Parola di Dario Marconcini e Giovanna Daddi
di Simona Maria Frigerio
Dopo la prima parte dell’intervista a Maria Grazia Cipriani (che speriamo presto di rivedere per approfondire il discorso sulla poetica della Compagnia del Carretto), abbiamo incontrato una coppia del teatro ma anche del cinema di qualità, Dario Marconcini e Giovanna Daddi, e con loro abbiamo cercato di capire come si possa fondere sul palcoscenico il rigore dei cineasti francesi Jean Marie Straub e Danielle Huillet (che con loro hanno collaborato a lungo) con le ricerche personalissime di Marconcini sul gesto e sul movimento sciamanico e l’esperienza manuale e artistica di Daddi con i burattini (mitica la sua partecipazione a Turandot di Claudio Cinelli).
Potrà sembrare strano, ma entrare nella casa degli artisti è indispensabile per comprenderne il metodo di lavoro. La dimora di Daddi e Marconcini ci accoglie con la sua profusione di libri, scritti, oggetti raccolti e collezionati ai quattro angoli del pianeta e le bellissime ombre balinesi. Un microcosmo di esperienze di viaggio/vita/arte che si è poi sublimato sulla scena in alcuni piccoli capolavori come il MiniMacbeth, scritto da Andrea Taddei, in un monologo/tragedia quale Ecuba, la cagna nera e nelle tante versioni dei capolavori di Harold Pinter e Samuel Beckett (prossimo il ritorno a Rockaby/Dondolo dopo trent’anni).
Ma ciò che ci ha colpiti, fin dalla prima volta che la nostra Redazione ha assistito a un loro spettacolo, è stata la capacità di Daddi/Marconcini di trasformare quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un teatro naturalistico o di tradizione, di Harold Pinter, in una urticante, archetipica scoperta delle pulsioni più viscerali del nostro apparato emozionale, senza scadere in un intellettualismo fine a se stesso ma nemmeno nella retorica del mortifero teatro borghese.
E però, prima di svelarvi il mistero, siamo partiti da alcune considerazioni scritte da Dario Marconcini riguardo al lavoro di Straub e Huillet, che ha iniziato ad ammirare – prima ancora che come artisti – per “la loro forza morale e politica”. Questo perché negli anni 60, 70 e perfino 80, l’artista era prima di tutto un intellettuale che si confrontava con la realtà: «Senza un background politico o morale, senza un’etica alle spalle non si può affrontare un discorso teatrale», afferma con sicurezza Dario Marconcini, e continua: «Il regista o l’attore è obbligato a fare da specchio alla realtà, in qualche modo. A volte basta un gesto o dire una cosa al posto di un’altra ma occorre essere consapevoli di vivere all’interno di una realtà, che si può anche mutare, ma di fronte alla quale bisogna assumersi una responsabilità politica. Non si può restare indifferenti a ciò che accade intorno a noi e negli altri Paesi; non si può crogiolarsi soltanto nell’estetica. Dobbiamo tornare a parlare di etica. Quando si dice a un attore che deve essere ‘consapevole’, ebbene questa è la consapevolezza – che non si identifica con il conoscere a fondo un testo bensì con l’essere un individuo in una società vivente, pulsante, di fronte alla quale deve prendere posizione». Anche Giovanna Daddi, da attrice, aggiunge tasselli al ragionamento: «Io vivo con consapevolezza tutti i giorni, la esercito nel mio quotidiano. In questo periodo sento profondamente la situazione di violenza, incertezza e volgarità anche nelle minute azioni della mia giornata. Non si può evitare di prendere una posizione morale sia rispetto a ciò che ci accade intorno sia rispetto a ciò che noi sentiamo. Quindi, quando un attore sale sul palco deve porsi con il medesimo rigore di vita, interiore, personale, della sua quotidianità. Come mi ha insegnato Straub. Lui non partiva da un testo politico ma era politico lui, nel suo modo di essere, di porsi di fronte alla società, di non cedere ai ricatti – così come non abbiamo mai ceduto Dario e io che abbiamo la fortuna di fare ciò che sentiamo necessario, e di farlo con lo stesso rigore».
Questo discorso mi porta alla mente l’autocensura che ormai pervade ogni campo, compreso quello del giornalismo perché anche laddove non è la censura esplicita della legislazione italiana o europea o la ‘legge’ dell’algoritmo che de-indicizza un pezzo, è il timore di perdere il lavoro – sempre più precario e sottopagato – che porta i giornalisti a trasformarsi da watchdog del potere in servili megafoni della narrazione mainstream – senza più capacità critica, anzi pedissequamente copiando veline scritte oltreoceano.
