Omosessualità, cosa è cambiato
di (e traduzione in castigliano, a fondo pagina, di) Noemi Neri
Questa storia inizia nel 1952, quando l’American Psychiatric Association (APA) redige il primo DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)ovvero il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – che classifica le malattie mentali e che è utilizzato dai professionisti del settore in tutto il mondo.
Nella sua prima versione, sotto la voce omosessualità si legge: “disturbo sociopatico della personalità”. Questo documento, frutto di un’epoca intrisa di pregiudizi, contribuì a radicare l’idea dell’omosessualità come una patologia, condizionando la percezione sociale per decenni. Un documento che, insieme agli psichiatri, contribuì a divulgare che tale orientamento sessuale fosse una malattia; infatti, lo psicanalista Charles Socarides, noto come fautore della terapia di conversione, tentava di ʻcurare’ gli omosessuali attraverso l’analisi. Robert Galbraith Heat era conosciuto per i suoi esperimenti inerenti all’elettrostimolazione cerebrale, attraverso i quali cercava di trasformare i pazienti in eterosessuali. Anche il futuro presidente Ronald Reagan si espresse a sfavore dell’omosessualità definendola “una tragica malattia, una nevrosi come ogni altra”.
Alle soglie degli anni 70, l’omosessualità negli Stati Uniti era ancora un reato in 49 Stati: si poteva finire in galera, perdere il posto di lavoro o essere ricoverati in un ospedale psichiatrico. Nel 1971, a Washington, si tenne una conferenza dell’APA durante la quale il dottore e attivista gay Frank Kameny denunciò coraggiosamente: “La psichiatria è il nostro nemico giurato. Ha condotto una spietata guerra di sterminio contro di noi. Ma sappiate che questa è una dichiarazione di guerra contro di voi”.
Thank you, Dr. Robinson. I am a homosexual. I am a psychiatrist
L’anno seguente, la conferenza dell’APA si svolse a Dallas. Si tenne una tavola rotonda dal titolo dozzinale Psychiatry: Friend or Foe to Homosexuals? (Psichiatria: amica o nemica degli omosessuali?). Tra i relatori c’era un giovane psichiatra in incognito, indossava uno smoking, una maschera in lattice e una parrucca di ricci neri. Accettò di partecipare solo a condizione di poter mantenere l’anonimato, poiché la discriminazione sistemica l’aveva già costretto a perdere il lavoro più volte. Si trattava di John Fryer e con le parole “Thank you, Dr. Robinson. I am a homosexual. I am a psychiatrist”, affrontò apertamente il tema dell’omosessualità tra gli psichiatri. La domanda che si insinuava tra i presenti era: Come poteva uno psichiatra essere tale con una ʻdisfunzione’ così debilitante?
Nel 1973, l’APA decide di rivedere la seconda versione del DSM mettendone in discussione il contenuto. La psichiatria viene attaccata su più fronti. Tra le pubblicazioni di maggiore impatto vi fu lo studio di David Rosenhan, Being Sane in Insane Places, pubblicato su Science. Questo esperimento dimostrava come otto pseudopazienti sani fossero stati ricoverati in istituti psichiatrici sulla base di diagnosi errate. Lo studio di Rosenhan rivelò le fragilità del sistema diagnostico e sollevò interrogativi sul valore scientifico della psichiatria, spingendo l’intera comunità medica a riformulare i suoi criteri. Occorreva prendere delle decisioni, riformare l’ambito della malattia mentale. Dunque, che fare?
Metti una crocetta
L’APA inviò agli psichiatri un questionario per chiedere se l’omosessualità dovesse restare o meno nell’elenco dei disturbi patologici del DSM. Una malattia poteva smettere di essere considerata tale attraverso un sondaggio? Mentre lo psichiatra Robert Spitzer stava lavorando al DSM, il gruppo segreto Gay Psychiatric Association lo invitò a un loro incontro, evento che in qualche modo segnò una svolta: se persone di successo, senza evidenti segni di disagio, potevano essere omosessuali, come si poteva continuare a definirla una patologia? L’Omosessualità fu quindi eliminata dal DSM, restandovi solo l’ʻomosessualità egodistonica’, ovvero la condizione in cui una persona non vive con serenità il proprio orientamento sessuale. Tuttavia, dovremo aspettare gli anni 90 perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità tolga ufficialmente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.
Possiamo definirlo progresso? Le nuove regole di Meta
Giungiamo al 2024, anno segnato dalla rielezione di Donald Trump, che porta con sé un’ondata di politiche discriminatorie. Uno dei primi effetti collaterali si manifesta attraverso i cambiamenti introdotti da Mark Zuckerberg alle norme di moderazione di Meta. Secondo le nuove regole, affermazioni che definiscono le persone omosessuali o transessuali come ʻmalate mentali’, ʻimmorali’ o ʻanormali’ non saranno più considerate un contenuto da moderare. Si permette persino di negare la loro esistenza, legittimando trattamenti di conversione e alimentando un clima di regressione sui diritti civili.
