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Se non ha ricadute sociali, l’arte non ha diritto di esistere?
di Simona Maria Frigerio
Qualcuno ha mai chiesto a Picasso perché, a parte Guernica, abbia dipinto e scolpito principalmente tori e volti di amanti? O a Visconti perché abbia utilizzato la scabrosa messinscena dell’incesto per mostrare l’oscenità reale del regime nazista? O perché, aldilà della retorica Neorealista (che, comunque, ha prodotto capolavori cinematografici assoluti), Pasolini abbia affidato il personaggio di Mamma Roma ad Anna Magnani e non a un’attrice non professionista? O perché Robert Bresson abbia eletto a protagonista del suo capolavoro, Au hasard Balthazar, un asino? O come mai Rodion Romanovič Raskol’nikov, Thérèse Raquin, Patrick Bateman o Jacques Lantier siano gli eroi di altrettanti capolavori della letteratura pur impersonando assassini?
Perché capita di trascorrere una piacevole serata alla Tenuta dello Scompiglio – dove è facile incontrare artisti internazionali in un’atmosfera rilassata in cui dialogare – e scoprire che a Berlino un coreografo, se vuole essere finanziato dallo Stato, deve eleggere a oggetto della sua ricerca il gender fluid? E se un intellettuale deve prendere posizione, l’unica battaglia è quella per la decolonizzazione museale? Al che, ne consegue, che la politica culturale, anche in Germania, è dettata e indirizzata dall’alto.
Venendo all’Italia, quanti Festival e Stagioni teatrali si stanno riempiendo di saggi scolastici? I laboratori, i workshop (non abbiamo ancora capito la differenza), prima erano un mezzo perché attori e registi italiani (ma anche coreografi e danzatori) ‘campassero’. E così leggevi questi curricula di professionisti ultraquarantenni che, dopo il diploma alla Silvio d’Amico o alla Paolo Grassi, avevano collezionato la frequenza ad almeno una decina (o anche una ventina) di laboratori e avevano – a quarant’anni suonati – l’esperienza lavorativa di un neo-diplomato. Col tempo, però, la situazione è anche peggiorata perché i laboratori per ‘tirare a campare’ hanno dovuto essere rivolti al sociale: disabili psichici o fisici, studenti più o meno svogliati, anziani in crisi, reclusi, casalinghe frustrate, ex tossicodipendenti, alcolisti anonimi, onanisti compulsivi (sic!). Ovviamente la sequela era una reductio ad absurdum.
Non si vuole sostenere che il teatro non possa e debba (se nella necessità degli artisti e autori) confrontarsi con la realtà e con la società. Guernica resta il capolavoro indiscusso di Pablo Picasso. E non si vuole sostenere che il teatro non possa essere fruito attraverso laboratori ad hoc da varie fasce di persone – con o senza problematiche da risolvere – le quali, attraverso la pratica della scena, possono prendere confidenza con se stesse, migliorare i rapporti con l’altro da sé, rimettere in discussione le proprie posizioni, assumersi responsabilità, esorcizzare paure e fobie e così via. Ciò che non convince è che il risultato di tali laboratori possa essere ‘spacciato’ per spettacolo. I Festival si riempiono vieppiù di ‘spazzatura amatoriale’, la professionalità del teatro è degradata alla recita scolastica e i teatri diventano auditorium scolastici per ospitare o, addirittura, far pagare un biglietto ad amici e parenti.
Oggi i direttori artistici sembra facciano a gara non a proporre la migliore qualità, l’ultima produzione internazionale, la ricerca più raffinata, la trasposizione più urticante, il testo poeticamente più pindarico o la rilettura più pregnante perché la società, andando a teatro, vi si rifletta e ne esca scorticata e/o riconciliata grazie all’effetto catartico. Bensì pare che quegli stessi direttori sentano di doversi legittimare di fronte ad amministratori pubblici – che poco capiscono di teatro e meno apprezzano la critica e la capacità di sollevare dubbi e pensieri controcorrente – offrendo un teatro che coinvolge il pubblico (ossia, fa numero) in quanto mette sul palco il limite e non il suo superamento.
Un disabile che sale sul palco per uno spettacolo dovrebbe essere un professionista, com’era, in REDO, il danzatore Redouan Ait Chitt, ospite a Kilowatt Festival nel 2019 (1). Nessuno di noi è uguale all’altro o perfetto. La questione non è mettere in scena le proprie mancanze bensì dimostrare le proprie capacità. E farlo in maniera professionale.
Ma oggi fare teatro sembra non poter più essere una professione. E non è solo una questione di danzatori improvvisati o laureati in filosofia che fanno i coreografi o dottori in lettere che pensano di saper recitare – quando non sanno nemmeno usare la respirazione diaframmatica. Si tratta di chi sta dietro le quinte, che non sa o non riesce più a rivendicare il ruolo teatrale del teatro. Bisogna aggregare, essere socialmente utili, accendere i riflettori su bambini egocentrici e adulti alla ricerca dei loro 15 minuti di celebrità.
E così Festival e teatri offrono prodotti (perché tali sono: non certamente l’espressione di un’esigenza creativa, bensì di un calcolo economico o per un ritorno politico) che ‘abbassano’, invece di ‘alzare’ il livello della ricerca, della qualità e della proposta. Mentre il pubblico, di fronte a una tale offerta pensa: “Ma se lo fai lui/lei, posso farlo anch’io” e, inesorabilmente, il teatro si trasforma da ‘attività non essenziale’ (Governo Conte docet) ad attività ricreativa che chiunque può intraprendere, alla stregua di un dozzinale reality show.
Mentre i politici, invece di investire in servizi pubblici, scolastici e ricreativi di qualità – da una parte – e in attività professionali qualificanti e arte – dall’altra – mischiano tutto in un calderone al ribasso dove, a perderci, è sia il teatro sia chi il teatro ancora lo ama, o lo ha eletto a mestiere.
(1) https://teatro.persinsala.it/kilowatt-festival-9-lune-heritageredo-angst-il-dramma-perfetto/55562
venerdì, 21 febbraio 2025
In copertina: Foto di Mauricio Keller Keller da Pixabay