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Michelangelo Severgnini racconta la Libia e la tratta degli schiavi
di Simona Maria Frigerio
25 giugno 2024. Dopo infinite traversie, ecco finalmente L’Urlo, il docu-film di Michelangelo Severgnini che, come il libro omonimo ma con sottotitolo ferocemente esplicativo – Schiavi in cambio di petrolio – racconta non solamente cosa sia diventata la Libia grazie ‘all’esportazione della democrazia’ targata Francia, ma chi si nasconda dietro le mafie subsahariane e perché l’Occidente collettivo e l’Onu appoggino il Governo illegittimo di Tripoli.
Ma facciamo un passo indietro. Era il 2001 ed eravamo a Genova (1 e 2): Michelangelo Severgnini, come me e centinaia di migliaia di altri – allora giovani – provenienti da tutta Europa ma con collegamenti anche in Brasile, Chiapas e in tanti altri luoghi dove si stavano mettendo le basi per un altro mondo possibile. Erano gli anni in cui partivamo da una feroce critica a quel sistema capitalistico e a quella globalizzazione che, come Samir Amin aveva previsto in La Teoria dello sganciamento, prima o poi sarebbe implosa perché a un certo punto i Paesi sfruttati, ossia il sud del mondo (ma pensiamo anche alla Cina di vent’anni fa) avrebbero preteso di entrare a passi da gigante nella storia e di trasformarsi da provincie dell’Impero egemone e neo-colonizzatore (Stati Uniti e l’asse franco/anglo/tedesco) in centri di potere per gestire le proprie risorse – naturali, energetiche, finanziarie, minerarie, forestali e umane. Non a caso, pochi anni dopo saliva alla ribalta un economista come Serge Latouche che pubblicava, nel 2008, Breve trattato sulla decrescita serena (3).
Per capire di cosa discutevamo, pensiamo alla battaglia contro gli Ogm che allora non significava semplicemente credere in ‘Heidi che pascola le pecorelle sui monti’ (come il greenwashing europeo attuale impone a una massa di tele-dipendenti che crede che l’Italia a fine giugno sia arroventata mentre, avendola percorsa da sud a nord per intero, possiamo testimoniare che non abbiamo mai ‘sudato sotto la lingua…’), bensì rivendicare il diritto dei contadini a piantare i semi delle proprie piante senza dipendere dall’allora Monsanto – in quanto le piante nate dagli Ogm non potevano riprodursi, oltre a necessitare di sempre maggiori quantitativi di erbicidi e pesticidi per non ammalarsi, crescere e produrre.
Allora, negli anni di Porto Alegre, la nostra critica partiva da una solida conoscenza del sistema economico liberista, capitalista e neo-colonialista. Allora riecheggiavano ancora le parole dello statista del Burkina Faso, Thomas Sankara, ucciso da Blaise Compaoré (che divenne presidente all’indomani del golpe e tale rimase per i tre decenni successivi): “L’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a conquistare un territorio, imperialismo è più spesso ciò che si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente a un pugno di uomini sulla terra di comandare tutta l’umanità”. E ricordiamo che uno stizzito Mitterrand (perché i golpe in Africa, come in America Latina, hanno sempre l’appoggio diretto o indiretto dell’Occidente collettivo) aveva significativamente già ‘condannato a morte’ Sankara quando aveva espresso questi pareri: “Lancia un appello all’Africa perché rifiuti di rimborsare il suo debito ai Paesi occidentali. Di fronte all’Onu denuncia le guerre «imperialiste», l’apartheid, la povertà, difende il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione” (4).
Allora partivamo da qui: gli occidentali avrebbero dovuto rispettare la libertà e l’indipendenza del Sud del mondo e la sua volontà di autodeterminarsi a livello di cultura, economia e gestione delle risorse umane e naturali (in prima fila, allora come oggi, gli zapatisti in Chiapas).
Dalla storia al docu-film
Da questo passato comune e dalla constatazione che le nostre idee dopo quanto accadde alla Diaz e alla ‘notte delle matite spezzate’ che si visse in Italia, Paese democratico al centro dell’Europa delle libertà, sono finite nel dimenticatoio, Michelangelo Severgnini riparte dall’Africa e, per la precisione, dalla Libia di un lustro fa, per raccontare le nuove migrazioni e la situazione a Tripoli.
Un Paese, la Libia, bombardato per scopi egemonici dalla Nato in quanto l’Europa – e, in particolare, in quel momento, Francia e Regno Unito – agognava le sue ricchezze petrolifere e di gas mentre Hillary Clinton, segretario di Stato del Presidente Obama, sosteneva l’attacco contro Gheddafi non avendo gli statunitensi mai accettato quanto accaduto al volo Pan Am 103, nonostante il successivo bombardamento della Libia nell’Operazione El Dorado Canyon (nome dato con la consueta fantasia tutta statunitense…).
