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Dagli States all’Europa: siamo ancora in alto mare
di Luciano Uggè (critica cinematografica di Simona M. Frigerio)
Nel 2019 usciva un film, recentemente riproposto sui canali televisivi, per la regia di Todd Haynes, intitolato Cattive acque (Dark Waters). La pellicola tratta – sotto forma di legal drama – dell’inquinamento idrico della cittadina di Parkersburg, in West Virginia, provocato dallo stabilimento della DuPont presente in zona.
La causa decennale, al centro di questo – diciamocelo – ‘polpettone’, inizia nel 1998, quando un allevatore di bovini, Wilbur Tennant, racconta al giovane avvocato Robert Bilott – che sta facendo carriera difendendo, a Cincinnati, proprio le aziende chimiche – che gli sono morti oltre 153 capi di bestiame nel corso degli ultimi anni. Il film, in sé, non brilla: gloomy (come altri di denuncia, da Promised Land a The Rainmaker), lento, con le usuali dinamiche familiari – ossia la moglie dell’avvocato che non comprende perché il marito metta in ‘pericolo’ il loro benessere, ovviamente inteso come economico, per ‘inseguire i mulini a vento’, ma poi si ‘ravvede’. Eppure proprio l’American Way of Life avrebbe potuto essere il vero grimaldello per un Haynes all’altezza di Safe, scardinando il concetto di sicurezza familiare statunitense di matrice consumistica, partendo proprio dalla mancanza di sicurezza del suo simbolo per antonomasia: la mitica padella antiaderente.
Dalla fiction (che, in ogni caso, si basa su fatti realmente accaduti), passiamo alla realtà per comprendere se, dopo un quarto di secolo, sia cambiato davvero qualcosa, negli States ma anche in Europa.
L’acido perfluoroottanoico (PFOA) e l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS) fanno parte della famiglia delle sostanze chimiche, prodotte in laboratorio, denominate perfluoroalchiliche (i cosiddetti PFAS). Commercializzati fin dagli anni 40 del Novecento, alcuni PFAS sono stati utilizzati nell’industria alimentare (per fissare il rivestimento delle pentole antiaderenti), nel settore dell’abbigliamento (pensiamo al goretex), nei tessuti per la casa, ma anche nella lavorazione di materie plastiche e in prodotti disparati come le schiume antincendio, il filo interdentale, il nastro adesivo e perfino in alcuni cosmetici. I PFAS sono poco biodegradabili e, al contrario, sono resistenti alla foto-ossidazione, alla fotolisi diretta e all’idrolisi. Se rilasciati nell’ambiente si possono considerare virtualmente eterni e possono essere potenzialmente nocivi sia per gli animali sia per gli esseri umani (sebbene le prove al riguardo siano ancora limitate secondo le agenzie internazionali).
A proposito, l’ATSDR, Agency for Toxic Sebstances and Disease Registry – agenzia governativa statunitense con sede ad Atlanta, in Georgia (1) – afferma che le “persone sono esposte al PFOA principalmente bevendo da sorgenti d’acqua contaminata, ed eventualmente usando prodotti che lo contengono”. Soprattutto coloro che lavorano nell’industria dei perfluorochimici sono a rischio di venire a contatto con maggiori quantitativi di PFOA. Tale sostanza “può rimanere nel corpo per lunghi periodi. Negli animali da laboratorio a cui sono stati somministrati i PFOA in grandi quantitativi” si sono osservati effetti negativi “sulla crescita e lo sviluppo, la riproduzione e danni al fegato”. Sempre secondo l’Agenzia statunitense, dagli studi statistici effettuati da scienziati del CDC (Center for Disease Control and Prevention) – partendo da un campione di 2094 persone (dai 12 anni in su), in cui è stata rilevata la presenza di PFOA nell’organismo di quasi tutti i partecipanti – l’esposizione alla sostanza dovrebbe essere molto diffusa in tutti gli Stati Uniti. Ovviamente questo non implica che la salute di tutti i cittadini statunitensi sia a rischio in quanto molto dipende dai livelli di PFOA presenti negli individui.