E lo stesso discorso può valere per chi – come le Compagnie teatrali – è sempre più dipendente dai capricci degli enti e della corrente politica di turno per ottenere quei finanziamenti senza i quali il teatro – ormai sempre più guscio vuoto o poltrona per la pelliccia e la manicure deambulante la domenica pomeriggio – fatica a rimanere aperto. Ancora una volta il discorso devia, quindi, da Pinter perché è Marconcini a spiegarci il tranello nel quale stanno cadendo, uno a uno, i suoi colleghi: «I piccoli teatri finanziati dai RAT (1), hanno l’obbligo di fare attività che vanno al di là del teatro e servono alle amministrazioni, che non hanno un ufficio culturale abbastanza attrezzato, per supplire a detta mancanza. Pian piano alcuni gruppi che lavorano in piccoli teatri toscani si sono trasformati in animatori in stile Club Méditerranée: vanno a lavorare nelle scuole, tengono corsi per bambini e amatoriali, si recano nelle Case di riposo, e così via. Queste sono tutte azioni lodevoli, ma delle quali dovrebbero farsi carico i Comuni e non costringere chi fa il mestiere teatrale a trasformarsi in animatore e l’attore o il regista in educatore!».
Ci confrontiamo a lungo su questo passaggio perché denota anche esigenze che mascherano secondi fini della politica in essere. Se da un lato, infatti, i Comuni così facendo risparmiano fondi che dovrebbero destinare alla scuola (a tempo pieno o al doposcuola), alle attività ludico-sociali, agli sport e all’assistenza – demandando sempre più al volontariato, al privato sociale o addirittura a chi non ha specifiche competenze e, per mestiere, dovrebbe e potrebbe fare altro (nessuno andrebbe mai a farsi operare da un chirurgo amatoriale…); dall’altro, è un modo perché la stessa classe politica – fingendo di interessarsi al welfare, all’educazione al teatro e alle arti e al coinvolgimento dei cittadini – con quei noiosi saggi scolastici di fine anno (a proposito, consigliamo una pubblicità di una nota marca di carta igienica), proposti però nei teatri e sotto i riflettori dei palcoscenici più blasonati, illudono adulti e bambini di avere capacità che latitano, e riescono a sventolare il tutto esaurito perché sia mai che genitori, fratelli e sorelle, e amici di famiglia non si rechino a vedere il principiante strimpellare, o il pargoletto ammorbare quanto il mattatore degli anni 50.
Ma il teatro educativo, partecipativo, non è professionismo e ce lo conferma anche Dario Marconcini: «Assolutamente no. E ci allontana altresì dal fare teatro – dalla creatività, dallo studio, dalla necessità artistica, dalla ricerca, dalla volontà di ideare nuovi linguaggi. Ed ecco perché il nostro Teatro, a Buti, nonostante la sua storia e il suo costante impegno e i riconoscimenti ottenuti, perde i finanziamenti. Perché non ottemperiamo ai diktat della Regione Toscana riguardo al nostro presunto ‘doveroso’ lavoro sul territorio».
E allora rituffiamoci nel fare teatro, in quel teatro che anche quando era borghese, mezzo secolo fa, poteva vantare professionisti della caratura di un Paolo Stoppa/Rina Morelli diretti da Luchino Visconti, un Umberto Orsini in stato di grazia, un Franco Branciaroli nei panni di Medea – che rendeva la parola/pietra di Ronconi, carne e sangue – o uno Strehler che, pur tradendo la scabrosità più urticante e politica di Brecht col suo realismo poetico, riusciva comunque a mettere in scena delle godibilissime versioni di L’opera da tre soldi o un lancinante Il giardino dei ciliegidi Čechov – immerso nel lucore abbacinante di Luciano Damiani. Con Giovanna e Marco ci chiediamo se c’era davvero bisogno di quelle scenografie, di quelle luci, di quei costumi. Per il rigore intransigente di Marconcini la risposta è negativa, mentre per Daddi sì: quando erano sinonimo di qualità e di mestiere nel senso più alto del termine. Era quel teatro borghese, mortale? Allora sicuramente vi era la necessità politica, etica ed estetica di andare oltre. Oggi, di fronte a un teatro che è solo intrattenimento o nomi di botteghino, ha forse ragione Daddi quando lo rimpiange.
