Film-maker, scrittore, musicista e reporter: i tanti volti di un uomo coerente
di Simona Maria Frigerio
Riprendiamo la conversazione con Michelangelo Severgnini interrotta la settimana scorsa (https://www.inthenet.eu/2024/10/04/intervista-a-michelangelo-severgnini-da-tripoli-a-berlino).
Dopo aver affrontato il tema delle milizie di Tripoli e dei delicati equilibri che si stanno forse incrinando in Libia, affrontiamo l’argomento da un altro punto di vista, quello delle ingerenze straniere che hanno causato, prima, la caduta e l’omicidio del Colonnello Gheddafi e, poi, il sostegno occidentale a un Governo che i libici non hanno eletto.
La Turchia chiede di entrare nei Brics, e lei è appena tornato da quel Paese dove ha vissuto a lungo. Può essere questo un segnale di un suo riposizionamento in Libia e in Siria?
M.S.: «Ho appena trascorso una settimana a Istanbul e ho vissuto in Turchia per sei anni, oltre a parlare bene la lingua. Quindi, ho chiacchierato con un po’ di persone e la mia sensazione è che Erdoğan non agisca spinto da un qualche ideale, quanto perché il Paese è a rischio. Sarà perché l’Europa ha frenato il suo ingresso nella UE, sarà perché ha anche rallentato gli scambi commerciali, saranno alcune avventure militari – come quella libica – che non stanno andando benissimo… ma l’economia del Paese va male. Non a caso, il suo partito ha perso le elezioni locali di qualche mese fa. Certamente Erdoğan ha mezzi per reprimere il malcontento ma è anche obbligato a dare una risposta economica positiva al suo popolo visto che la sua politica è sempre stata di tipo assistenzialista. Quindi, la mia idea è che, avendo la Turchia una posizione geo-strategica importante, si stia aprendo ai Brics per continuare a giocare su due tavoli: è un modo per avvertire l’Europa così da farsi dare degli aiuti, ma anche per ottenere qualcosa dagli stessi Brics. Non credo sia in vista davvero un’adesione della Turchia ai Brics, dato che è un Paese della Nato. Ma per tornare alla Libia, il game changer potrebbe essere che la Turchia si faccia da parte, il che causerebbe la caduta quasi immediata di Tripoli. Quindi, la domanda che mi sto facendo è: quale regalo potrà fargli il Presidente Putin per convincerlo a lasciare il Paese?».
Perché l’Occidente è tanto ostile al Governo di Bengasi? Capiamo il suo discorso sul petrolio e gli interessi italiani. Ma l’Onu non dovrebbe essere super partes?
M.S.: «L’idea che mi sono fatto è che noi pensiamo all’Onu come a un padre saggio che, a un certo punto, interviene e fa la cosa giusta. In realtà le Nazioni Unite, metaforicamente parlando, sono come un autobus: sta fermo in stazione, se vuoi ci sali su e fai un pezzo di tragitto ben accomodato, poi scendi, lo affitti, e questo va da una parte all’altra a seconda di chi lo guida e chi vi sale. Fuor di retorica, nella missione Onu in Libia sono ‘saliti’ i membri della Nato. E questo non lo dico io, ma è denunciato dagli stessi libici e, in Libia, non a caso, nessuno ha più fiducia nell’Onu perché è diventato una sorta di organo di occupazione, come la Kfor in Kosovo (1). La missione delle Nazioni Unite non essendo di ‘forza’ ma soltanto di ‘appoggio’, e non avendo, quindi, i caschi bianchi a disposizione, si è praticamente affidata alle milizie – che hanno fatto il ‘lavoro sporco’. Ovviamente la missione è presidiata soprattutto dagli Stati Uniti. Tanto è vero che da quando ha dato le dimissioni Abdoulaye Bathily, inviato delle Nazioni Unite in Libia, la missione è rimasta vacante. E chi potrebbe farne le veci? Un diplomatico statunitense, Stephanie Khoury. Bathily, vorrei aggiungere, è un politico senegalese, probabilmente scelto per dare una parvenza di vicinanza con il popolo libico ma che, in realtà, è filo-americano (come mi hanno confermato i suoi connazionali, quando mi sono recato in Senegal l’anno scorso). Alla fine si è dimesso per le pressioni che riceveva dai partiti politici libici ma non ha specificato di essere stato lui a – diciamo – ‘imbrogliare le carte’ e a impedire le elezioni. I libici percepiscono la missione Onu come una forza occupante. Queste, almeno, sono le dichiarazioni di partiti e personaggi politici libici che leggo costantemente».
