Dario Marconcini e Giovanna Daddi ci canteranno una ninna-nanna… ma ‘pericolosa’
di Simona Maria Frigerio
Avevamo lasciato Daddi e Marconcini mentre ci raccontavano come Straub avesse loro insegnato un metodo per trasformare il testo drammaturgico o poetico di un dato autore in uno spartito musicale, scomposto in blocchi e riassemblato, contando sull’appoggio sulle singole sillabe e su pause/respiri per ricreare un’armonia del dettato mai fine a se stessa, o musicale per il gusto del divertissement, ma sempre con il preciso intento di restituire allo spettatore il senso ultimo ed essenziale, potremmo addirittura dire ‘scabro’, di ciascuna parola e di quel complesso di parole che poi è monologo, dialogo o scena d’insieme – a teatro come nel cinema.
Ma anche Dario Marconcini ha il suo metodo per creare dei blocchi di senso, che è alquanto originale. Mi mostra la sinossi di Mauser, un testo di Heiner Muller che ha portato a teatro qualche anno fa. Vi sono 26 blocchi o ‘stazioni’ che vanno da Il canto a Purificazione e danza sacra, passando per Robespierre e Saint-Just vs Danton e Il lato oscuro. Cosa c’entrano con il testo forse meno noto della famosa Trilogia (gli altri due erano Filottete e L’Orazio) questi ‘titoli’? Nulla e tutto. Perché aprono prospettive, creano immagini nella mente dell’attore che – sia parte del Coro o A – deve distanziarsi dalla contingenza, estraniarsi, per arrivare all’archetipo – sia che attinga al dramma dialettico brechtiano sia che lo si faccia risalire direttamente alla forma più pura, quella della tragedia greca.
A questo punto, però, Dario aggiunge un ulteriore elemento: la terza persona. Ossia il passaggio fondamentale per ottenere la forma di straniamento voluta da Straub anche se (come ammette Giovanna) è difficile da spiegare a parole. In pratica l’attore non dovrebbe pensare: “io adesso prendo un bicchiere di latte e bevo”, bensì: “Dario prese un bicchiere di latte e bevve”. Ogni azione agita sulla scena va riportata indietro nel tempo, trasformandosi in patrimonio di un agire condiviso proprio della nostra specie umana, e non un gesto che l’attore, individuo/personaggio, agisce naturalisticamente sul palco per lo spettatore. Il presente si fa passato condiviso, lontano, parte di una storia o di una matrice antropologica comune. Come spiega ancora Marconcini: «Non c’è più l’uomo contemporaneo, borghese, che si muove in un teatro fingendo di essere, magari, in un salotto dove assaggia un sorso di whisky, ma vi è una figura mitica, archetipica, che germoglia da quella radura dove si innesta la radice del teatro».
Daddi, a sua volta, racconta come riesce a straniare i personaggi di Pinter, allontanandoli dalla loro superficialità apparente o borghese: «Se faccio l’esempio del bicchiere di latte, in quella parola, ‘latte’, la mia voce e il mio timbro devono condensare una certa violenza, devo rimandare, ad esempio, al latte materno», al nutrimento primordiale, al legame innato tra madre e figlio, e tra donna e donna – le uniche pro-creatrici.
Ma questo è solamente l’inizio del lavoro sul testo. Abbiamo affrontato la scelta della parola e il suo dettato. Siamo risaliti fino allo straniamento come mezzo tecnico per attingere all’archetipo. La terza specificità del teatro di Marconcini e Daddi è la scelta del gesto (o, come in Notte, della sua totale assenza). È stato Dario a sentire la necessità, ancor prima di conoscere Straub e Huillet, di andare in cerca del gesto sciamanico, di quegli uomini che si muovevano ai confine della magia tribale e vivevano in alcune aree sperdute dell’Africa: «Ogni attore o regista, quando affronta un testo, possiede nella propria memoria conoscitiva una teca che conserva cose viste, apprese o che si stanno ancora cercando. Ognuno di noi può avere in mente le sculture ammirate in tanti musei, nel mio caso i gesti che ho visto personalmente eseguire dagli stregoni nel Benin, e poi i film che hanno fatto la storia del cinema, e così via. Ogni attore è, quindi, un po’ ladro: ruba il movimento di un dito, il sollevarsi di un sopracciglio, la posa di un braccio, un sorriso magari sguaiato – e penso alle risate sdentate dei film di Pasolini…». In breve, ognuno di noi è come se avesse in sé tutte queste ‘maschere’, pronte per essere indossate, e quando il regista scrive la partitura gestuale, ecco che quella parola – che non è mai inutile – si «unisce a un movimento preciso che, forse inconsciamente, si è assunto in sé e, d’un tratto, riemerge».
