Fa bene alla salute lavorare fino a 70 anni?
di Luciano Uggè (traduzione di Simona Maria Frigerio)
In molti negli ultimi anni hanno affermato che alzare l’età pensionabile non fosse solamente necessario per risanare le casse dell’Inps (che starebbero meglio se le pensioni fossero semplicemente erogate al netto, 1) ma anche perché, mantenendosi attivi, si vivrebbe più a lungo e in miglior salute (2) – come si legge anche nel Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema «Strategia europea per le persone anziane» (2023/C 349/06).
In effetti, in tale documento datato (ricordatevene) 12 luglio 2023, dopo una serie di articoli infarciti con la retorica dell’inclusione e dell’uguaglianza che, all’articolo 5.4.2.5., invita a “proporre misure per affrontare con soluzioni efficaci le forme multiple e intersezionali di discriminazione subite dalle persone in età avanzata, ad esempio i problemi incontrati dagli anziani con disabilità, LGBTIQ+, appartenenti a minoranze etniche e/o migranti” (con un vago retrosapore di calderone); all’articolo 5.6.1. prende ben altra direzione: “La sfida demografica che oggi abbiamo di fronte impone non solo di rimuovere gli ostacoli, ma anche di cogliere le opportunità, riguardanti l’inclusione delle persone anziane nel mercato del lavoro e il mantenimento in tale mercato di coloro che desiderano continuare a lavorare oltre l’età pensionabile” (in una Europa dove vi sono alti tassi di disoccupazione e in un’Italia dove quella giovanile raggiunge il 21,8%, secondo i dati Istat di gennaio 2024).
L’articolo 5.6.3.1. specifica addirittura che si debba: “valutare l’impatto delle deroghe basate sull’età previste dalle direttive sull’occupazione e sui salari minimi, proporre orientamenti per l’attuazione dei principi di uguaglianza riguardo all’età in materia di occupazione e, laddove necessario, individuare altri modi o specifici cambiamenti per migliorare l’attuazione delle direttive e impedire discriminazioni nei confronti delle persone anziane che desiderano rimanere sul mercato del lavoro” (più o meno a vita, sic!). Al 5.6.3.4. si invita a: “stimolare lo spirito imprenditoriale degli anziani valutando gli ostacoli che oggi si frappongono al suo sviluppo, come la perdita dei diritti pensionistici”; il 5.6.3.5. promuove “l’economia sociale” in quanto settore che può “offrire alle persone anziane nuove opportunità di occupazione e di iniziativa imprenditoriale”; il 5.6.3.6. (in una UE dove diventa sempre più difficile per le famiglie affrontare le spese per l’istruzione dei figli), intende “promuovere i programmi Erasmus+ e le tecnologie per l’apprendimento presso gli anziani”; e, infine, il 5.6.3.7. propone “misure volte a migliorare l’educazione finanziaria delle persone anziane, in modo da generare un possibile effetto di mobilitazione di risorse inattive e di miglioramento della competitività” (e ci si domanda cosa dovrebbero fare gli anziani che, spesso, già aiutano figli e nipoti a mantenersi; ovvero finanziare start-up o rischiare col mercato azionario, sullo stile Parmalat, o quello dei diamanti che è costato il posto in Banca d’Italia a un Carlo Bertini?).
Il CEPR aveva raccontato tutta un’altra storia…
Il Comitato di esperti per la politica della ricerca (CEPR), organo di consulenza del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca su VoxEU (il portale che pubblica le sue analisi economiche), a dicembre 2022, aveva dato parere diametralmente opposto.
In un articolo dedicato agli effetti della rimozione del pensionamento precoce sulla mortalità (3), i tre ricercatori (Cristina Bellés-Obrero, del Dipartimento di Economia dell’Università di Mannheim; Sergi Jiménez-Martín, cattedratico in economia sanitaria presso FEDEA (4); e Han Ye, sempre dell’Università di Mannheim) facevano letteralmente la ‘scoperta dell’acqua calda’ (con tutto il rispetto), ossia che: “La riforma pensionistica in Spagna… posticipando il pensionamento ha accresciuto la mortalità, specialmente tra i 60 e i 69 anni per i lavoratori poco qualificati, con lavori faticosi a livello fisico e psicologico”.
La soluzione?, visto che non siamo tutti politici, manager e personaggi televisivi incollati alla poltrona? Altrettanto scontata: “pensionamenti flessibili”. E teniamo conto che la ricerca, concentrandosi sul mondo del lavoro in Spagna considera il pensionamento a 65 anni, o a 61 per i disoccupati da oltre 6 mesi con almeno 30 anni di contributi (quando in Italia abbiamo già raggiunto i 67 e, per alcune categorie, i 72 anni).
Nei grafici riportati nella pubblicazione (3), emerge, in primis, che “l’8% degli individui che hanno iniziato a versare i contributi nel 1966 hanno lasciato il mercato del lavoro all’età di 60 anni, mentre questa percentuale tocca quasi lo 0 per coloro che hanno iniziato a versare i contributi nel 1967”. Anche le probabilità (con buona pace della retorica europea su inclusione e uguaglianza, ma anche investimenti e imprenditorialità degli anziani) di ottenere una pensione regolare “diminuiscono del 19%, mentre vi è un incremento nelle probabilità di ottenere una pensione parziale del 54%, e un incremento nelle probabilità di ottenere un assegno di disabilità del 19%. Ciò indica che gli individui utilizzano altri metodi per lasciare il mercato del lavoro in anticipo quando non esistono schemi di prepensionamento. Inoltre dimostriamo che i lavoratori hanno una maggiore probabilità di non fare richiesta di alcuna pensione, a causa principalmente della morte prematura”.
La ricerca prosegue oltre: “In secondo luogo, mostriamo l’opzione di una transizione graduale nel settore del pensionamento rispetto all’impatto sulla mortalità. Permettere ai lavoratori anziani di ridurre gradualmente il tempo di lavoro a fine carriera può mitigare gli effetti avversi sulla mortalità… Tale visione è rilevante anche per le politiche pubbliche e le considerazioni relative al budget, particolarmente quando i politici in molti Paesi affrontano problemi di solvibilità sul lungo periodo sia a livello di sistema pensionistico sia di sanità pubblica”.
Possiamo solo aggiungere che, in Italia, resta l’evidente incongruenza di quella partita di giro che è per l’Inps versare le pensioni al lordo così che lo Stato possa incassare la tassazione relativa (pratica che manda i conti del primo in tilt). Inoltre, con le pensioni di invalidità che cessano al compimento del 67° anno di età e il pensionamento a 67 anni per le pensioni di vecchiaia e per l’assegno sociale, e a 71 anni per la pensione di vecchiaia contributiva, probabilmente i dati dei lavoratori italiani sono peggiori di quelli spagnoli in fatto di mortalità.
Mentre di quale qualità di vita, possibilità di investimento o Erasmus, si possa parlare per un anziano che percepisce un assegno sociale, quando questo ammonta a un massimo di 460,28 euro (ed è soggetto al controllo del reddito personale annuo, per i cittadini non coniugati, e per i cittadini coniugati è ricalcolato al ribasso in base al reddito del coniuge), resta un enigma che non ci è stato possibile risolvere.
(1) https://www.inthenet.eu/2024/01/05/le-pensioni-causa-del-deficit/
(2)
(3) https://cepr.org/voxeu/columns/effect-removing-early-retirement-mortality
venerdì,18 ottobre 2024
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