Cinque installazioni per raccontare il sé e l’altro da sé
di Simona Maria Frigerio
La Tenuta dello Scompiglio di Vorno, in provincia di Lucca, resta – e non ci stancheremo mai di scriverlo – uno dei luoghi più vitali per le arti in Toscana (e, forse, di gran parte d’Italia). Un centro polivalente, praticamente a impatto zero, con strutture recuperate in materiali eco-compatibili e spazi dove artisti, e non, possono ritrovarsi per dialogare e portare avanti progetti originali, in parte site-specific.
In queste settimane sono ben cinque le installazioni in mostra. Noi partiamo da quella interna allo spazio espositivo, intitolata Le maniglie dell’amore, firmata da Chiara Ventura.
In un ambiente reso ancora più asettico dalle luci bianche che ci illuminano quasi fossimo in una sala operatoria, sono ospitate su tre pareti le cronache concise di una serie di omicidi commessi contro le donne (scritte a lettere nere su fondale bianco) e sulla quarta parete sono appese tante maniglie quanti sono i casi riportati a latere. Maniglie, ognuna diversa dall’altra, come erano le donne e le vite stroncate sempre per mano di un uomo. Ogni maniglia è quasi un invito ad aprire una porta che rimarrà ormai chiusa per sempre, quella su un io unico che non si può riassumere in una (una qualunque) didascalia – “Alessandra Mazza, 35 anni, Bosco dei Preti (AV), 14 febbraio 2024, uccisa dal padre che le ha sparato mentre erano in giardino, fuori dalla loro abitazione. L’uomo si è poi ucciso”. Ma chi era Alessandra Mazza davvero, al di là del suo omicidio, di questa scarna descrizione di un fatto che possiamo etichettare e, in fondo, liquidare facilmente come ‘femminicidio’? Quale maniglia avrebbe potuto farci penetrare nel suo mondo, comprenderla e capire perché si è arrivati a quell’azione criminale che le ha strappato la vita il 14 febbraio 2024?
L’installazione ha un profondo valore intrinseco ma dovrebbe permetterci di aprire anche altre porte. Ad esempio, perché ogni assassinio di donna da parte di un maschio è adesso etichettato come femminicidio? Perché si tacciono altri elementi come la violenza psicologica o fisica continuata, l’allontanamento della donna dagli affetti e dall’ambiente amicale precedente, la sua prona accettazione di un maschio che le costruisce intorno un muro o un recinto, come si fa con un animale, per contenerla, controllarla, possederla? Se non ci sono anche questi e altri comportamenti, non si dovrebbe parlare di femminicidio. Ad esempio, pensiamo a “Mara Fait, 63 anni, Rovereto (TN), 28 luglio 2023, muore per due colpi d’ascia inflitti dal vicino di casa dopo l’ennesima lite. L’uomo si è poi costituito”. Questo non è un femminicidio, è un omicidio commesso – data per precisa la descrizione – per futili motivi. Confondere le situazioni non aiuta le donne, soprattutto non esemplifica quella serie di comportamenti che dovrebbero metterle in allarme, tra le pareti domestiche: la gelosia non è amore, uno schiaffo non è passione, il batticuore non è romanticismo, Io ti salverò (sinonimo di ‘Io ti cambierò’) è un bel film di Alfred Hitchcock ma la ‘vocazione all’infermierina’ è stata denunciata come deleteria già anni fa da Robin Norwood in Donne che amano troppo (libro che dovrebbe stare al femminismo, quanto il Capitale al materialismo storico).
Ma apriamo ancora altre porte e confrontiamoci con altri due fatti (come ci ha indicato Monia Azzalini (1), da noi intervistata qualche anno fa): “La narrazione della violenza contro le donne nei vari mezzi stampa ricalca spesso degli stereotipi” e “si sta esagerando con le notizie che riguardano la violenza di genere. Sebbene parlare di femminicidio o di violenza contro le donne, all’inizio, sia stato come infrangere un tabù, secondo me, sovraesporre la questione della violenza contro le donne, soprattutto con fatti di cronaca – che non approfondiscono e che non ricordano la matrice culturale da cui deriva questo fenomeno – significa rinforzare nell’immaginario collettivo l’idea della donna come rappresentante del sesso debole”. È positivo per le donne – a livello di immaginario e di pratica quotidiana – essere sempre oggetto della cronaca in quanto vittime?
Apriamo un’ennesima porta: quanto ci toccano le storie di Eleonora, Ilenia o Cosima? Perché non proviamo la stessa empatia per le migliaia di donne palestinesi segregate, stuprate, violate, picchiate e uccise (magari coi loro figli) dai soldati israeliani? Quello non è femminicidio? No, infatti, è genocidio o etnocidio – come preferite. Uccidere una donna, significa ammazzare anche i figli che potrebbe avere (magari in grembo), azzerare le possibilità di futuro di un intero popolo (per questo se affonda una nave, si devono porre in salvo, prima, donne e bambini).
