
A chi giova l’implosione dell’Unione Europea?
di Simona Maria Frigerio
Mario Draghi al meeting di Rimini, nel 2020, dichiarò: «Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo».
Cosa significava allora ma, soprattutto, cosa significa oggi? Semplicemente che una ristretta élite facente parte della Commissione Europea – allora e oggi nelle mani di Ursula von der Leyen (e, quindi, della Germania e dei Paesi Nord Europei) – della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale (con corollario di WTO, G7 e Nato), in rappresentanza di una classe sociale determinata e minoritaria (di stampo finanziario, transnazionale, con centro apicale a Washington e sede decentrata a Bruxelles e a Londra), avrebbe agito senza più preoccuparsi del volere della maggioranza – fermo restando che, per giustificare la discrezionalità di non essere stati eletti democraticamente né di doversi più preoccupare del benessere di larghe fasce di popolazione (ben altro che i condizionatori!), dovesse essere almeno chiara sugli obiettivi.
Il regime change in Russia, due anni dopo, avrebbe potuto e dovuto essere dichiarato, quindi, platealmente, così come l’impasse nella quale era precipitato il capitalismo transnazionale all’alba della pandemia – servita, se non altro, a rallentare la progressiva mancanza di Paesi da depredare e altri da aprire alle nostre merci (ma non tecnologie avanzate, come affermato durante un G7 successivo).
E però dopo trent’anni di guerre pacifiche, armi intelligenti, e propaganda di valori quali democrazia, diritti umani e libertà di parola utilizzati per far accettare alle masse ottuse europee bombardamenti indiscriminati, sanzioni unilaterali illegittime, golpe mascherati da rivoluzioni colorate e vittime civili buttate nella fossa col titolo asettico di danni collaterali, occorreva un grande coraggio a una Merkel o a un Hollande per ammettere di aver preso in giro Putin sì da far implodere la Russia per accedere direttamente alle sue riserve energetiche, e sbaragliare definitivamente il competitor statunitense (che aveva contro un deficit galoppante e una bilancia commerciale zoppicante) con una spietata guerra commerciale – trainata da anni dai tedeschi. La Cina a quel tempo sembrava stare a guardare. Nessuno avrebbe pensato che uno Stato alleato (solo l’Ucraina?) avrebbe minato il Nord Stream 2, né che un ‘cavallo pazzo’ sarebbe riuscito a entrare alla Casa Bianca sbaragliando i giochi di potere. I Brics, alla plutocrazia europea, non erano pervenuti.
Ma Donald Trump ha vinto e ha l’imperdonabile merito di essere molto chiaro sugli obiettivi che si pone: the US come first. La guerra per procura contro la Russia è persa e i cocci sono di chi l’ha fomentata e sostenuta.
Ciò che sta accadendo, e ci picca, è essere rivelati al mondo da un magnate statunitense senza più infingimenti o il fumo negli occhi della propaganda di regime dei nostri mass media. E per la nostra élite questo significa ammettere di fronte agli elettori, di diritto ma non di fatto, ciò che siamo diventati come UE: una plutocrazia avida e arrogante senza alcuna legittimazione popolare e sociale. Solo per questo motivo siamo infuriati con Trump o ci sbracciamo (dopo oltre un anno di bombardamenti che hanno raso al suolo il 90% di Gaza) per la causa palestinese (sebbene per mesi siano state vietate, quasi ovunque in Europa, le manifestazioni critiche contro il Governo di Israele, bollate quali espressioni di antisemitismo).
Ma la UE è anche un coacervo di interessi contrastanti: la locomotiva tedesca senza il carburante russo è al palo, la Francia si regge su una desistenza che ha tradito il voto popolare, Starmer è andato al potere con promesse che sta smentendo più velocemente della neve nel Sahara (o in Rwanda…). E l’Italia, che avrebbe tutto l’interesse almeno a smarcarsi in Libia, avvicinandosi a Bengasi, che tentenna tra il bacino dell’ex inquilino della Casa Bianca e un plauso a von der Leyen (sebbene il/la Premier aveva spergiurato di non volerla più vedere a Bruxelles). Tutti insieme, poi, blaterano di continuare da soli la guerra o di essere, ossimoricamente, i garanti della pace (solo per dare tempo agli ucraini e ai nostri arsenali di riempirsi nuovamente per ricominciare con questa specie di ossessione, in stile guerra santa, contro la Russia).
Ma anche la nostra tecnologia europea, di cui andavamo tanto fieri e che avremmo dovuto proteggere dalla Cina, si è rivelata un bluff. La Repubblica Popolare Cinese ci surclassa ormai in ogni campo, dalla IA al 5G, dal solare al fotovoltaico fino alle auto elettriche e tutto ciò che resta alle nostre elite è promuovere dazi per fermare ciò che hanno propugnato per anni contro i no global: ossia uno stop della globalizzazione in quanto la nostra presunta leadership, che ci permetteva di derubare i libici o depredare il Sahel, sta venendo inesorabilmente meno (e sicuramente è ben lontana dal porci all’avanguardia in una guerra dove contino satelliti e droni).
Eppure quando le élite di Governo si burocratizzano oltre misura e larghe fasce di popolazione non si sentono più rappresentate (oltre che eccessivamente impoverite) si va verso l’implosione del sistema. Possono i burocrati di Bruxelles non capirlo? E possono non capire che la deriva della UE può portare i suoi Stati membri dal ruolo di centri di potere (sebbene marginali agli US) a semplici periferie? Eppure se con la Cina molti altri Stati, dal Sudafrica all’India, dal Vietnam all’Indonesia fino alla Nigeria possono aspirare ormai a ruoli centrali nella nuova scacchiera geo-strategica, ridisegnata soprattutto grazie ai Brics e a Vladimir Putin, perché la UE non potrebbe finire ai margini dell’emergente multipolarismo mondiale? Non ha risorse energetiche fossili; non ha fatto gli investimenti in ricerca e tecnologie all’avanguardia (come avrebbe potuto se non avesse puntato solo sul depauperamento della classe lavoratrice e gli sgravi fiscali alle rendite e alle imprese, alla privatizzazione delle aziende di Stato o al sovvenzionamento di oligopoli fallimentari); e mira a drenare ulteriori risorse ai servizi pubblici e beni comuni che, durante la pandemia, sono finite nelle tasche di Big Pharma e degli azionisti – grazie agli alti tassi di interesse bancari – e, ora, a parte le briciole, finiranno nelle mani dei grandi produttori di armi statunitensi (col 3% del PIL già in dote alla Nato).
Ma la perdita del restante welfare state, la ventilata scommessa sulle criptovalute (persino dopo il flop argentino), un confronto diretto con la Russia senza nemmeno l’appoggio degli States e col rischio di implosione, a chi gioverebbe?
Sicuramente agli Stati Uniti, che finalmente raddrizzerebbero la bilancia commerciale con alcuni Paesi europei verso i quali erano in passivo; ma anche alla Cina che, in fondo, potrebbe domani delocalizzare le sue fabbriche a bassa tecnologia sul nostro continente per vendere il Made in China, prodotto nei sottoscala di Scampia, a Bangkok!
venerdì, 7 marzo 2025
In copertina: Immagine di Mediamodifier da Pixabay