Dietro le quinte con la donna che ha inventato la regia post-moderna italiana
di Simona Maria Frigerio
La regia, teatrale come cinematografica, è sempre stata appannaggio del genere maschile. Come posizione di potere ed esercizio di potere è rientrata tra quelle attività in cui le donne hanno giocato un ruolo di secondo piano almeno fino agli anni 80 del Novecento – quando Maria Grazia Cipriani (indubbiamente fra le prime, se non la prima in assoluto) ha rotto l’ennesimo soffitto di vetro – come disse Marilyn Loden.
Oggi, sebbene ancora poche, le registe italiane che calcano i palcoscenici ci sono. In primis la talentuosa Simona Gonella, che abbiamo recentemente applaudito in un magistrale Zio Vanja (1); e poi Anna Dora Dorno di Instabili Vaganti, Licia Lanera (già Fibre Parallele) e Daniela Francesconi Nicolò dei Motus.
Ma Cipriani non ha solamente aperto la strada alle altre donne, ha creato un suo metodo di lavoro, unico e originale, che le ha permesso di costruire spettacoli che vanno oltre la parola e travalicano i generi – dal mito alla tragedia fino alla fiaba rivisitata. Un universo onirico – insieme crudele e politico (nel senso più nobile del termine) – in cui i suoi interpreti, per dare il meglio di sé, si sono trasformati in archetipi, in grado di esprimersi anche facendo cadere un coltello (quello col quale Amleto ha appena ucciso Polonio) in un determinato modo. Ecco perché abbiamo deciso di incontrarla nuovamente (2), per lasciare in uno scritto alcuni sottili fili del suo intessere un universo creativo, attraverso un metodo – che non ha nulla da invidiare a quelli che ci hanno trasmesso uno Stanislavskij o un Brecht.
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Maria Grazia mi riceve nella sua bella dimora di campagna, protetta e protettiva, aggraziata e vibrante di arte com’è lei. Mi parla di bellezza, di piccole cose, di frammenti di vita, di femminile, di Palestina e di bambini in guerra. Solo dopo un’ora iniziamo l’intervista perché è piacevolissimo ascoltarla solo per farsi accarezzare dalla sua voce.
La prima suggestione è d’obbligo: come nacque Biancaneve, quel primo spettacolo che la fece balzare immediatamente alle cronache? Correva l’anno 1983 e Maria Grazia fino ad allora aveva tenuto dei laboratori per attori ma, dopo un intervento chirurgico che ebbe anche delle complicanze, insieme a Graziano Gregori (che sarà scenografo e costumista del Teatro del Carretto per vent’anni) decise di creare un’Associazione: «e trasformare la passione comune per il teatro in una professione». Ma da dove cominciare? Maria Grazia era anche una mamma e, a quel tempo, raccontava alla figlia delle fiabe per farla addormentare. Una, in particolare, Biancaneve – perché ai bambini piace sentir ripetere le favole fino allo sfinimento dei genitori.
Come regista Cipriani non era interessata alla costruzione del personaggio/persona (era distante anni luce da Stanislavskij) bensì all’archetipo, quindi all’immagine, all’essenza primordiale contenuta nell’inconscio collettivo. Perché, quindi, non iniziare da quel testo dei fratelli Grimm, che discendeva direttamente dal folklore popolare?
Maria Grazia mi guarda e ammette di non saper fermare nemmeno un bottone eppure ci mise impegno per «cucire l’abito di Biancaneve, mentre i nani si moltiplicavano… perché a seconda della distanza, dovevano avere grandezze diverse!». Per chi non abbia mai visto lo spettacolo, spieghiamo che vi sono diversi piani sui quali si muovono i personaggi. Vi sono i nani a grandezza naturale che arrivano a sorpresa dalla platea per diventare piccolissimi una volta entrati nella dimensione metateatrale del teatro dei burattini – un coup de théâtre che fa immediatamente presa sul pubblico, sia infantile sia adulto. In carne e ossa o oggetti lillipuziani? Reali o imago del nostro inconscio, di una infanzia in cui anche la matrigna cattiva deve avere il suo ruolo – come il lupo di Cappuccetto Rosso – per esorcizzare le nostre paure di bambini? Ride, oggi, Maria Grazia sotto un cielo azzurrino di fine agosto, chiedendomi: «Sai di che colore era la gonna di Biancaneve? Rosa! Ma adesso è grigia…» e quando le chiedo perché, mi risponde: «Perché non è mai stata lavata!». Maria Grazia è così: candidamente sincera e molto auto-ironica.
