Homo homini lupus
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Partiamo da un presupposto. Questo viaggio alla scoperta di Rodolfo Siviero – il privato dell’uomo e il personaggio pubblico dedito per quarant’anni al recupero delle opere artistiche trafugate, prima dai nazisti, e poi tout-court – nasce non come spettacolo teatrale ma per una commissione pubblica quale mezzo promozionale per accompagnare i visitatori nella Casa-museo di Siviero a Firenze.
Indubbio quindi che manchi la dimensione scenografica, ossia gli spazi abitati e trasformati, dopo la morte del proprietario, prima, in museali e, poi, in trasposizione visiva e tridimensionale dei pensieri, dei ricordi, delle confessioni e dei voli pindarici del protagonista. Manca perciò un ritmo interno che sappia ricreare sul palco, oltre alle immagini, quei climax e anticlimax che mantengono desta l’attenzione dello spettatore dalla prima all’ultima parola.
In compenso, però, questo mix tra reading, recitato e musica dal vivo (una eccellente Annamaria Moro) ha diversi pregi.
In primis, la capacità di rendere un personaggio controverso, specchio dei tempi che visse, e dell’Italia che è tuttora, senza remore o retorica. Siviero fu fascista – tanto quanto Giulio Carlo Argan, Giorgio Morandi e Luigi Pirandello. Il coraggio di Eugenio Montale fu raro e il poeta sommo lo pagò, tra l’altro, con l’allontanamento dal Gabinetto Vieusseux. Siviero cambiò casacca, come gli italiani fanno sempre coi loro ‘amici’ – dai tedeschi a Gheddafi – e, d’un tratto, da informatore dei servizi segreti militari fascisti, si trasformò prima in collaboratore dei nuovi alleati e, poi, in servitore di quel sepolcro imbiancato che fu la burocrazia italiana, governata dalla democrazia cristiana (che, come raccontò Elio Petri in Todo Modo, aveva poco sia di cristiano sia di democratico).
Personaggio visceralmente acuto nelle pagine del diario (i passaggi migliori della parte reading), interpretato da un misurato Stefano Parigi, a tratti forse troppo monotono e lento nel dettato; vagamente bohémien quando cucina il risotto per l’ennesima amante di una notte (la ricetta è aneddoto particolarmente azzeccato poiché movimenta il racconto); ma nebuloso riguardo a quella notte dell’8 settembre 1943 che, tra la prostituta in carrozza e i nazisti in autoblindo, la madonnina perennemente incastonata e il vuoto pneumatico in cui fu abbandonata l’Italia da un Re e da un Governo pavidi e servili – che scapparono lasciando esercito e civili allo sbando – manca di presa. Non si raggiunge un climax e la narrazione non trascina – forse perché mancano le pagine del diario di Siviero, forse perché è troppo doloroso guardare al nostro recente passato che si ripete senza soluzione di continuità in infinite guerre, guerre perse da questo nostro popolo che dopo vent’anni in Afghanistan o aver gasato gli etiopi con l’iprite continua a considerarsi ‘brava gente’…
Intelligente l’inserzione dell’autore Marco Di Costanzo quale voce narrante, che abbatte la quarta parete e ci rende partecipi del dietro le quinte: come e perché è nato questo spettacolo, dove ha reperito i materiali, come ha scoperto l’uomo che ha lottato per quarant’anni contro la burocrazia dell’Italietta, il volto dietro la maschera dello 007 dell’arte, il latin lover, il doppio-giochista, il funambolo della comunicazione ante-litteram e il traffichino per sopravvivenza? Peccato che, col prosieguo del racconto, l’ironia scemi e il ritmo e il timbro tra narratore e personaggio si equiparino. Questa sera era però il debutto, quindi, ci sono ampie possibilità di miglioramento in affiatamento e brio.
A Siviero dobbiamo, comunque, di aver riportato in Italia tante opere d’arte (che sono scampate anche ai bombardamenti dei nuovi ‘alleati’ sulle città tedesche) di cui – come si racconta nello spettacolo – «non ci frega un bel niente». Del resto, come nel Mondo Nuovo di Aldous Huxley, è da quasi ottant’anni che nessuno più reclama: “Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato. […] Ebbene, sì. Io reclamo il diritto d’essere infelice”. Ormai ci basta la presentatrice tv che ci insegna a lavarci le manine e di sentirci buoni comprando il panettone della socialite, seguire Un posto al sole pedissequamente e sentirci smart-worker dotati di smart-phone in uno smart-world! Altro che bellezza e arte, è lo sviluppo senza progresso di pasoliniana memoria ad aver conquistato gli italiani!
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Cantiere Florida
via Pisana, 111/R – Firenze
mercoledì, 30 ottobre 2024, ore 21.00
Avrei preferito essere un gabbiano
di Marco Di Costanzo
liberamente ispirato agli scritti di e su Rodolfo Siviero
voce recitante Stefano Parigi
violoncello elettrico e voce Annamaria Moro
voce narrante Marco Di Costanzo
produzione Teatro dell’Elce
con il sostegno di Regione Toscana, Fondazione CR Firenze
residenza artistica Murate Art District
venerdì, 1° novembre 2024
In copertina: Foto fornita dall’Ufficio stampa del Teatro Cantiere Florida