“Quello che è iniziato come un movimento per essere più inclusivi è stato sempre usato perlopiù per bloccare opinioni e isolare persone con idee diverse, e si è andati troppo oltre. Voglio assicurarmi che le persone possano condividere le loro opinioni e le loro esperienze sulla nostra piattaforma”, ha affermato Zuckerberg.
Dunque, dovremmo accettare l’omofobia sotto la maschera della libertà di espressione? Sicuramente stiamo andando oltre nel trovarci, dopo quarant’anni, a parlare di nuovo dell’omosessualità come malattia mentale. Questa involuzione non è solo un problema di regolamenti aziendali, ma un riflesso di un contesto sociale che rischia di legittimare atteggiamenti discriminatori. I cambiamenti di Meta, comunicati anche in maniera ipocrita, sono indubbiamente un grande passo indietro in materia di diritti civili, ma al di là di cosa consente o non consente la piattaforma, forse abbiamo ancora una speranza: chiederci sulla base di quali valori vogliamo fondare la società che abitiamo.
Libertà di espressione
Tra le modifiche di Meta c’è anche l’eliminazione del fact-checking, ovvero la verifica delle informazioni pubblicate sui relativi canali social: «Sulle piattaforme in cui miliardi di persone possono avere voce: tutto il buono, il cattivo e il brutto sono in mostra. Ma questa è libera espressione», dichiara Zuckerberg.
La libertà di espressione non dovrebbe mai essere un pretesto per permettere discorsi d’odio, omofobia o qualsiasi forma di discriminazione. È una questione complessa che richiede un equilibrio delicato: da un lato, la protezione del diritto di esprimersi liberamente, e dall’altro, la responsabilità di garantire che le piattaforme non diventino terreno fertile per l’incitamento all’odio o la disinformazione.
Le decisioni di Meta, come la rimozione del fact-checking o l’allentamento delle restrizioni su contenuti controversi, rischiano di avere un impatto concreto su gruppi già vulnerabili, come la comunità LGTBI, e di legittimare comportamenti offensivi dietro il baluardo della ʻlibertà di parola’.
Le piattaforme social, essendo spazi pubblici digitali, hanno una responsabilità morale e sociale. Permettere discorsi discriminatori con il pretesto della libertà d’espressione non tutela una società equa, ma contribuisce a normalizzare atteggiamenti tossici.
Quali sono, dunque, i limiti etici della libertà di espressione? Forse è il momento di ridefinire cosa significhi libertà di espressione in un mondo digitale.
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De los años 50 hasta hoy y de vuelta
Homosexualidad, ¿qué ha cambiado?
Esta historia comienza en 1952, cuando la Asociación Estadounidense de Psiquiatría (APA – American Psychiatric Association) redacta el primer DSM (Manual Diagnóstico y Estadístico de los Trastornos Mentales), que clasifica las enfermedades mentales y es utilizado por profesionales del sector en todo el mundo.
En su primera versión, bajo el término homosexualidad, se lee: “trastorno sociopático de la personalidad”. Este documento, fruto de una época impregnada de prejuicios, contribuyó a arraigar la idea de que la homosexualidad era una patología, condicionando la percepción social durante décadas. Un documento que, junto con los psiquiatras, ayudó a divulgar que dicha orientación sexual era una enfermedad. De hecho, el psicoanalista Charles Socarides, conocido por promover la terapia de conversión, intentaba ʻcurar’ a los homosexuales mediante el análisis. Robert Galbraith Heath era famoso por sus experimentos relacionados con la electroestimulación cerebral, a través de los cuales trataba de convertir a los pacientes en heterosexuales. Incluso el futuro presidente Ronald Reagan se pronunció en contra de la homosexualidad, calificándola como “una trágica enfermedad, una neurosis como cualquier otra”.
A principios de los años 70, la homosexualidad seguía siendo un delito en 49 estados de Estados Unidos. Podías acabar en prisión, perder tu empleo o ser internado en un hospital psiquiátrico. En 1971, se celebró en Washington una conferencia de la APA en la que el doctor y activista gay Frank Kameny denunció valientemente: “La psiquiatría es nuestro enemigo acérrimo. Ha librado una despiadada guerra de exterminio contra nosotros. Pero sepan que esta es una declaración de guerra contra ustedes”.
Thank you, Dr. Robinson. I am a homosexual. I am a psychiatrist
Al año siguiente, la conferencia de la APA tuvo lugar en Dallas. Se organizó una mesa redonda con el título banal Psychiatry: Friend or Foe to Homosexuals? (¿Psiquiatría: amiga o enemiga de los homosexuales?). Entre los ponentes se encontraba un joven psiquiatra encubierto, vestido con un esmoquin, una máscara de látex y una peluca de rizos negros. Aceptó participar solo con la condición de mantener el anonimato, ya que la discriminación sistémica ya le había hecho perder su trabajo varias veces. Se trataba de John Fryer, y con las palabras “Thank you, Dr. Robinson. I am a homosexual. I am a psychiatrist”, abordó abiertamente el tema de la homosexualidad entre los psiquiatras. La pregunta que surgía entre los asistentes era: ¿Cómo podía un psiquiatra ejercer su profesión con una ʻdisfunción’ tan debilitante?