Poi ricorda come fu difficile ma anche emozionante quel periodo: «Dovetti chiedere ai miei collaboratori di lavorare gratis. Non avevamo soldi. Ma promisi che se lo spettacolo avesse avuto successo, sarebbero stati tutti ricompensati. E così fu». Questo perché Biancaneve divenne immediatamente un successo che da allora ha girato il mondo. Un gioiello in miniatura nel quale, in nuce, si potevano già ammirare tutte le peculiarità dell’arte del Carretto, ma Maria Grazia sorride e ammette: «Quando lo vidi realizzato pensai: “questo o è un piccolo capolavoro o è una grande schifezza!”». Nel giro di alcuni mesi, lo spettacolo fu visto: «dalla direttrice del Festival di Avignone; da Marie-Noelle Colette, direttrice del Festival d’Automne; e se non ricordo male dal regista Antoine Vitez. Lo volevano tutti! Ma io optai per il Festival d’Autumne, che ci assicurava una lunga tenuta al Théâtre de Chaillot e la possibilità di ricompensare finalmente tutti i collaboratori».
E a questo punto ci fermiamo perché occorre muoverci. Il sole sta per tramontare ma fa ancora caldo. Ci spostiamo di qualche metro in un giardino che ha la magia dei chiostri: silenzioso e quieto, raccolto e intimo.
Cosa avrebbe fatto un’altra regista che aveva colpito nel segno se non ripetersi?, penso, e le propongo la domanda: «Non io! Avrei dovuto fare Cenerentola? Non mi sarei mica divertita! Il teatro è scoperta, ricerca, mettersi continuamente in discussione. Ecco perché passai da Biancaneve a Romeo e Giulietta, dalla miniatura all’imponenza scenografica, dalla fiaba alla tragedia shakespeariana che, per me, era l’apoteosi dell’amore. E mentre lo stavamo ancora mettendo a punto, in una Chiesa, ricordo che venne a vedere il lavoro Paolo Radaelli, direttamente dal Festival di Spoleto. Anni prima aveva prodotto L’Orlando Furioso di Luca Ronconi e mi chiese di proporgli un titolo da far debuttare a Spoleto e io, di getto, gli risposi Iliade!» (3). Maria Grazia sorride ricordando: «Lui ci chiese se fossimo consapevoli di quello che gli stavamo proponendo e noi, anche un po’ ingenuamente, rispondemmo di sì». Ma Radaelli non accettò immediatamente, al contrario: «No, no: Iliade… non c’è mai riuscito nessuno! Pensate a qualche altra cosa e ci si risente tra qualche giorno». Ma quando Radelli richiamò Maria Grazia le disse, inaspettatamente: «Penso che voi possiate farlo». Correva l’anno 1988.
Pausa. È il momento di capire come Maria Grazia trasponeva un testo classico, uno scritto preciso con puntuale descrizione di personaggi/psicologie e azioni, in un adattamento drammaturgico. Qual era il suo metodo di lavoro in questa prima, importantissima fase? Da quanto capisco era molto simile a quello di un perfezionista del cinema quale fu Alfred Hitchcock, ossia nella sua mente le parole si trasformavano in scene tridimensionali, nelle quali – solo in un secondo tempo – si sarebbero svolte delle azioni precise. Ma Maria Grazia, a differenza del maestro del thriller, ammette di non saper disegnare, e allora ecco l’intervento di Graziano Gregori, la seconda anima del Carretto, che trasformava queste visioni in bozzetti (di cui parleremo ancora, più avanti). Lo storyboard è l’ossatura di ogni spettacolo del Teatro del Carretto. E ogni scena deve rispondere a una ricerca dell’essenza stessa dell’opera che va al di là della parola.
