A tre giorni dall’insediamento di Trump, quale sarà il futuro economico europeo?
di Federico Giusti
I dazi storicamente sono stati tra le principali fonti di entrata del Governo degli Stati Uniti e se confrontiamo i dazi attuali con quelli del 1930 sono veramente risibili.
Ma il Tariff Act del 1930 ebbe anche effetti negativi sul commercio mondiale e contribuì non poco a un periodo di crisi definito Grande Depressione, dal quale gli Usa uscirono solo con l’economia di guerra.
L’ulteriore accrescimento dei dazi potrebbe essere una scelta politica ed economica del nuovo corso repubblicano soprattutto in funzione anticinese e antieuropea: sul vecchio continente Trump potrebbe scaricare gli oneri della guerra in Ucraina aggravandone la crisi economica.
Il Congresso americano assegna l’autorità tariffaria al Presidente. I dazi, storicamente, sono serviti a proteggere le industrie dalla concorrenza, oltre a rappresentare uno strumento di forte pressione su Paesi competitor anche per indebolire i concorrenti sui mercati mondiali. I dazi dalla seconda metà del secolo scorso sono stati utilizzati di meno, ma potrebbero tornare in auge nell’era multipolare che sta mettendo in discussione l’egemonia economica e finanziaria, oltre che monetaria degli Usa.
La prima amministrazione Trump introdusse i dazi in funzione anticinese, ma questa linea non è stata sconfessata negli anni della presidenza Biden fermo restando le differenze tra democratici e repubblicani con i primi assai vicini alle fazioni capitaliste favorevoli alla svolta green e i secondi legati, invece, alle industrie del fossile.
I risultati delle politiche daziali non hanno tuttavia fermato il deficit commerciale e le aziende statunitensi hanno pagato, al pari dei cittadini, costi superiori alle aspettative oltre alle ripercussioni negative sulle aree rurali dove, tuttavia, i consensi a Trump restano maggioritari.
Biden a sua volta ha introdotto dazi sui veicoli elettrici e sulle batterie cinesi al pari di quanto ha fatto recentemente la Ue – all’interno della quale le crepe sono sempre più evidenti: la Germania è, infatti, contraria a queste politiche ed è stata sostenuta dalle principali multinazionali di autovetture europee, anche quelle concorrenziali con i marchi renani. Molti economisti restano scettici se non contrari ai dazi o almeno verso il loro innalzamento, preferendo scegliere i settori dove applicarli.
La suggestione ‘trumpiana’ è legata all’idea che i dazi potrebbero ridurrebbe il deficit di bilancio degli Stati Uniti trovando risorse da investire in programmi sociali che, tuttavia, i repubblicani hanno da trent’anni sempre ridotto ai minimi termini. Da dimostrare, quindi, che una crescita dei dazi sia di reale aiuto alla manifattura nazionale che ha delocalizzato le produzioni nel corso del tempo proprio nei Paesi ai quali queste tariffe si vorrebbero imporre.
Trump – durante la campagna elettorale – ha parlato di dazi del 60% sulle importazioni cinesi e del 10% su tutte le altre importazioni. Ma le ripercussioni potrebbero essere negative sui prezzi dei prodotti acquistati dai consumatori statunitensi tanto che il Peterson Institute for International Economics calcola, per le famiglie statunitensi, un costo di 1700 euro in più all’anno.
In ogni caso, dazi elevati portano maggiori entrate nelle casse federali ma anche un aumento dei costi a carico della popolazione oltre alla crisi dei flussi commerciali; per questa ragione pensiamo che alle dichiarazioni elettorali seguiranno azioni non sempre conseguenti visto che quando i dazi, negli anni 30 del Novecento, erano elevati, la spesa del Governo federale era assai più bassa di quella attuale.
Gli scenari futuri, in estrema sintesi, sono tutt’altro che scontati e molto dipenderà anche dalla reazione di Cina e Unione Europea alle prime decisioni che il neopresidente Usa assumerà in materia di politica economica e di commercio internazionale.
venerdì, 17 gennaio 2025
In copertina: Foto di Meineresterampe da Pixabay