Se ci fossero le elezioni oggi, in Libia, secondo lei chi vincerebbe?
M.S.: «I sondaggi sono chiarissimi: sin da dicembre 2021, quando il figlio di Gheddafi (2) è tornato in pista. Lui concorrerebbe come Presidente e appare addirittura scontato che sarebbe eletto. Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, la posizione gheddafiana al momento non è chiara per tanti motivi. Sia perché c’è una frammentazione partitica, sia perché il leader non è ancora davvero sceso in campo e sia perché alcuni politici che appartengono al clan di Gheddafi, recentemente, sono stati perquisiti e alcuni arrestati. Bisogna capire che i gheddafiani riscuotono il consenso popolare ma, al momento, non hanno potere in quanto alle elezioni del 2014 non scesero in campo. E infatti, quelli entrati in Parlamento e ancora presenti a Bengasi e quelli che hanno fatto parte dell’esercito di Haftar non sono che in minima parte gheddafiani. Quindi, sulla struttura di potere oggi presente a Bengasi hanno poca presa e l’unico modo per arrivare al potere sarà indire le elezioni, ove otterrebbero probabilmente il voto della maggioranza dei libici. Riguardo al Parlamento, l’unica cosa che mi sento di dire è che probabilmente scompariranno i membri legati alla Fratellanza Musulmana, che stanno perdendo consensi anche in altri Paesi – come la Tunisia. Infine va detto che non è ancora chiaro come si andrà a votare dato che la questione costituzionale è tuttora aperta. Quindi, per prima cosa si dovranno decidere i meccanismi di voto e l’attribuzione dei poteri del Presidente e del Parlamento. Credo, però, che finché non ci sarà una Libia unita militarmente, le elezioni non si terranno».
Il Presidente Putin e il multipolarismo stanno ridisegnando il mondo. A Berlino ha visto un’Europa più AdF o BSW, ovvero sempre più a destra o con la speranza di una vera sinistra?
M.S.: «Berlino è, innanzi tutto, una bolla. Rispetto all’area circostante e alle province dell’ex Germania dell’Est lo era; ed è sempre di più diventata una bolla, dove sono stati investiti ingenti capitali negli ultimi venti o trent’anni (3). Nonostante ciò, rispetto agli anni in cui ho vissuto a Berlino, ossia dal 2015 al 2017, ho percepito delle differenze da quell’onda lunga della guerra in Siria che, a livello sociale e politico, azzerava le voci contrastanti e addirittura causava una militarizzazione del dibattito pubblico – che è la stessa che noi, oggi, stiamo sperimentando sull’Ucraina. Ovvero, Assad era come Putin oggi e non vi era alcuna possibilità di discussione. Nei giorni scorsi, però, mi sono accorto che le cose sono cambiate. Non solo adesso, grazie a Sahra Wagenknecht, si riesce a far sentire voci fuori dal coro ma anche grazie al fatto che lei, da anni, costruisce un’alternativa, le si è formata intorno una schiera di intellettuali e politici che si stanno facendo valere. Ho avuto modo anche di incontrare uno di loro e mi sono accorto che ciò che lamentavo essere assente nei miei anni berlinesi era, in realtà, già presente: un fuoco che covava sotto le ceneri. Fuori dalla bolla berlinese va anche meglio. Si noti che queste persone con qualcosa da dire hanno tra i 40 e i 50 anni e sicuramente hanno percorso un pezzo della loro esistenza nella DDR. Questo si avverte nell’impostazione e nel modo di affrontare i vari argomenti e, soprattutto, di sviluppare i ragionamenti. Il dubbio che mi sono posto è se la BSW emergerà come un partito nostalgico che potrà avere un appeal soltanto in quel tipo di elettorato, mentre all’Ovest non avrà futuro. Questa è la partita che si sta giocando. Se è vero che i suoi membri hanno un certo background culturale e politico, è altrettanto vero che vi sono rappresentate anche le nuove generazioni. È all’Ovest dove occorrerà vincere la scommessa di presentare questo nuovo percorso politico. Non a caso, alle elezioni in Brandeburgo dello scorso weekend, hanno superato l’ex partito della Merkel diventando addirittura il terzo partito (4)».
