Intervista a un poeta del teatro di figura
di Simona Maria Frigerio
Abbiamo assistito al suo ultimo spettacolo durante Kilowatt Festival 2024 (1) e siamo rimasti colpiti dalla capacità di Luca Salata di ricreare con oggetti di uso quotidiano l’atmosfera rarefatta delle profondità oceaniche, che sette spettatori alla volta sperimentano in sua compagnia all’interno di una roulotte – trasformata in una specie di batiscafo. Ma anche della sua abilità di costruire uno spettacolo che, con poesia e umanità, autoironia e doti mimiche affronta una tematica importante come quella delle migrazioni e dei tanti morti e dispersi nel Mar Mediterraneo (argomento che affrontiamo su questo stesso numero anche con Michelangelo Severgnini da un punto di vista giornalistico).
Per questo abbiamo pensato di chiamare Luca Salata. Per parlare del ruolo del teatro di strada, oggi, e di quello del teatro tout-court che, se non è specchio del presente, e se non nasce da una reale esigenza creativa finisce con l’isterilirsi e attrarre solo quel pubblico, sempre più esiguo, che va a teatro a confermare le proprie certezze o a credersi ‘intelligente’. Ma la prima domanda, ovviamente, non poteva che essere sul perché e come è nata la Compagnia Samovar.
Luca Salata: «Premessa: io non mi sono formato in una scuola o in un’accademia, ma ho fatto una lunga gavetta con un attore legato alla clownerie, in una compagnia di teatro di strada e, poi, mettendomi alla prova come tecnico, letteralmente ‘uomo di fatica’ e attore. Sono cresciuto professionalmente sperimentando tanti ruoli ma, soprattutto, frequentando festival e rassegne, dove ho assistito a molti spettacoli anche di compagnie straniere. Dopo circa cinque o sei anni di questa vita mi sono trasferito in Romania, dove ho lavorato per un anno con i bambini, prevalentemente di etnia Rom, nelle scuole della periferia di Bucarest e lì ho tenuto dei corsi di clownerie per bambini. Tornato in Italia, con mio fratello Davide che, nel frattempo, si era laureato al Conservatorio in sassofono, abbiamo deciso di ideare uno spettacolo di teatro di strada legato sia alla musica balcanica sia alla clownerie. Nel 2011, quindi, è nata la Compagnia Samovar, che ha cominciato a girare principalmente nei Festival di teatro di strada. Nel tempo, poi, abbiamo allargato le nostre conoscenze, facendo anche corsi in ambito circense, con il teatro di figura, e siamo arrivati, passo dopo passo, fino a Officina Oceanografica Sentimentale».
A Kilowatt 2024 è giunto da solo, su una roulotte; ma l’esperienza del Teatro ambulante l’avevate già fatta con un autocarro trasformato in Sala teatrale per lo spettacolo Contrappunto. Cosa si ricorda di quel primo esperimento?
L.S.: «La parola esatta è ‘esperimento’. Un esperimento nato anche grazie a vari incontri avuti nel corso degli anni e, in particolare, con le compagnie Girovago e Rondella (2) e Dromosofista (3) – le quali, in Italia, sono forse le uniche che girano con un autobus e un camion e fanno i loro spettacoli all’interno di tali mezzi di trasporto. Grazie a loro e al fatto che, nel frattempo, Davide e io ci eravamo legati al mondo del circo, nacque in noi l’idea di avere finalmente uno spazio dove fare spettacolo. Però, il tendone – per Samovar – era troppo grande e difficile da gestire, dato che la Compagnia è formata solamente da due persone, Davide e me. A questo punto ebbi l’idea di trovare un mezzo più piccolo, un camion – per capirci – che di solito si usa nei marcati. Nel cassone ricreammo, poi, una sala teatrale per circa 40 persone, al chiuso, con gradinata, palco, luci e la nostra scenografia per rappresentare Contrappunto, uno spettacolo che coniuga teatro di figura, clownerie e musica».
Suo fratello e lei avete organizzato per anni il Festival CircuSpring a Trento. Qual era la risposta del pubblico?