E però la domanda che sorge spontanea è come evitare il cliché. Come scegliere un movimento che non sia ormai vetero e stantio. Prendendo a esempio l’esperienza di Giovanna nel ruolo di Lady Macbeth, che mai si presenterebbe in palcoscenico in camicia da notte con le mani grondanti di sangue per fingere una pazzia da teatro mattatoriale degli anni 50, lasciamo a lei la spiegazione: «Nel primo Macbeth che feci, molti anni fa, per la regia di Roberto Bacci, attinsi la mia follia al terrore – che definirei atavico – che provo per gli uccelli. Ricordo che entravo in scena con una gabbia che conteneva un uccello impagliato e giravo come una pazza intorno a questa gabbietta. Nel MiniMacbeth, dove ho ripreso il medesimo personaggio ma più adulta, la mia follia si è trasformata in un ritorno all’infanzia: una canzoncina che mi cantavo» e che, effettivamente, rimanda ad altri motivi – come quello di Profondo Rosso – che immediatamente suscitano in noi un involontario senso di disagio. Perché le paure, spesso, sono immotivate – come quella per le bambole o i clown, quelle facce di porcellana o sbiancate dal cerone che, per qualche ragione, ci comunicano, forse nella loro fissità, nella loro imperturbabilità e perfezione, un senso di morte.
Ma a questo punto è obbligo tornare al presente: il prossimo spettacolo di Marconcini e Daddi sarà, dopo trent’anni, un ritorno a uno tra i capolavori di Samuel Beckett, Rockaby/Dondolo. L’idea di Dario è, come sempre, una lezione: «Sarà come ritrovare un testo che è la summa del teatro di Beckett. Un testo brevissimo che è la sintesi del lavoro di una grande autore il quale, ogni volta che si legge, si comprende come sia impossibile cambiarlo, intervenire nelle sue indicazioni. Occorre entrare nel testo e lasciare la responsabilità della regia all’autore. In questo specifico caso è necessario proporre al pubblico una registrazione e non la voce dal vivo». In effetti la dissociazione tra l’io in scena e l’io narrazione o tra personaggio e vissuto è una delle ossessioni di Beckett. Ricordiamo, ad esempio, quella consapevole de L’ultimo nastro di Krapp, ove il personaggio sceglie di raccontarsi attraverso vecchi nastri che sono il suo diario intimo. In Dondolo vi è solamente una parola che l’interprete esprime dal vivo: “Ancora” per sollecitare la foce fuori campo a riprendere la sua narrazione. Mentre il finale iconico si avvale della ripetizione: “Dondolala via, dondolala via”. Poi la luce si spegne, il movimento del dondolo si ferma. La cristallizzazione della morte ha il sopravvento su un’esistenza forse mai vissuta.
E qui entriamo davvero nel processo creativo o, per meglio dire, nella trasformazione in un ambiente tridimensionale e agito da una persona in carne e ossa di un testo scritto. Le domande che si pongono regista e attrice rispetto a Dondolo, la cui regia è, come abbiamo appena scritto, affidata allo stesso Beckett, ce le pone Marconcini: «Il primo problema è capire se l’“Ancora” che Giovanna reciterà dal vivo dovrà essere o meno amplificato; e il secondo problema è se “Dondolala via, dondolala via” sarà un urlo disperato o, al contrario, un lasciarsi andare. Sono piccoli temi, all’apparenza, ma sono i temi che danno un senso a quest’onda ripetitiva, a questa situazione ipnotica nella quale si calano attrice e spettatori. Io oserei dire che a quel punto si entra in una dimensione sciamanica. In fondo è una ninna-nanna… ma ‘pericolosa’. Noi ci siamo posti il dubbio se far recitare il testo dal vivo a Giovanna, come avevamo visto in una versione di Peter Brook. Ma ricordo che, seppur ben fatta, non funzionava, non ci ha convinti». E non poteva essere altrimenti perché Beckett aspirava ad altro: alla dissociazione, foss’anche quella patologica della protagonista di Non io.