Sahra Wagenknecht in Germania, Jean-Luc Mélenchon in Francia, Jeremy Corbyn nel Regno Unito. E in Italia?
M.S.: «In Italia è un disastro! Abbiamo avuto persone non all’altezza del momento storico – e mi riferisco a questi ultimi tre, quattro anni. Mi chiedo anche se non siano stati commessi errori perché dietro ai potenziali leader di quest’area c’erano anime che avevano radici al di fuori di una rappresentazione del dissenso e, quindi, il bacino del dissenso è stato considerato più che altro un territorio di caccia. Nessuno ha pensato di prendere seriamente in considerazione le esigenze di quest’area ma, al contrario, si è presentato solamente per cercare voti. Questo significa che le persone non erano all’altezza del compito. Speriamo che qualcosa di nuovo emerga ma, al momento, siamo inesistenti. E questo discorso, del resto, si può estendere a tutta la cittadinanza italiana. Me ne sono accorto durante il periodo a Istanbul e a Berlino. La nostra immagine come Paese e la nostra politica sono troppo condizionate dalle lobby e da poteri sovranazionali e non c’è più margine. Il nostro ormai è un Paese rassegnato a quest’orgia finale di potere e poi… vada come vada!».
L’ultima domanda è artistica. Dopo la proiezione de L’Urlo a Berlino è stato a Istanbul per registrare un nuovo album. Docu-filmaker, giornalista, musicista, romanziere – in quale veste si sente più a suo agio?
M.S.: «A me è sempre piaciuto scrivere, sia reportage sia fiction. La passione per la musica è nata quando ero adolescente. Devo dire che tutti questi interessi non sono facili da conciliare dal punto di vista temporale perché quando mi dedico a un disco è difficile che riesca a scrivere. Sono mondi che coltivo parallelamente e il massimo l’ho raggiunto quando sono riuscito a conciliarli – magari scrivendo le musiche per i miei film. Per esempio, L’Urlo è stato uno di questi momenti. Inoltre sono lenti diverse attraverso le quali leggere la realtà. Mi spiego meglio. Adesso che sono tornato a Berlino e a Istanbul, dove ho vissuto, ho incontrato alcuni musicisti che, ovviamente, suonano influenzati anche dalla vita e dalla politica che gli sta intorno – perché ognuno lavora e si muove in un certo contesto, anche musicale. Poi, la magia non sempre si crea e quando si mettono insieme tanti ingredienti la speranza è quella di trasformarli in arte. Perché un conto è fare un reportage e usare il linguaggio della logica e del giudizio critico e un altro buttarsi nel vasto mare della creatività.
(1) La Kosovo Force (Kfor) è nata come missione Nato per il rispetto degli accordi di cessate il fuoco tra Macedonia, Serbia e Albania. Il compito attuale della missione, che è costituita da circa 15.700 militari (come da documentazione ufficiale in rete), è quello di svolgere un’azione di “presenza e deterrenza che mantenga un ambiente sicuro e che impedisca il ricorso alla violenza. Nello specifico, i militari della KFOR effettuano il controllo dei confini tra il Kosovo e la Serbia”. In Kosovo è altresì presente la base militare statunitense di Bondsteel, definita nel 1999 come la “più grande base militare americana d’Oltremare dalla guerra del Vietnam”: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kossovo-Camp-Bondsteel-ed-il-petrolio-del-Mar-Caspio-21104
(2) Uno dei suoi otto figli, per la precisione Saif al-Islam al-Gheddafi
(3) Un’analisi delle ultime votazioni in Germania: https://www.inthenet.eu/2024/09/13/se-sostieni-azov-non-pretendere-un-firewall-contro-afd/
(4) Elezioni regionali in Brandeburgo: Spd al 30,9%, Afd al 29,4%, Sahra Wagenknecht al 13,4%, Cdu all’11,6%, restano fuori Verdi e Die Linke, che non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%, oltre ai liberali che non hanno raggiunto nemmeno l’1%
venerdì, 11 ottobre 2024
In copertina: L’Urlo, il film. Particolare della Locandina (reperita in rete)