In un altro documento sempre dell’ATSDR (2) si fa presente che il PFOA è stato rilevato: “Nell’aria, nell’acqua, nel suolo in e intorno ad aziende fluorochimiche”, sebbene tale livello di inquinamento abbia preso a diminuire da quando, nei primi anni 2000, “otto aziende hanno iniziato volontariamente a eliminare in maniera graduale la produzione e l’uso di molti perfluoroalchilici”.
L’American Cancer Society (3) puntualizza che esistono molti PFAS (vedremo più avanti quanti), ma “quelli maggiormente utilizzati negli Stati Uniti sono PFOA e PFOS. Anche se queste due sostanze chimiche non sono più prodotte negli Us, le persone possono tuttora esservi esposte”. Nel contempo, alcuni studi sugli animali da laboratorio (che non sempre ma di solito darebbero risultati attendibili sugli effetti della medesima sostanza in caso di esposizione umana) avrebbero evidenziato che il “PFOA aumenterebbe il rischio di alcuni tumori al fegato, ai testicoli, alle ghiandole mammarie (al seno) e al pancreas”. Per quanto riguarda gli esseri umani nel loro habitat, sono stati fatti studi su persone che vivono vicino o lavorano in impianti chimici che producono PFOA. Alcuni studi hanno suggerito un “aumento del rischio di cancro ai testicoli e ai reni con l’incremento dell’esposizione al PFOA”. Dai medesimi documenti si evince che l’IARC (l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), che fa parte dell’OMS, “ha classificato il PFOA come ‘possibilmente cancerogeno per gli esseri umani’ (Gruppo 2B), basandosi sulle prove limitate negli umani che possa causare il cancro ai testicoli e al fegato, e sulle prove limitate che possa causare il cancro negli animali da laboratorio”.
Torniamo al film per spiegare cosa accade negli States
Il film – ribadiamo, basato su fatti realmente accaduti – finisce con l’avvocato Robert Bilott che strappa tre accordi multimilionari contro la DuPont, a cui fa seguito la decisione della multinazionale di risolvere la class action versando ben 670,7 milioni di dollari quale risarcimento danni.
Dato che immaginiamo che un colosso come DuPont non accetti tanto facilmente un’ammissione di colpevolezza, immaginiamo altrettanto facilmente che sia stato provato che vi era un collegamento tra la morte del bestiame, i casi di cancro tra gli abitanti – alcuni dei quali lavoratori della DuPont, la produzione di PFOA in un impianto della medesima società e lo sversamento di rifiuti tossici in prossimità della sorgente del fiume che scorre in zona.
E però, gli statunitensi possono tuttora essere esposti a tale sostanza dato che falde acquifere e terreni possono esserne tuttora contaminati. Inoltre, fattore ancora più allarmante, i PFAS nel loro complesso aumentano costantemente e, al momento, se ne valutano ben 5.000 con struttura e proprietà simili: anche se alcuni possono essere stati proibiti, altri trovano la strada del mercato (come accade con le sostanze dopanti nello sport).
Europa e Italia: parole, parole, parole?
Dal 1° gennaio 2023 dovrebbero essere entrate in vigore nuove norme, le quali “per proteggere i cittadini da sostanze chimiche potenzialmente dannose per il sistema immunitario, lo sviluppo del feto e dei bambini e il colesterolo” (e, quindi, non in quanto cancerogene, sembrerebbe) “limitano i livelli di quattro sostanze chimiche ambientali negli alimenti”. Ovvero non ne proibiscono la produzione, ma pongono teoricamente dei limiti ai quantitativi che possono essere contenuti nel cibo che ingeriamo. Le sostanze sono “l’acido perfluorottano sulfonato (PFOS), l’acido perfluoroottanoico (PFOA), l’acido perfluorononanoico (PFNA) e l’acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS)” e dovrebbero essere vietate (tout court immaginiamo) “in tutta l’Unione Europea a partire dal 2026” (4). Questo almeno prevederebbe una proposta presentata da Danimarca, Germania, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia all’Agenzia Ue per le sostanze chimiche. L’Italia, come sempre, latita.
