
La sentenza definitiva della Corte di Cassazione
di La Redazione di InTheNet
Il nostro Settimanale in quest’ultimo anno si è occupato più volte del caso della giovane Marta Garofalo Spagnolo che a soli trentun anni, il 3 novembre 2022, “esasperata da anni di internamento, non più tollerabile, compie un gesto dimostrativo di ribellione, a cui stavolta il suo cuore non regge, assumendo massicce dosi di psicofarmaci” (1).
Oltre al decesso di Garofalo Spagnolo, la storia che vi abbiamo raccontato riguardava Fabio Degli Angeli e Gabriella Cassano, che la Corte di Appello di Lecce aveva condannato (con altri due coimputati) per “sequestro di persona, abbandono di incapace, circonvenzione di incapace, sottrazione di incapace” ai danni di Marta, e contro la quale Degli Angeli e Cassano si sono sempre difesi cercando di spiegare alla Magistratura di aver tentato di aiutare la giovane “a vivere la vita che desiderava vivere, a sottrarsi dalla reclusione forzata, a liberarsi dalla morsa di un sistema” coercitivo che, sebbene finalizzato al recupero e alla cura di persone affette da disturbi psichiatrici o con disabilità psico-sociale, finisce per internare, non lasciando ai pazienti la possibilità di recuperare la propria autonomia né di esercitare la libertà di scelta. Questo perché, con un utilizzo forse improprio – e comunque eccessivamente estensivo – della Legge sull’Amministrazione di sostegno (del 9 gennaio 2004, N. 6), Marta (come tanti, troppi altri) per ben dieci anni ha subito ricoveri coatti in strutture dalle quali regolarmente fuggiva. Avere cercato di aiutarla – seguendo il proprio giudizio, la propria sensibilità e un senso di solidarietà umana – costerà caro a Degli Angeli e Cassano dato che, il 20 marzo 2025, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso degli stessi avverso la sentenza della Corte d’Appello – confermandone la condanna per i quattro reati imputati (di cui sopra) e aprendo loro le porte del carcere (2).
Purtroppo la disabilità psicosociale in questo mondo ormai stabilmente conformato al pensiero unico è inaccettabile. Essere diversi, o pensare diversamente, è vietato – sia che si tratti di idee politiche espresse su un social, sia che si tratti di vedere il mondo o fare scelte di vita al di fuori del sistema capitalistico. Se non sei utile alla macchina produttiva, sei automaticamente un rifiuto e, come tale, vai messo da parte: riciclato o distrutto. La Convenzione delle Nazioni Unite per i Diritti delle Persone con Disabilità può anche dichiarare: “nessuno può essere privato della libertà personale in ragione della propria condizione di disabilità”. L’Onu è solo un vecchio carrozzone che, prima o poi, imploderà sotto il peso della propria inettitudine – purtroppo, basta guardare cosa sta accadendo in Palestina per accorgersene (decine di migliaia di bambini trucidati e noi restiamo immobili di fronte al genocidio, auto-assolvendoci per l’Olocausto permettendo la seconda Nakba).
Non possiamo né vogliamo contestare la sentenza della Magistratura. Non è nostro compito e non conosciamo nemmeno le motivazioni della stessa. Ma chiediamo ai legislatori, e ancor prima agli psichiatri: se non siete riusciti con la coercizione, i ricoveri, gli psicofarmaci e (si spera) il supporto psicoterapeutico a curare Marta in dieci anni, potete almeno ammettere che qualcosa non ha funzionato? Forse la diagnosi o la cura era sbagliata? Forse definire le persone come ‘disabili sociali’ è diventato troppo facile? Forse non volersi adeguare o sentirsi persi è una condizione normale dell’essere umano, che va accettata e sulla quale ognuno può lavorare, ma nel momento che ne senta la necessità? Forse se una persona non ammette di avere un problema, cercare di risolverglielo (medicalmente) non ha senso?
Come scriveva Basaglia, “Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […]; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo e insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo” (3).
Non basta cambiare il nome a un’istituzione totale per risolvere il problema, ogni istituzione dove si eserciti un potere coercitivo finisce per diventare un manicomio.
(1)
(2)
(3) Franco Basaglia, da La distruzione dell’ospedale psichiatrico, 1964
venerdì, 11 aprile 2025
In copertina: Immagine generata con l’IA da Márta Valentínyi da Pixabay