L.S.: «Abbiamo presentato cinque edizioni, dal 2015 al 2019, fino all’arrivo della Covid. Per prima cosa occorreva trovare artisti e compagnie che avessero un tendone da circo, che invitavamo a montare in un parco di Trento, nel quale facevamo, poi, per dieci giorni spettacoli di vario genere, spaziando, e presentando anche concerti. L’esperienza a livello di pubblico è stata molto positiva e abbiamo sempre registrato il sold out. Con l’arrivo della pandemia, però, abbiamo dovuto sospenderla. Abbiamo riproposto una piccola edizione nel 2023 di quattro giorni più centrata sul teatro di figura e la clownerie e, difatti, io vi ho debuttato con il mio nuovo spettacolo – che avete visto a Kilowatt quest’anno. Dopodiché penso che CircuSpring sia un’esperienza conclusa. In parte perché il nostro obiettivo come Compagnia è di creare e portare in giro i nostri spettacoli, mentre l’organizzazione del Festival richiedeva molto tempo ed energie, anche e soprattutto per la gestione burocratica – dato che non abbiamo avuto molti aiuti dalla città di Trento. Ma va anche detto che lo organizzavamo insieme alla Scuola di Circo di Trento, la quale propone due suoi festival, ovviamente con modalità diverse da quelle sperimentate con noi a suo tempo».
L’esperienza in Romania e l’amore per le musiche balcaniche – rese famose in tutto il mondo da Underground di Emir Kusturica – come vi hanno influenzati?
L.S.: «Faccio una premessa: noi non siamo di origine rumena – come alcuni sostengono. Non che avrei qualcosa in contrario, ma Davide e io siamo di Brescia e, poi, ci siamo trasferiti in Trentino. Va detto, però, che il primo spettacolo che feci con Davide, Mic Circ Fraţilor, aveva un titolo rumeno e io parlavo in entrambe le lingue – anche se non ho imparato perfettamente il rumeno nell’anno che ho vissuto lì. Comunque, mi fa piacere aggiungere che, quando portavamo in giro lo spettacolo, se c’erano dei rumeni presenti in sala, poi venivano a chiedermi di dove fossi…».
Suo fratello ha più una formazione musicale, lei teatrale e in scenografia. Davide ha in qualche modo collaborato a Officina Oceanografica Sentimentale?
L.S.: «Davide non ha collaborato dal punto di vista musicale, dato che i due brani presenti nello spettacolo non sono stati composti da lui ma mi ha aiutato nella fase delle prove: è stato il mio occhio esterno, oltre al fatto che mi ha consigliato di usare un tappeto sonoro, costantemente, durante lo spettacolo. Vorrei anche aggiungere che è stato lui a spingermi a farlo da solo, dato che io – a un certo punto – gli avevo proposto di sedersi in un angolo ed eseguire le musiche e fare la rumoristica dal vivo. Ma lui mi ha spronato a lavorare da solo perché così avrebbe funzionato. E difatti, vista anche l’esiguità dello spazio, forse due interpreti in scena sarebbero stati troppi».
Tutti i marchingegni che mette in moto sono costruiti da lei. Come è riuscito a trasformare una spatola in un pesciolino? E quanto tempo le ci è voluto per sviluppare e realizzare praticamente un progetto così complesso?
