Intervista ad Alba Maldini – che racconta la storia del marito, Claudio Bellettati
di Simona Maria Frigerio
La vicenda di Claudio Bellettati ci ha interessati perché ciò che pretende la sua vedova è semplicemente dovuto – in un Paese che voglia definirsi civile. Ossia, la verità. In primis, sul perché è morto; e, per tutti noi che domani, come il mese prossimo, potremmo aver bisogno di un intervento o di cure ospedaliere, di una sanità pubblica all’altezza di un Paese che si vanta di essere tra i G7 – ma che da oltre vent’anni sta disinvestendo in tutte le strutture del welfare, dalla scuola all’assistenza agli anziani e ai disabili, dalle pensioni alla sanità pubblica, dalla ricerca ai trasporti fino all’università.
La prima domanda è ovvia: dove vive e qual era la storia clinica di suo marito prima del ricovero?
Alba Maldini: «Noi viviamo a Bologna e mio marito era curato presso l’Ospedale Sant’Orsola. Claudio aveva subito il secondo trapianto di rene il 5 aprile 2002, perché si era ammalato a diciotto anni e aveva già fatto un primo trapianto. Negli anni si è sempre tenuto sotto controllo, anche a livello farmacologico, e non ha mai avuto grossi problemi».
Perché la situazione è degenerata e suo marito è peggiorato?
A. M.: «Mio marito aveva 62 anni e, anche in passato, aveva avuto l’influenza, come tutti, persino con febbre alta e l’aveva sempre superata senza alcun problema. Questo, fino all’anno scorso. Intorno al 27/28 novembre 2023, ricordo che mi mandò un messaggio al lavoro in cui mi scriveva: “Mi sa che l’ho presa!” Io gli chiesi: “Che cosa?” e, ovviamente, la sua risposta fu: “L’influenza!”. Aveva 37,5°C. Niente di che. Il giorno dopo era salita a 38°C, ma già dal giorno successivo sfebbrò. Non aveva tosse né altri sintomi. Se ricordo esattamente era lunedì. Il venerdì successivo gli tornò qualche lineetta di febbre, ma la cosa che ci preoccupò fu che, appena si alzava, sveniva. Lui era restio ad andare in ospedale ma, chiamando il reparto di nefrologia – dove era seguito – l’infermiera ci consigliò di recarci al Pronto Soccorso per approfondire la questione. Lì, gli fecero subito alcuni esami anche perché, nel frattempo, iniziava ad avere difficoltà respiratorie. Decisero perciò un ricovero in Medicina d’urgenza – dove rimase per due giorni e mezzo – gli misero l’ossigeno, in attesa si liberasse un letto nel reparto di nefrologia. Se ricordo esattamente fu il 6 dicembre, nel tardo pomeriggio, che ebbero finalmente un posto e lo trasferirono. Fu visitato immediatamente, mi chiesero per l’ennesima volta se fosse vaccinato contro la Covid-19 – il che non mi sembrava per nulla pertinente e, comunque, mio marito non era vaccinato, né dal tampone risultò positivo».
Quando vi siete accorti del peggioramento?
A. M.: «Il giorno dopo mi chiamò il nefrologo pre-allertandomi che ci avrebbe parlato, sia a me sia a mia figlia, in quanto, se la situazione rimaneva gestibile in reparto, lo avrebbero tenuto lì; altrimenti, siccome sembrava che la questione si stesse complicando, lo avrebbero trasferito. Ricordo che ci recammo in ospedale, dove si tenne un consulto con gli infettivologi, che mi chiesero nuovamente se mio marito fosse vaccinato, così come i rianimatori/anestesisti. Dopodiché il nefrologo ci convocò – a mia figlia e a me – per ribadirci quanto mi aveva già accennato per telefono: ossia che, in caso di peggioramento, lo avrebbero trasferito in terapia intensiva perché lì erano più attrezzati. Ribadisco che non era Covid-19 e tutti gli esami erano negativi. A un certo punto – ma questa è stata solo la mia sensazione – quel continuo chiedermi se mio marito fosse vaccinato suonava come una discriminante… In quel momento ciò che i medici ci dissero è che mio marito aveva una forma di polmonite, ma non sapevano di che tipo perché erano in attesa degli esiti degli esami. Ci rassicurarono anche perché affermarono che, pur non essendo una cosa gravissima né il paziente in pericolo di vita, dato che era una polmonite seria ci sarebbe voluto del tempo per arrivare a una completa guarigione. Al che domandammo se, trasferendolo in terapia intensiva, sarebbe stato intubato e sedato, ma i medici negarono recisamente in quanto dissero che ci sarebbero voluti vari step prima di arrivare a una simile condizione».
Quando suo marito fu ricoverato in terapia intensiva, le analisi avevano già stabilito l’origine virale o batterica della polmonite?