Eppure in questi anni si è riscontrato un grave inquinamento da PFAS in diverse zone del nostro Paese. In Veneto, ad esempio, Legambiente Veneto (5) denunciava, ormai dieci anni fa, “la contaminazione delle acque superficiali, delle acque di falda e degli acquedotti pubblici da sostanze perfluoroalchiliche, indicate comunemente come PFAS”, a causa dello scarico industriale della Miteni SpA (6). L’area interessata dall’inquinamento si estendeva su circa 180 chilometri quadrati “tra le province di Vicenza, Verona e Padova, per una popolazione stimata di 300 mila abitanti”. Nel 2021, quasi dieci anni dopo era ancora l’ARPAT che, affermava come in Toscana: “Il 37% delle stazioni delle acque superficiali evidenzia […] superamenti degli standard” (7).
La questione irrisolta dei limiti
Uno dei grossi problemi è, però, definire i limiti di ‘tollerabilità’ di una sostanza. Siamo ormai abituati a superamenti che poi scompaiono dal tavolo della discussione in quanto, nel frattempo, il ‘gioco delle tre carte’ ha permesso che i limiti di legge fossero innalzati (spesso per volontà politica e non medico-scientifica). Ne è una dimostrazione la lettera del 10 novembre 2022, indirizzata all’Organizzazione Mondiale della Sanità (8), da 116 scienziati “esperti di PFAS e PFOA”, che “chiedono di rivedere le nuove linee guida sui limiti di sicurezza per la salute umana nell’acqua potabile” [come pubblica rinnovabili.it (9)].
Nella lettera si legge: “La valutazione dell’OMS ignora le prove consistenti di danno alla saluta degli esseri umani in caso di livelli di esposizione rilevante nell’ambiente, che è altresì supportata dalla ricerca sperimentale. Inoltre, le linee-guida proposte forniscono una minor protezione di quella che si può ottenere con le tecnologie comunemente utilizzate per il trattamento delle acque identificate nel report dell’OMS (p. 75) e in altri”. Nella stessa lettera si puntualizzano i rischi per la salute, in caso di esposizione, a livello di cancerogenicità, danni al fegato, aumento del colesterolo, effetti sul sistema immunitario. “Come ricapitolato più sopra, la scienza attuale così come le più recenti avvertenze sanitarie proposte dall’EPA statunitense (11) e l’opinione del Comitato Scientifico per la Salute, l’Ambiente e i Rischi Emergenti della Commissione Europea, offrono prove convincenti che l’esposizione a PFOS, PFOA e altri PFAS ha un impatto avverso sulla salute degli esseri umani e degli animali, persino a livelli molto bassi”.
Molto bassi… molto alti. Forse, magari, si ipotizza… Non vi sono abbastanza studi, non si è fatta abbastanza ricerca sul campo… E però qualcuno vince una class action multimilionaria. E nel frattempo, sempre nuovi PFAS sono sviluppati, prodotti e utilizzati.
(1) Il documento integrale in inglese: https://www.cdc.gov/biomonitoring/PFOA_FactSheet.html
(2) Il documento integrale in inglese: https://www.atsdr.cdc.gov/ToxProfiles/tp200-c1.pdf
(3) Il documento integrale in inglese: https://www.cancer.org/healthy/cancer-causes/chemicals/teflon-and-perfluorooctanoic-acid-pfoa.html
(4) Fonte Commissione Europea: https://italy.representation.ec.europa.eu/notizie-ed-eventi/notizie/sicurezza-alimentare-la-commissione-adotta-nuove-norme-proteggere-i-cittadini-da-contaminanti-2022-12-07_it
(5) La denuncia di Legambiente Veneto: http://www.legambienteveneto.it/inquinamento-da-pfas-il-territorio-interessato/
(6) Fonte ARPAT Veneto-Vicenza: prot. 0075059/00.00 dell’11/07/2013
(7) I rilevamenti ufficiali di ARPAT Toscana: https://www.arpat.toscana.it/datiemappe/dati/percentuale-stazioni-monitoraggio-acque-con-residui-di-pfas/?searchterm=None
(8) La lettera nell’originale in inglese:
(9) L’articolo di Rinnovabili.it: https://www.rinnovabili.it/ambiente/inquinamento/pfas-e-pfoa-oms/
(10) Traduzione di Simona M. Frigerio
(11) L’EPA è l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense
venerdì, 28 febbraio 2025
In copertina: Foto di Amy da Pixabay (Gratis da usare sotto la Licenza per i contenuti)