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Trump e il rimpatrio forzoso dei migranti
di (e traduzione di) Simona Maria Frigerio
Pochi giorni fa il Presidente colombiano ha tenuto un interessante discorso (di cui riporteremo i passi salienti). Nonostante il confronto impari con Trump e, di fatto, di fronte alla minaccia di dazi al 25%, il Paese latinoamericano abbia dovuto capitolare e accettare i rimpatri forzosi dei suoi migranti, la questione che pone il Presidente statunitense sarebbe da affrontare sotto molti punti di vista.
In primis, il diritto. Finché le Nazioni Unite non riconosceranno ai popoli il diritto di migrazione anche per fini economici, ci ritroveremo continuamente in simili pastoie – ossia clandestinità, sfruttamento e la continua minaccia di un foglio di via o di un rimpatrio. Se poi non ci domandiamo come mai popoli che vivono in Paesi ricchi di materie prime siano in povertà estrema, non andremo lontani nelle nostre analisi. È indubbio che l’Europa finora ha vissuto al di sopra delle sue possibilità grazie allo sfruttamento di risorse energetiche e minerarie che non le appartengono. È fin troppo palese come si stia sgretolando il comparto industriale tedesco non più supportato dall’energia (gas ma anche petrolio) a basso costo e di buona qualità russa. La nostra presunta superiorità tecnologica che avrebbe dovuto rendere le nostre merci, anche in caso di aumento dei costi (e, quindi, dei prezzi), competitive – in quanto qualitativamente migliore – è una chimera (lo dimostra la concorrenza cinese anche solo in fatto di pannelli solari e vetture elettriche). Capire anche a chi vanno gli introiti delle concessioni minerarie e come siano redistribite le ricchezze dell’America Latina (e quanto incidano gli interessi da ripagare al Fondo Monetario Internazionale) su politiche di sviluppo, educazione e welfare, sarebbe d’obbligo.
In secondo luogo, la scelta di Trump del rimpatrio forzato dei migranti senza permesso di soggiorno è più accettabile delle scelte dei Governi conservatori britannici o della Meloni di aprire centri di detenzione in Stati esteri. Che fosse il Rwanda (1) o sia l’Albania, si tratta di esiliare in territori estranei di Paesi sovrani, che nulla hanno a che fare coi migranti, migliaia di persone. Se il nuovo Premier britannico ha cambiato idea (unico punto in politica estera che lo allontana dai Tories) è stato solo per i costi di una simile scelta: trasportare e poi mantenere in una specie di nuova Gaza, ossia un lager a cielo aperto, decine di migliaia di persone a spese dei contribuenti britannici sarebbe stato un boomerang. Ma si sa che, di questi tempi, governa più la retorica che non la politica.
In terzo luogo, vi è il discorso della fattibilità pratica. A questo punto sarà sufficiente che i migranti lascino a persone amiche, nascondano o distruggano i documenti per rendere la vita difficile all’amministrazione Trump. E non sarà nemmeno facile riempire aerei (privati o militari?) con i cittadini del medesimo Stato, né trovare spazi dove ospitarli in attesa del rimpatrio. O, forse, pensano a Washington di far volare aerei con qualche decina di passeggeri o, ancora, di organizzare tour del Sudamerica? Il tutto ha l’odore stantio della propaganda.
Infine vi è il problema dello sfruttamento economico. Quanti latinoamericani, proprio perché immigrati illegalmente negli States, lavorano nelle case, nei campi, nel retro di hotel e ristoranti, in sottoscala ammuffiti a costi irrisori proprio perché ricattabili? Sono gli stessi elettori di Trump che, se da una parte vedono il migrante come fonte di delinquenza (ma il narcotraffico verrebbe meno se non ci fossero i consumatori e i cartelli fallirebbero se non potessero riciclare i loro guadagni nelle banche e nelle finanziarie del Nord del mondo); dall’altro, spesso lo sfruttano in lavori che uno statunitense non farebbe o, se accettasse di farlo, vorrebbe essere retribuito almeno al minimo sindacale (che, ricordiamolo, negli Us è davvero irrisorio: 7,25 dollari all’ora).
Il discorso di Petro diretto a Trump, riportato da Sputnik
E veniamo alla risposta data dal Presidente colombiano alle minacce statunitensi. Petro esordisce ricordando di aver visto a Washington un confronto violento tra afroamericani e latini e di essersi domandato il perché di tale animosità quando le due minoranze avrebbero fatto meglio a unirsi contro il nemico comune (questione che si è posto anche Öcalan quando proponeva al PKK di unire le forze dei curdi turchi con quelle della sinistra del Paese).
Petro ha poi voluto sottolineare il suo apprezzamento per Walt Withman, Paul Simon, Noam Chomsky e Miller (dimostrando una conoscenza della cultura e del pensiero statunitensi che non credo possa applicarsi all’inverso).