La seconda fase era costituita dall’improvvisazione, il lavoro con gli interpreti per cogliere, appunto, l’essenza del testo, in piena fedeltà all’autore, ma senza essere schiavi della parola o dell’immedesimazione. Mi fa l’esempio di Amleto: «Io volevo che l’interprete si liberasse del pugnale come di un qualcosa che gli si fosse incollato alla mano» e ricorda dei problemi che ebbe con un sostituto per spiegargli questo passaggio. Non è stato sempre facile per lei, donna – persino minuta – imporre la sua visione e, quella volta, di fronte alla risposta sgarbata e violenta dell’attore, dovette uscire dalla sala prove per calmarsi. Ma Maria Grazia sapeva e sa cosa vuole: la matrigna è un archetipo, così come lo è il personaggio tragico o l’eroe del mito – sia esso Ettore o Ulisse – non le è mai interessato il personaggio/persona. In Sogno di una notte di mezza estate: «Non ero affascinata dalle presunte psicologie di Ermia, Elena, Lisandro e Demetrio ma da cosa rappresentavano. L’erotismo, la confusione, il perdersi e il ritrovarsi: tutti temi archetipici che paiono semplici – se descritti a parole – ma sono difficile da tradurre in scena con azioni e gesti» che non scadano nella retorica.
Fin qui ho capito una cosa, che mi ribadisce anche Maria Grazia: «Si ha paura e, al contrario, occorre avere coraggio, il coraggio di provare, di sperimentare. Se voglio, posso fare teatro anche usando delle scatolette, sarà teatro di figura perché tale lo definiamo, ma è già più teatro di un video! E il teatro deve essere pancia e testa, poesia e scurrilità, alto e basso – com’era in Shakespeare. Ma soprattutto non è mai una sola componente, bensì un’opera complessa: è musica, rumori, scene, costumi, movimenti, azioni, e tanto altro…».
E qui ci salutiamo, all’ora del tramonto, con la promessa di rivederci presto.
Ci sono gli storyboard di Graziano Gregori che mi serviranno per comprendere meglio l’adattamento drammaturgico di Maria Grazia; e poi devo capire come riusciva a trasformare la parola in spazio scenico, la bidimensionalità della scrittura in tridimensionalità animata. Dobbiamo approfondire il discorso sull’improvvisazione e il suo rapporto con il sound designer Hubert Westkemper: quanto contavano le musiche – pensiamo al Bolero di Ravel in Ultimo Chisciotte – o la rumoristica – quel riso crudele degli dei/bambini in Iliade? O le vocine peevish dei ministri di Caligola. Underdog/Upset? L’ultimo lavoro per il quale ha composto la sua partitura drammaturgica – perché Maria Grazia è più vicina a un compositore di opere che a una regista. E ancora, il ruolo dei costumi e dei colori – dai veli alla polvere rossa che il Minotauro sparge in Mille e una Notte.
Ci attende un lungo percorso da fare insieme, in attesa che Lucca, la bella addormentata, si risvegli e magari le chieda di salire nuovamente sul palco del Giglio. Un sogno? Ma non era Shakespeare a scrivere: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”?
Alla prossima puntata…
(1) https://www.inthenet.eu/2023/05/19/zio-vanja-unindagine-sulla-ferocia/
(2) https://www.inthenet.eu/2021/07/30/lutopia-e-il-mio-mestiere/ e
https://teatro.persinsala.it/maria-grazia-cipriani/62232
(3) Paolo Radaelli sarà anche l’organizzatore teatrale di Luca Ronconi per una ventina d’anni a partire da I lunatici, del 1965, e porterà L’Orlando Furioso (targato 1966) perfino a New York, dopo il debutto al XII Festival dei Due Mondi di Spoleto, vedasi: L. Ronconi, P. Radaelli, M. Melato, L’Orlando Furioso, in Franco Quadri, a cura di, Luca Ronconi, La ricerca di un metodo, Ubulibri, Milano, 1999
venerdì, 6 settembre 2024
In copertina: Sogno di una notte di mezza estate. Foto di Tommaso Le Pera (gentilmente fornita da Persinsala Teatro)