Ma teatro è parola e necessità di quella parola, specifica, scavata in un dettato che si anima di pause che non sono solo silenzi. Ecco riaffiorare nel discorso Pinter: quel Notte, del 1969, che Dario e Giovanna hanno recitato immobili, come in Arlequin et sa compagne – il quadro di Pablo Picasso del 1901, in pieno Periodo Blu – senza guardarsi, senza sfiorarsi ma dove ogni parola (come per Straub) doveva essere più che utile, necessaria. Avere un peso. Un peso come lo ha il silenzio, che a volte ci separa anche se siamo fisicamente stretti come nell’abitacolo di una vettura, peggio di un muro. Soprattutto quando siamo vicini eppure lontanissimi. Come il respiro, che detta il ritmo della nostra vita, ma anche del nostro eloquio. E sono loro – Marconcini e Daddi – a spiegarci come si trasforma un apparente dialogo, un atto unico brevissimo, in un capolavoro che tocca le nostre corde più profonde perché risale all’archetipo, a quell’Eros e Thanatos da cui discende il nostro io frammentato, smozzato, spesso seppellito sotto strati di ipocrisia sociale.
È Giovanna a iniziare a raccontare: «Ieri c’erano qua dei ragazzi che stavano provando uno spettacolo e la ragazza stava leggendo… e leggeva bene. Ma non si appuntava sulla parola fondamentale della frase. Allora le ho detto: “Se togli questa, tutta la farse crolla. Questa è la parola fondamentale e questa va sottolineata”. Bisogna trovare, anzi bisogna ‘sentire’ – e qui Daddi sottolinea con il suo timbro inconfondibile – ogni parola. Ripetendo ogni frase, si sente dove appoggiare la voce, e così si cambia il senso stesso della frase». Ma il regista prima, spesso, deve tagliare – come facevano Straub e Huillet che suddividevano un testo “in blocchi che poi sceglievano” (di cui ci informa Marconcini in un suo breve approfondimento su Straub). «Il regista, come me con Ecuba, la cagna nera, si trova di fronte a un testo. In quel caso, una tragedia greca, ogni parola era già fondamentale, era difficile ravvisare parole inutili perché ognuna non era un passaggio verso la successiva, bensì era dotata di un senso profondo ed era già la sintesi di un pensiero, laddove il testo riportava a un’altra dimensione. In quel caso, quindi, il mio problema – al di là del condensare – è stato quello di chiedere a Giovanna di scandire, anzi direi di ‘scolpire’ ciascuna parola, perfino ciascuna lettera. Ogni emissione vocale doveva rendere viva la parola – al di là del suo senso politico o emozionale. Straub insegnava che occorre scandire addirittura ogni sillaba, e trovare un respiro – che di solito denominiamo pausa – ossia un soffio vitale, che può estendersi da uno a sei [secondi], in cui si deve ritrovare quel soffio vitale col quale ripartire nella frase successiva. Questi respiri animano ciò che stai dicendo e ogni frase non è mai inutile». Qui è Giovanna ad aggiungere un chiarimento: «Il respiro ti dà il ritmo, non il senso della frase. Ma quando pronuncio una parola devo cancellare dal mio vocabolario la psicologia. Non vi è re-citazione. Non dobbiamo chiederci quale sia il contenuto di quella parola o frase perché non è quello che dobbiamo trasmettere bensì un’onda ritmica che sale e scende tra una parola precisa, indispensabile, i respiri e le altre parole».
Tutto ciò è esattamente il contrario di quanto insegnano nella maggior parte delle scuole di recitazione dove impersonare significa ri-vivere (à la Stanislavskij). Solamente la regista Maria Grazia Cipriani mi ha restituito la medesima visione dell’attore. Ma in questo modo, soprattutto con Harold Pinter, Marconcini e Daddi riescono a ‘spezzare’ il ritmo del parlare consueto, che rende questo autore un naturalista/borghese, per restituirne una dimensione astratta, più umana e nel contempo straniata.
È Daddi ad aggiungere un ulteriori pezzo al puzzle: «Non so come ci riusciamo, ma sono consapevole che non devo interpretare un personaggio, che non devo recitare un testo» e chiude Marconcini: «Noi cerchiamo di vedere quello che diciamo e, avendo di fronte agli occhi queste visioni, possiamo permetterci delle interruzioni non-naturalistiche, delle sospensioni di pensiero e azione, che possono definirsi forme di straniamento, le quali ci permettono di risalire alla radice dell’enunciato, all’archetipo». Ma c’è anche un altro aspetto da approfondire, l’uso della terza persona… Curiosi?
Allora vi toccherà seguirci la settimana prossima, in cui entreremo ancora più profondamente nei Metodi Marconcini/Daddi e Straub/Huillet: due linguaggi teatrali apparentemente lontani e, al contrario, complementari.
(1) Per chi voglia approfondire: https://www.residenzeartistichetoscane.it/residenze/
venerdì, 15 novembre 2024
In copertina: Giovanna Daddi e Dario Marconcini in una foto di Paolo Foti, tratta dall’online Lo sguardo di Arlecchino