Ma per un’attrice, tornare sulla scena nei medesimi panni dopo trent’anni è una sfida. Visto che è stata proprio Giovanna a volere fortemente confrontarsi con questa pièce, aspirazione che le abbiamo sentito ripetere più volte negli ultimi anni, è a lei che poniamo la domanda sul perché: «Lo sto rileggendo proprio in questi giorni, il testo, e mi rendo conto, mentre lo leggo, che sono completamente diversa da quella che ero. Un po’ perché mi avvicino alla morte e un po’ perché tutta la mia esperienza teatrale può trovare finalmente la propria espressione. Ad esempio, penso alle pause e al loro valore, e qui ci sono. Mi ritrovo in un percorso che prima non mi rendevo conto di seguire – ne ero affascinata ma ero inconsapevole. Ora ne sono cosciente: so come pormici di fronte, come entrarvi dentro, e ne conosco il fine». Ed è sicuramente diventato suo questo metodo complesso. Nessuno – critico o spettatore che sia – può andare a teatro a vedere e ad ascoltare Giovanna senza percepirne la specificità, la complessità e l’unicità.
E rieccoci all’incipit, alla manualità di Daddi, a quella sua lunga esperienza nel costruire e dar vita ai burattini – prima di approdare al teatro di parola. A volte il teatro è anche mestiere, la capacità con pochi mezzi e tanta inventiva, di trasformare immagini e azioni che il cinema renderebbe attraverso riprese panoramiche, campi e contro-campi e un montaggio alternato, in un qualcosa che si può esperire nel breve spazio e con i media propri del palcoscenico. Come restituire, quindi, allo spettatore quei versi del Macbeth che recitava: “Mi s’affaccia il dubbio / sull’equivoco profetar del diavolo / che ti mentisce facendoti credere /di dirti il vero: «Non devi temere / fintanto che non vedrai avanzare / la foresta di Birnam verso Dursinane…». / Ed ora una foresta / si muove veramente verso Dunsinane!”? Daddi spiega: «Nel MiniMacbeth avevamo questo lungo tavolo… di fronte, sotto e sopra il quale doveva accadere tutto. Era un gioco il nostro, ma serio. E così ho deciso di usare la mia esperienza facendo muovere un intero esercito ma di burattini, fare avanzare una foresta ma in miniatura. Però tutto questo si può ideare quando c’è qualcuno con cui confrontarsi, continuamente, come accade tra Dario e me. Lui mi stupisce, ogni volta che lo guardo, e lui si stupisce – penso io – quando gli propongo una soluzione». E qui è Dario ad ammettere: «Noi si sta facendo il vecchio teatro all’italiana, quello dei carrozzoni, in cui si viveva, si lavorava, si viaggiava… I teatranti erano famiglie intere e, dal mattino alla sera, parlavano del testo, dello spettacolo, di come risolvere un problema, un passaggio, trovare magari un oggetto particolare o la piazza adatta per proporre qualcosa di diverso… e ogni passo avanti era una piccola conquista» esperita dall’intero gruppo. In fondo, un modo «per portare il teatro dove non era mai andato, tra la gente. Questo era il senso del nostro fare teatro, all’inizio…».
A volte basta pochissimo per fare teatro: come racconta Giovanna ricordando un vecchio spettacolo visto anni prima a San Miniato – ma bisogna avere un’idea di fondo, prima ancora che estetica, etica, per farlo; e la necessità di viverlo in ogni fibra del proprio corpo e in ogni ora della giornata. Perché non si diventa artisti, lo si è. E l’arte/vita di Giovanna Daddi e Dario Marconcini ne è il più chiaro esempio.
La prima parte dell’intervista su: https://www.inthenet.eu/2024/11/15/il-teatro-e-un-gioco-serio
venerdì, 22 novembre 2024
In copertina: Notte, da la Trilogia pinteriana, 2016, Teatro di Buti