Inserire ogni uccisione di una donna sotto la categoria femminicidio è deviante. Ma questo non significa che ogni volta che si ammazza una donna, non si stia commettendo un delitto. E però se apriamo, con una di quelle maniglie, anche un’ultima porta dovremmo guardare negli occhi noi stesse. Quante volte abbiamo frainteso i segnali? Quante volte il nostro obbligo di cura ci è stato imposto a livello culturale pur non appartenendoci? Quante volte siamo scese in piazza per le donne afghane mentre le bombardavamo con la scusa di liberarle? Quante volte abbiamo giustificato – per noi o per le donne che ci stanno intorno – comportamenti violenti posti in essere nei confronti di altre donne, o degli uomini?
Usiamo ognuna di quelle maniglie per aprirci a un mondo di domande perché la strada dell’emancipazione è lunga e tortuosa e il femminicidio rischia di diventare una scappatoia del potere (anche femminile, sempre più prono ad adeguarsi ai modelli maschili) per giustificare la sua incapacità di affrontare la complessità del presente.
Al di fuori dello Spazio performatico ed espositivo, sulle colline che incorniciano la Tenuta dello Scompiglio, abbiamo assistito – in uno degli ambienti ristrutturati per ospitare progetti d’arte in senso lato – alla proiezione del video Officine Oniriche di Gianluca Trusso Forgia, che restituisce l’esperienza vissuta da sei persone (mai incontratesi prima) con Gianluca e tre scienziati – dal 24 aprile al 1° maggio di quest’anno – sulle colline e in due edifici della Tenuta, quello nel quale ci troviamo e quello adibito all’ospitalità degli artisti in residenza. Ovviamente il video è un montaggio di suggestioni e frammenti di esperienze – quella onirica notturna, gli esercizi al risveglio, la preparazione dei pasti, alcune fasi di rilassamento o di relax assoluto, e la costante dello scrivere appunti su quanto i sei volontari pensavano, sognavano o provavano in occasioni diverse e momenti diversi del giorno e della notte.
L’intervento dei tre ricercatori verteva su alcune tematiche che interessano anche il lavoro creativo di Trusso Forgia, ovvero il sogno lucido, gli stati ipnagogici indotti e l’ipnosi collettiva. Spieghiamo per chi non fosse avvezzo ai termini che per ‘sogno lucido’ si intende che il dormiente ha coscienza di stare sognando e riesce persino a modificare le situazioni oniriche nelle quali si trova ‘coinvolto’. Mentre lo ‘stato ipnagogico’ è quello di transizione dalla veglia al sonno – ‘indotto’ o facilitato, come ci spiega Gianluca al termine della proiezione, anche dalla somministrazione di erbe e prodotti naturali rilassanti.
Al termine della visione, ne discutiamo a lungo con Gianluca, seduti sui medesimi materassi sui quali i volontari, tre alla volta e a notti alterne, hanno dormito permettendo ai ricercatori di indagare le fasi rem e il sogno lucido, monitorando anche le loro onde cerebrali e – risvegliandoli tre volte ogni notte – permettendo loro, se se la sentivano, di trascrivere i propri sogni.
La ricerca era volta a capire anche se si può condividere un sogno, se è possibile condividere, quindi, lo spazio onirico e, nel caso, se solo compartecipandolo o anche interagendovi. Ma il progetto ha permesso altresì ai volontari di concedersi uno spazio/tempo lontano dai ritmi frenetici quotidiani, e dalla massa di informazioni che ci bombarda da ogni dove (non a caso, il primo giorno hanno dovuto consegnare orologi e cellulari), per centrarsi su se stessi e sul rapporto con l’altro da sé secondo tempi dettati dalla luce e dal buio naturale – dal respiro della vita.
Al termine della visione chiedo a Gianluca se questo poter ragionare su se stessi, prendendosi una pausa di circa sei/sette giorni, vivendo in un bucolico giardino ‘segreto’ e protetto quale quello della Tenuta dello Scompiglio, per indagare il sogno lucido non sia un lusso, un lusso che possono concedersi pochi fortunati tra coloro che già fanno parte del cosiddetto miliardo d’oro. E se, al di là di una maggiore autocoscienza, di un’esperienza in sé motivante e arricchente, oggi gli artisti, come tutti quanti noi – individualmente e collettivamente – non si debba agire nel presente, incidere in questa nostra realtà sempre più caotica e violenta. La discussione si è spostata, quindi, dal piano psicologico e filosofico (ad esempio, il fatto che i tempi della produzione abbiano preso il posto di quelli naturali, costringendoci ad aumentare le ore lavorate anche in inverno ‘grazie’ all’uso della luce artificiale) al politico – ossia, all’ammissione onesta e, quindi, rara nel panorama artistico attuale – che è ora che l’arte torni anche a essere azione, riflettendo e incidendo sul presente. L’immaginazione al potere o potere all’immaginazione? Per oltre un’ora, quello che negli anni 70 si definiva dibattito post-spettacolo, ha permesso a noi tutti, raccolti nell’ex metato, di condividere opinioni, idee, dubbi e timori – se l’arte deve essere innanzi tutto autenticità, sicuramente abbiamo condiviso un tempo tale.