L.S.: «La gestazione dello spettacolo è stata lunga perché non sono partito da un’idea precisa. In realtà, lo definirei un puzzle. Non ho creato gli oggetti appositamente per Officina Oceanografica Sentimentale. Direi che, al contrario, è stato lo spettacolo a modellarsi sugli oggetti e su alcune immagini e idee forti. L’unica cosa buona, penso, della Covid è stata quella di regalarmi il tempo per rinchiudermi nel mio laboratorio e costruire i miei oggetti – ivi compresi alcuni che non ho utilizzato nello spettacolo. Dopodiché, a me piace molto usare i cassetti, e da lì sono partito per creare dei piccoli quadri in movimento. Quindi, mi sono posto di fronte a questo banco da lavoro che uso per costruire, ho visto le spatole e immediatamente è nata in me un’immagine in movimento. Da quel pesciolino è partito un processo creativo che mi ha condotto a idearne degli altri, poi ho inventato l’effetto a catena con le biglie – anche perché mi piacciono molto le macchine di Goldberg (4). A seguire, ho trovato fortuitamente una roulotte e ho capito che gli oggetti che stavo fabbricando potevano essere visti dagli spettatori solo all’interno di uno spazio piccolo. Quindi, ho svuotato e riarredato la roulotte e, pian piano, mi sono avvicinato al mio obiettivo che era fare uno spettacolo sulla questione dei migranti, dedicato ai morti in mare. Certamente, usando poco le parole, nei miei spettacoli è difficile introdurvi dei temi, però credo che la figura del clown può e deve farlo. Da Charles Chaplin in poi abbiamo apprezzato la capacità di tale figura di raccontare il mondo. E infine ho scelto, tra alcune poesie, quella di Erri De Luca, che si ascolta alla fine. Direi che l’unico oggetto che ho costruito appositamente per lo spettacolo, e per il quale ho dovuto anche studiare su come progettarlo e farlo funzionare, è stato la scatola con le onde – che mi era indispensabile per restituire una certa immagine. Del resto, lo spettacolo è leggero e, a tratti, anche poetico ma nel finale volevo che irrompesse la realtà. L’ultima cosa che è successa per caso è che, mentre finivo di allestire la roulotte e pensavo di fare una piccola gradinata per ospitare 12 o 13 persone, un amico mi ha informato che stavano demolendo una sala cinematografica di una casa di riposo. A quel punto mi sono recato sul posto, ho prese 4 o 5 sedute perché mi sembravano perfette e, a quel punto, ho fatto la scelta di ridurre il numero degli spettatori a replica».
Pensa che il teatro di strada, in tempi in cui il teatro in sala è sempre più borghese o autoreferenziale, possa riportare le persone ad appassionarsi a quest’arte antica ma anche a confrontarsi con la realtà?
L.S.: «Spesso quando si pensa al teatro di strada, si pensa ai festival dei busker (5), legati generalmente alla giocoleria, al divertimento. Ma quando mio fratello e io pensavamo al nostro camion/teatro ambulante, ci venivano in mente i carri di Tespi, e quelle compagnie che giravano col proprio carro e col proprio teatro nelle piazze delle varie città. Non va dimenticato che anche il circo contemporaneo non presenta più solo i numeri acrobatici, ma punta su una drammaturgia e affronta tematiche contemporanee. Quindi, il pubblico entra nel tendone pensando di assistere a delle acrobazie ma si trova di fronte anche a delle riflessioni. Per me, questo è fondamentale. Per quanto ci riguarda, come Samovar, direi che ci siamo ridotti davvero all’osso ma è molto emozionante lavorare così vicino alle persone perché il coinvolgimento è inevitabile. Dopodiché, ogni spettatore porta via con sé ciò che vuole. Ovviamente, c’è un messaggio ma non è l’unico. Posso solo aggiungere che alcuni spettatori mi hanno riferito che pensavano che io raccogliessi le anime delle persone morte in mare, quando prendevo in mano le biglie… mi piace che ogni spettatore abbia la libertà di accogliere – o meno – un messaggio tramite la propria fantasia, che si sprigiona in questa specie di bolla che ricreo per pochi minuti. E chiuderei aggiungendo che attraverso il teatro di strada, a volte, si lanciano molti più messaggi che non attraverso il teatro tradizionale di parola il quale, spesso, è più freddo o scollato dalla realtà che stiamo vivendo».
(1) La recensione dello spettacolo: https://www.inthenet.eu/2024/07/26/officina-oceanografica-sentimentale-femenine-f-u-s-fottuti-utopisti-e-sognatori/
(2) https://www.girovagoerondella.com/storia-della-compagnia.html
(3) https://www.artistiinpiazza.com/artisti/2023/scheda/compagnia-dromosofista–teatri-mobili-/
(4) Le macchine di Rube Goldberg sono “meccanismi che impiegano una quantità di risorse sproporzionata rispetto al risultato da conseguire” (pensiamo alla sigla iniziale di Elementary)
(5) I buskers generalmente offrono spettacoli intrattenimento in strada richiedendo una piccola offerta al pubblico, raccolta nel ‘cappello’
venerdì, 4 ottobre 2024
In copertina: Luca Salata in una scena dello spettacolo. Foto di Elisa Vettori (gentilmente fornita dall’intervistato)