviso l’ideologia socialista”. Sebbene Pedro Castillo abbia fatto una sfilza di errori politici – non si sa quanto indotti da inesperienza e quanto da incapacità a ricoprire il ruolo – il risultato è che ventidue persone (al 17 dicembre), civili – questa volta senza nome o volto per noi Occidentali – sono stati uccisi mentre manifestavano per il suo rilascio. Manifestavano perché, aldilà degli errori dell’ex maestro elementare e sindacalista, forse hanno compreso che, dietro all’impeachment di Castillo, vi è altro. Non sarà un caso che Fuerza Popular (il partito di destra della figlia del tristemente famoso Alberto Fujimori, condannato a 25 anni – poi saliti a 32 -di reclusione per gli omicidi compiuti dai paramilitari legati ai servizi segreti durante il suo Governo), sia già pronto a sostenere Boluarte non solamente per un breve periodo, in vista di nuove elezioni, ma fino alla fine naturale del mandato di Castillo. Non sarà un caso che gli Stati Uniti si siano affrettati a riconoscere la nuova Presidente. Castillo, destituito e incarcerato, era stato accusato anche lui di corruzione – in un Paese in cui è dal 1985 che nessun presidente eletto riesce ad arrivare a fine mandato in ‘tranquillità’. Mentre i nostri media puntano sull’autogolpe di Castillo (che aveva tentato di sciogliere il Parlamento e sarebbe stato fermato dai ‘garanti della democrazia’), però, Argentina, Bolivia, Colombia e Messico hanno definito Castillo “vittima di una persecuzione antidemocratica”, accusando indirettamente l’Organizzazione degli Stati americani (Osa), molto opportunamente nel Paese pochi giorni prima di quello che è, come minimo, un sovvertimento del voto degli elettori. L’Osa è considerata da molti Paesi Latinoamericani un esecutore della volontà di Washington e, visto il suo coinvolgimento nel golpe in Bolivia del 2019, bisognerebbe cominciare seriamente a riflettere su tali organizzazioni (come l’Osce che, in Donbass, avrebbe dovuto garantire gli Accordi di Minsk e poi scopriamo che l’Europa ha usato tali trattati per armare l’Ucraina – Merkel docet).
Il mondo è in ebollizione, speriamo che da qualche parte qualcuno spenga il fuoco.
venerdì, 23 dicembre 2022
In copertina: Foto di Yuri (gratuita da usare sotto la licenza Pixabay)