Con le ultime luci del giorno, siamo riusciti a vedere anche le altre tre installazioni che hanno vinto il bando dello Scompiglio intitolato, non a caso, Il giardino segreto (come un bel libro per l’infanzia di Frances Hodgson Burnett). L’intervento di Valentina Furian – Il tempo dei lupi – ha puntato su un’installazione sensoriale impalpabile: percorrendo un sentiero della Tenuta si possono (o meno) sentire il canto degli uccelli e i rumori della natura – come un fruscio di foglie. Il retropensiero sulla fedeltà o meno a un reale tangibile che ha prodotto il suono che echeggia ci ha riportato alla mente un’altra installazione, di Alberto Papotto e Lori Lako, recentemente visto a Villa Bottini – nell’ambito di Over the Real – che contrapponeva il suono delle cicale diffuso nella sala a un lungo filo sul quale erano infilate, come perline, le crisalidi di centinaia di questi insetti (2). Il suono, impalpabile e intangibile, quanto è collegato con la realtà di un corpo compresente nello spazio/tempo?
Il secondo intervento – Waiting for a landslide – da temporaneo, per sua stessa natura, ha finito per diventare permanente, visto che è composto da una serie di bronzi che hanno sostituito altrettante filladi, ossia rocce scistose e piatte naturalmente presenti sulle colline piano-lucchesi e che, nel tempo, scivoleranno lungo una scarpata della collina. Decisamente più interessante sarebbe stato vedere i riflessi del sole su queste pietre, immaginando i riverberi tipici dei metalli. Da lontano avremmo provato la sensazione di trovarci di fronte a un miraggio? Avremo modo nei prossimi mesi di tornare su questo intervento di Andrea Nacciarriti e cogliere, al di là del radicamento concettuale nel paesaggio, l’illusione che sa ricreare l’arte quando sublima la natura.
L’ultima installazione che abbiamo visto – ormai quasi a notte – è stata A voce di tuono, di Antonio Della Guardia. L’idea di base è stata forse quella di eternizzare il momento in cui un fulmine ha realmente colpito e abbattuto uno tra gli alberi della Tenuta. E la sua ‘anima’ dov’è finita? L’arte ha trasformato quella cicatrice indelebile dell’albero in un calco e, attraverso la fusione, ha eternizzato nel metallo la ‘vittima’ e il suo ‘carnefice’, l’albero e il fulmine, che ora sono sospesi nel vuoto o aspirano al cielo dove entrambi risiedono nel nostro immaginario, perché, come ha scritto Khalil Gibran: “Gli alberi sono poesie che la terra scrive sul cielo”.
Torneremo, la settimana prossima, con la recensione dello spettacolo che ha concluso la nostra giornata, Frankenstein – per la regia di Filippo Andreatta.
(1) Azzalini collaborava, all’epoca dell’intervista con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Osservatorio di Pavia e, dal 2005, eracoordinatrice nazionale del Global Media Monitoring Project per l’Italia: https://www.inthenet.eu/2021/01/29/le-donne-non-solo-vittime/
(2) https://www.inthenet.eu/2024/10/11/ipotesi-di-futuro/
Le mostre continuano:
Tenuta Dello Scompiglio
via di Vorno 67, Vorno (Lucca)
fino a domenica 13 aprile 2025
Spazio espositivo:
Chiara Ventura presenta:
Le maniglie dell’amore
a cura di Angel Moya Garcia
Opere pensate per gli spazi esterni della Tenuta Dello Scompiglio e realizzate al termine del ciclo di residenze Il giardino segreto – svolte tra l’autunno del 2023 e la primavera del 2024:
Gianluca Trusso Forgia presenta il video/progetto:
Officine Oniriche
solo fino a domenica 17 novembre 2024
D’un tratto nel folto del bosco
progetto site-specific a cura di Vasco Forconi che comprende
Antonio Della Guardia presenta:
A voce di tuono
e Valentina Furian presenta:
Il tempo dei lupi
visibili fino a domenica 13 aprile 2025
Andrea Nacciarriti presenta:
Waiting for a landslide
bronzo, dimensioni variabili, 2024
(opera permanente)
venerdì, 15 novembre 2024
In copertina: Chiara Ventura, Le maniglie dell’amore, Courtesy Associazione Culturale Dello Scompiglio, foto di Leonardo Morfini (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa della Tenuta dello Scompiglio)