E, quindi, è entrato nel merito: “Confesso che Sacco e Vanzetti, che hanno il mio stesso sangue, nella storia degli Stati Uniti sono figure memorabili. Li hanno assassinati in quanto leader operai condannandoli alla sedia elettrica: i fascisti che vivono negli States come nel mio Paese. Non mi piace il petroliere, Trump, che distruggerà la specie umana per avidità. Chissà che un giorno, insieme a uno shot di whisky, che accetterei, nonostante la gastrite, potremo parlare francamente di tutto ciò, però penso sia difficile perché mi considera di una razza inferiore e non lo sono, come nessun colombiano. In questo si riconosce una persona testarda, e io lo sono, punto. Lui può, con la propria forza economica e superbia, tentare un golpe come fecero con Allende. Però io muoio secondo le mie leggi, ho resistito alla tortura e resisto a lui. Non voglio schavisti a fianco della Colombia, ne abbiamo già avuti molti e ce ne siamo liberati. Coloro che voglio a fianco della Colombia, sono coloro che amano la libertà. Se non potete starmi accanto, andrò altrove. La Colombia è il cuore del mondo e lei [intendendo Trump, n.d.g.] non lo ha capito: è la terra delle farfalle gialle, di Remedios la bella, però anche dei colonnelli come Aureliano Buendía, dei quali sono forse l’ultimo rappresentante [personaggi immaginari di Gabo, n.d.g.]. Se mi uccideranno, sopravviverò nel mio popolo che arrivò nelle Americhe prima del suo. Siamo popoli del vento, dei monti, del Mar Caraibico e della libertà. A lei non piace la nostra libertà, o.k.. Io non stringo la mano a schiavisti bianchi. Stringo la mano dei bianchi liberatori eredi di Lincoln e dei giovani contadini neri e bianchi degli Stati Uniti, sulle cui tombe ho pianto e pregato in un campo di battaglia, dove arrivai, dopo aver percorso le montagne della Toscana italiana ed essermi salvato dalla Covid. Loro sono gli Stati Uniti e di fronte a loro mi inginocchio, di fronte a nessun altro. Mi colpisca presidente, e le rosponderanno le Americhe e l’umanità. La Colombia ha smesso di guardare al Nord, per guardare al mondo. Il nostro sangue proviene dal Califfato di Córdoba, così come la civilizzazione, degli antichi romani del Mediterraneo, la civilizzazione di coloro che inventarono la democrazia, ad Atene; il nostro sangue ha gli anticorpi dei negri convertiti da voi in schiavi. In Colombia si trova il primo territorio libero dell’America, prima di Washington, di tutta l’America, dove trovano asilo i suoi canti africani. La mia terra era un’oreficeria già all’epoca dei faraoni egizi, con i primi artisti al mondo a Chiribiquete [la Sierra di Chiribiquete è il più grande parco naturale colombiano ed è il parco nazionale di foresta pluviale più grande al mondo, n.d.g.]. Non ci dominerà mai. Si oppone il guerriero che cavalca le nostre terre, che grida libertà e si chiama Bolívar. I nostri popoli non si spaventano, sono timidi, ingenui e amabili, amano, ma sapranno conquistare il canale di Panamá, che ci avete sottratto con la violenza. Duecento eroi da tutto il Latinoamerica giacciono a Bocas del Toro – l’attuale Panamá, prima colombiana – che voi avete assassinato. Io alzo una bandiera e, come diceva Gaitán [ex leader colombiano, n.d.g.], se rimango solo, sarà issata con la dignità latinoamericana, che è la dignità americana, che il suo bisnonno non conobbe, e il mio sì, signor presidente immigrato negli Stati Uniti; il suo bloqueo non mi spaventa; perché la Colombia oltre a essere il Paese della bellezza, è il cuore del mondo. Chi ama la bellezza, come me, non le manca di rispetto e le regalerà la sua dolcezza. La Colombia da oggi si apre al mondo, spalancando le braccia: siamo costruttori di libertà, vita e umanità. Mi informano che vuole imporre al frutto del nostro lavoro dazi del 50% per essere commerciati negli Stati Uniti [in realtà, Trump sembra parlasse di 25%, n.d.g.], io farò altrettanto. Che la nostra gente semini il mais, che si scoprì in Colombia, e nutra il mondo”.
Al di là del discorso del Presidente Petro, e della sua grande dignità, tutte le questioni circa le migrazioni restano sul tavolo ed è ora che le Nazioni Unite se ne facciano carico.
(1)
venerdì, 7 febbraio 2025
Nella foto: Ritratto ufficiale del Presidente Gustavo Petro, CC BY 2.0 (particolare per ragioni di layout)