En 1973, la APA decidió revisar la segunda versión del DSM, cuestionando su contenido. La psiquiatría fue atacada desde múltiples frentes. Entre las publicaciones de mayor impacto se encontraba el estudio de David Rosenhan, Being Sane in Insane Places, publicado en Science. Este experimento demostró cómo ocho pseudopacientes sanos fueron internados en instituciones psiquiátricas basándose en diagnósticos erróneos. El estudio de Rosenhan reveló las fragilidades del sistema diagnóstico y planteó interrogantes sobre el valor científico de la psiquiatría, empujando a toda la comunidad médica a reformular sus criterios. Era necesario tomar decisiones y reformar el ámbito de la enfermedad mental. Entonces, ¿qué hacer?
Marca una cruz
La APA envió a los psiquiatras un cuestionario para preguntar si la homosexualidad debía permanecer o no en la lista de trastornos patológicos del DSM. ¡Una enfermedad podía dejar de ser considerada como tal mediante una encuesta! Mientras el psiquiatra Robert Spitzer trabajaba en el DSM, el grupo secreto Gay Psychiatric Association lo invitó a una reunión, evento que de algún modo marcó un punto de inflexión: si personas exitosas, sin signos evidentes de malestar, podían ser homosexuales, ¿cómo se podía seguir definiéndola como una patología? La homosexualidad fue eliminada del DSM, dejando únicamente la ʻhomosexualidad egodistónica’, es decir, la condición en la que una persona no vive con serenidad su orientación sexual. Sin embargo, tuvimos que esperar hasta los años 90 para que la Organización Mundial de la Salud eliminara oficialmente la homosexualidad de la lista de enfermedades mentales.
¿Podemos llamarlo progreso? Las nuevas reglas de Meta
Llegamos a 2024, un año marcado por la reelección de Donald Trump, que trae consigo una oleada de políticas discriminatorias. Uno de los primeros efectos colaterales se manifiesta a través de los cambios introducidos por Mark Zuckerberg en las normas de moderación de Meta. Según las nuevas reglas, las afirmaciones que califican a las personas homosexuales o transexuales como ʻenfermas mentales’, ʻinmorales’ o ʻanormales’ ya no serán consideradas contenido sujeto a moderación. Incluso se permite negar su existencia, legitimando tratamientos de conversión y fomentando un clima de regresión en los derechos civiles.
“Lo que comenzó como un movimiento para ser más inclusivo siempre se ha utilizado en gran medida para bloquear opiniones y aislar a personas con ideas diferentes, y se ha ido demasiado lejos”, añadió. “Quiero asegurarme de que las personas puedan compartir sus opiniones y experiencias en nuestra plataforma”, declaró Zuckerberg.
Entonces, ¿deberíamos aceptar la homofobia bajo la máscara de la libertad de expresión? Sin duda, estamos retrocediendo al encontrarnos, cuarenta años después, hablando de nuevo sobre la homosexualidad como enfermedad mental. Esta involución no es solo un problema de normativas empresariales, sino un reflejo de un contexto social que corre el riesgo de legitimar actitudes discriminatorias. Los cambios de Meta, comunicados además de manera hipócrita, son indudablemente un gran retroceso en materia de derechos civiles. Pero más allá de lo que permita o no permita la plataforma, quizá todavía tengamos una esperanza: preguntarnos en qué valores queremos basar la sociedad que habitamos.
Libertad de expresión
Entre los cambios de Meta también se encuentra la eliminación del fact-checking, es decir, la verificación de la información publicada en sus canales sociales: «En plataformas donde miles de millones de personas pueden tener voz, todo lo bueno, lo malo y lo feo está a la vista. Pero esto es libertad de expresión». Declaró Zuckerberg.
La libertad de expresión nunca debería ser un pretexto para permitir discursos de odio, homofobia o cualquier forma de discriminación. Es una cuestión compleja que requiere un equilibrio delicado: por un lado, la protección del derecho a expresarse libremente, y por otro, la responsabilidad de garantizar que las plataformas no se conviertan en terreno fértil para la incitación al odio o la desinformación.
Las decisiones de Meta, como la eliminación del fact-checking o el relajamiento de las restricciones sobre contenidos controvertidos, corren el riesgo de tener un impacto concreto en grupos ya vulnerables, como la comunidad LGTBI, y de legitimar comportamientos ofensivos bajo el escudo de la ʻlibertad de expresión’.
Las plataformas sociales, al ser espacios públicos digitales, tienen una responsabilidad moral y social. Permitir discursos discriminatorios con el pretexto de la libertad de expresión no protege una sociedad justa, sino que contribuye a normalizar actitudes tóxicas.
Entonces, ¿cuáles son los límites éticos de la libertad de expresión? Quizá sea el momento de redefinir qué significa la libertad de expresión en un mundo digital.
venerdì, 31 gennaio 2025
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