A. M.: «Nel giro di poche ore, nel tardo pomeriggio, fu trasferito nel Padiglione di rianimazione e anestesia. Ci dissero che lo facevano per maggiore tranquillità. A quel punto mia figlia e io chiedemmo nuovamente se lo avrebbero sedato e intubato e la risposta fu negativa. Dopodiché entrambe lo salutammo e mio marito ci disse: “Io da qua, vivo, non esco”. Il giorno dopo, quando tornammo, era già intubato e sedato senza che nessuno ci avesse avvertite. Per quanto riguarda il tipo di polmonite, il giorno ancora successivo, in terapia intensiva, lo sottoposero a broncoscopia e, dal ricovero, diciamo che ci volle circa una decina di giorni perché capissero il tipo di polmonite. Nel frattempo, gli somministravano antibiotici ad ampio spettro. Solo intorno al 12 dicembre o poco oltre ci informarono che era una polmonite da influenza (1). A quel punto, nonostante avessero capito di cosa si trattava, continuarono a fargli una serie di esami, comprese altre broncoscopie e decisero di sospendere i salvavita, ovvero la terapia immunosoppressiva. E quando gli chiesi il perché, mi risposero: «Altrimenti, lo uccidiamo». Purtroppo, in quel momento, non pretesi ulteriori delucidazioni. Non so se fosse giusto sospendere gli immunosoppressori, ma mi chiedo perché non gli fecero una dialasi. Erano stati loro stessi a paventarlo, dicendo che avrebbero monitorato la creatinina. Eppure il nefrologo, già qualche giorno prima, di fronte alla possibilità di sospendere i farmaci, aveva risposto che non importava perché mio marito continuava comunque a urinare. Ma qui stiamo parlando di tutt’altro! (2)».
Quando è deceduto suo marito?
A. M.: «A un certo punto la creatinina è arrivata a 5. E d’un tratto mi chiesero se fargli, o meno, una tracheotomia. Ma io, che non ero stata consultata quando era stato sedato e intubato, su quali basi – non essendo un medico – avrei potuto decidere se praticare o meno una tracheotomia? Dopodiché decisero di non procedere e, a seguire, insorse un’infezione che lo ha condotto a un’insufficienza multi-organo (polmoni, cuore e reni)… Sembrava che volessero chiedermi di ‘staccargli la spina’. Avvertivo qualcosa di subdolo… ma io rispondevo che dovevano assolutamente continuare a curarlo. Così siamo arrivati alla sera del 22 dicembre, quando ci hanno chiamate perché gli avevano staccato tutto e, il giorno dopo, è deceduto».
Perché ha richiesto l’autopsia?
A. M.: «Il 23 dicembre, appena mi hanno telefonato per comunicarmi il decesso, sono andata in Questura e ho sporto denuncia. A quel punto è stata ordinata l’autopsia. Il primo medico legale ha rinunciato per conflitto d’interessi – almeno così mi ha riferito il mio Consulente Tecnico. Dopodiché, incaricato dalla Procura un secondo medico legale, era stata stabilita una data precisa per l’autopsia, di cui ero stata avvisata e mi avevano anche detto che avrei potuto presenziare. Però, il medico legale ha proceduto qualche giorno prima – senza informare né me, né il mio Consulente Tecnico, né il mio avvocato. Devo anche aggiungere che non ha tenuto nemmeno conto di alcune richieste fatte dal mio CT, come la video-registrazione. Non sappiamo se abbia fatto le foto richieste dal mio Consulente né il prelievo di un pezzetto di rene da inviare al Centro Nazionale Trapianti. Dopo un anno siamo ancora in attesa della perizia e non sappiamo nulla. Noi non abbiamo potuto procedere in alcun modo».
Perché sta raccontando la sua storia all’opinione pubblica?
A. M.: «Faccio un appello perché ogni giorno mi capita di incontrare persone che hanno vissuto situazioni simili alla mia, anche qui a Bologna. Però, o per paura o perché non hanno le possibilità economiche, non denunciano. Oppure pensano: “Loro sono più forti di noi, e non mi ci metto neanche!”. Io chiedo alle persone di farsi avanti perché, in ospedale, prima o poi possiamo andarci tutti e, quindi, se non si pretende un cambiamento, si andrà avanti così. Questa battaglia non serve solo a me, dato che mio marito non posso riportarlo in vita. E secondo, vorrei delle risposte su quanto è successo dato che non voglio che il mio, come tanti altri casi, sia archiviato. Pretendo di sapere che cosa è successo. Pretendo solo la verità».
(1) Polmonite e broncopolmonite possono rappresentare due tra le più serie complicazioni in pazienti infettati dal virus influenzale, di qualsiasi ceppo esso si tratti
(2) I pazienti che hanno subito un trapianto di un organo solido (rene, fegato, cuore, polmone, pancreas, intestino) devono assumere quotidianamente farmaci immunosoppressori per la prevenzione del rigetto acuto e cronico
venerdì, 3 gennaio 2025
In copertina: Image by Engin Akyurt from Pixabay