Da allora ci sono state delle elezioni e il Governo in carica sarebbe quello di Bengasi ma l’ONU e soprattutto l’Europa continuano a sostenere il Governo di Tripoli, appoggiato da milizie che hanno contatti con le mafie subsahariane, per ottenere petrolio in cambio di fondi che dovrebbero servire a ‘contenere le migrazioni’ ma, in realtà, armano le succitate milizie e intrappolavano, nel 2022, in un territorio senza legge circa 700mila schiavi (come si apprende nel documentario, 5).
Il racconto di Severgnini che, come sempre, raccoglie interviste di migranti, operatori, attivisti, in breve persone che hanno davvero un’esperienza diretta della problematica, va oltre la pura testimonianza non solamente per i momenti musicali e un ritmo che vira il côté documentaristico in passaggi esteticamente filmici, in quanto più emozionali; ma soprattutto fa un’analisi che si spinge al di là della retorica ‘buonista’ delle Ong e punta il dito anche contro The Open Society Foundations, fondata da George Soros (6). Questo perché la fonte del problema migrazioni sta nel fatto che l’Occidente, anche attraverso i prestiti (come denunciava Sankara), e soprattutto il Fondo Monetario Internazionale, finisce per strozzare le economie emergenti; mentre le politiche biecamente neo-colonialiste della Francia (che, difatti, sta venendo cacciata dall’intero Sahel) fingono di portare la pace, stabilendo basi militari su territori di nazioni indipendenti che, però, non contrastano veramente i terroristi e le milizie islamiste ma controllano le risorse energetiche e naturali di Paesi formalmente sovrani (come del resto fanno da decenni gli statunitensi, con il lampante esempio della loro presenza in Siria e in Iraq per appropriarsi del petrolio presente nelle regioni).
Quindi, le Ong che promettono di salvare i migranti caricati su gommoni improvvisati che si sgonfieranno appena al largo, non fanno altro che sostenere indirettamente il traffico di schiavi. In primis, in quanto danno potere alle milizie di Tripoli che si oppongono a nuove elezioni (supportati dall’Occidente) e al definitivo riconoscimento non solamente del Governo di Bengasi ma del futuro Presidente della Libia, che potrebbe essere Saif al-Islam Gheddafi. In secondo luogo, non raccontano la verità ai migranti perché non ci stancheremo mai di ripetere che il diritto alla migrazione per motivi economici ancora non esiste nemmeno a livello di Nazioni Unite. Quindi, i migranti che arrivano sulle nostre coste, ‘salvati’ dalle Ong, se non possono provare di avere diritto all’asilo perché provenienti da Paesi in guerra, finiscono in Centri di ‘accoglienza’ che sono tutto fuorché accoglienti e, in alcuni periodi, non riescono a far fronte agli sbarchi; e a un decreto di intimazione a lasciare l’Italia entro 15 giorni, ossia a un foglio di via che li rende a tutti gli effetti clandestini, in balia del caporalato, delle mafie, dei subappalti senza garanzie, dello sfruttamento. E questo non solamente in Italia, dove abbiamo recentemente visto i migranti africani piegati sui pomodori, ma anche – ad esempio – nei campi intorno a Valencia (in Spagna).
L’illusione del giovane africano, il quale pensa che in Europa gli Stati tra di loro si aiutino, ignorando del tutto quanto ha fatto la Troika in Grecia, e non conoscendo il termine austerity – che equivale a continui tagli dello stato sociale e a politiche in cui proprio i migranti irregolari tornano utili, in quanto privati di qualsivoglia garanzia e pagati una miseria – è illuminante. Come è illuminante il fatto che Severgnini adombri quello che è il nostro peccato più grave – nostro di occidentali – l’arroganza di pensare che siamo il ‘giardino’ e il ‘resto del mondo sia una giungla’ (Borrell docet). Questo modo di pensare ci porta a esaltare il lavoro delle Ong perché a cosa potrebbe aspirare di meglio un giovane africano se non a venire qui, in Europa, a civilizzarsi, mentre noi deprediamo le risorse del suo Paese impunemente?
Ecco: Michelangelo Severgnini ci invita a cambiare il nostro punto di vista a 180 gradi. Forse per questo L’Urlo è stato bloccato tanto a lungo. Forse per questo i ‘buonisti’ di casa nostra e la critica asservita hanno plaudito tanto a Io capitano. E chiunque si opponga non alle migrazioni – se libere, sicure e garanti di eguali diritti e doveri per chiunque entri in un Paese straniero – ma alla logica della migrazione come unica chance di vita per un africano, si trova a combattere anche la cosiddetta sinistra che scambia, coscientemente o stupidamente, il diritto di ogni africano di restare, vivere e costruirsi un futuro in Africa, con quell’‘aiutiamoli a casa loro’ di memoria leghista.
Edvard Munch, Allen Ginsberg, Michelangelo Severgnini: ogni generazione ha il suo urlo che non può più essere tacitato.
(1) https://www.inthenet.eu/2022/07/20/noi-credevamo/
(2) https://www.inthenet.eu/2022/07/20/noi-credevamo-seconda-parte/
(3)
(4)
(5) Il docu-film L’Urlo:
(6) https://www.opensocietyfoundations.org/who-we-are
venerdì, 5 luglio 2024
In copertina: Particolare de L’urlo di Edvard Munch. Foto di Perlinator da Pixabay