Intermediale la performance firmata da Office for a Human Theatre
di Simona Maria Frigerio
La performance a cui assistiamo presso la Tenuta dello Scompiglio, come scopriremo più tardi, parlando con il regista Filippo Andreatta, è stata pensata per essere vista e vissuta dal pubblico a 360 gradi, con le performer e la scena centrali, mentre gli spettatori possono muoversi per vedere più da vicino i tre spazi/quadri in cui si suddivide lo spettacolo – seguendo anche le proprie inclinazioni e gusti (chi leggerà ogni scritta proiettata sullo sfondo delle Alpi innevate, chi preferirà soffermarsi di più sull’azione agita o sul connubio, a tratti, perfettamente riuscito tra espressione poetica e gesto – icastico, in questo senso, il finale).
La dimensione teatrale più canonica, con la quale abbiamo fruito della performance, seduti in una platea frontalmente al palco, diciamo che non ne rivela appieno le potenzialità soprattutto emozionali.
Ma partiamo dal testo – scritto da Andreatta, che firma anche la scena – suggestionato potentemente da due autrici, ovviamente Mary Shelley (visto il titolo) ma anche da Clarice Lispector, immaginiamo in particolare da Vicino al cuore selvaggio – in cui la protagonista, ancora bambina, scopre il potere magico e demiurgico del pensiero ma anche, crescendo, l’illusorietà di tradurre quello stesso pensiero creatore in reale: “È curioso che non sappia dire chi sono. Cioè, lo so bene, ma non lo posso dire. Soprattutto, ho paura di dirlo, perché nel momento di parlare non solo non esprimo ciò che sento ma ciò che sento si trasforma lentamente in ciò che dico”. Il “Chi sono?” intorno a cui si arrovella Joana, non è diverso da quello che si domanda il ‘mostro’, creato dal dottor Frankenstein. Una ‘creatura’ che prende coscienza di se stessa attraverso la parola e la parola, sappiamo bene, plasma il mondo: lo stesso logos/dio che insuffla, però, nell’uomo anche l’autocoscienza. E se la ‘creatura’ comprende di essere diversa da tutti gli altri – e abietta perfino agli occhi del suo creatore – non le resta che uccidere. Ecco perché “each man kills the thing he loves” – come fa Roy Batty con il suo artefice, il dottor Tyrell: se non possiamo aspirare a una vita piena e all’amore, sentendo di esistere in ogni fibra del nostro corpo, cosa ci resta?
Joana, la ‘creatura’, Roy Batty, ognuno di noi si pone le medesime domande di Rick Deckard: “Da dove vengo? Dove vado? Quanto mi resta ancora?”. E mentre i nostri pensieri si affastellano è Virginia Woolf a risponderci: “Se solo fosse riuscita a metterli insieme, e a esprimerli in una frase, allora sarebbe arrivata alla verità delle cose”.
Sono molte le sollecitazioni, non solamente filosofiche, ma anche visive che suscita questa performance (a tratti, forse, un po’ troppo lenta: ma probabilmente scandita sui ritmi di una fruizione espansa, in cui lo spettatore deve avere tempo di muoversi e di comprendere quanto accade).
I rimandi ad Alien 4. La clonazione (o meglio, all’unica scena che valga un film che non sarebbe mai dovuto essere girato), ossia agli aborti sotto vetro e immersi nel liquido dei tentativi di ricreare Ellen Ripley, sono evidenti nella struttura a destra del palcoscenico. Come quei tubi dai quali ‘piove’ – perennemente in Blade Runner – rimandano forse inconsciamente ai cordoni ombelicali di Matrix, che collegano le praterie di corpi umani con quel sistema che fornisce alle macchine l’energia per agire (non usiamo il termine fuorviante di ‘vivere’, fuorviante quanto chiamare l’AI ‘intelligenza’ artificiale: nell’elaborare e riprogrammare fino a diventare autonomi nell’ammazzare, non vi è alcuna intelligenza, come dimostra il sistema Habsora che consente all’esercito israeliano di gestire una vera e propria “fabbrica di omicidi di massa”, in cui “l’enfasi è sulla quantità e non sulla qualità” (1).
In Frankenstein abbiamo quindi sollecitazioni poetico-filosofiche, visive (grazie al rimando a quell’immaginario più filmico che collettivo) ma forse manca il richiamo all’archetipo. Ci si perde un po’ tra i tanti, a volte, troppi stimoli intellettuali ed è difficile richiamare, nella scena finale (come già scritto, icastica) la prima, ossia l’acquisizione del fuoco da parte dell’uomo grazie a Prometeo. Forse qualche marchingegno o espediente in meno (come il ventilatore sospeso o la dispersione del liquido fluorescente per terra), gioverebbe a prosciugare i riferimenti e le sollecitazioni per esaltare il cuore di tenebra che si nasconde nel sempre attuale romanzo di Mary Shelley.
La performance si è tenuta:
Associazione Culturale Dello Scompiglio
via di Vorno 67, Vorno (Lucca)
sabato 9 novembre 2024, ore 19.30
Frankenstein
di Office for a Human Theatre
regia, scena e scrittura Filippo Andreatta
tratto da Mary W. Shelley e Clarice Lispector
suono e musica Davide Tomat
performer Silvia Costa e Maria Isidora Vincentelli
assistente regia Veronica Franchi
responsabile allestimento Cosimo Ferrigolo
luci Andrea Sanson
tecnico luci Marco Filippone
costumi Lucia Gallone
sculture di scena e automazioni Plastikart Studio
busto di cera e maschere Nadia Simeonkova fondale dipinto Paolino Libralato
tecnico Orlando Cainelli
stage tecnico Rebecca Quintavalle
fotografie Giacomo Bianco
produzione OHT – Office for a Human Theatre
co-produzione TPE Teatro Piemonte Europa, Snaporazverein (CH)
residenza artistica Centrale Fies
con il contributo di MiC, Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Caritro di Trento e Rovereto
venerdì, 22 novembre 2024
In copertina: Frankenstein, foto di Andrea Macchia (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa dell’Associazione Culturale Dello Scompiglio)