da Cartoline dalla Cambogia
di Simona Maria Frigerio
Trovare l’acqua per bere, darti una ripulita o addirittura il lusso di lavarti la biancheria, che tieni addosso da una settimana di fila, è un lusso. Sulla strada delle città come la mia non c’è acqua. Non c’è notte. Non c’è silenzio. Sembra che il ronzio di fondo del traffico non cessi mai: vetture, tuk-tuk, camion e moto girano in tondo su una giostra scalcinata e stanca senza raggiungere mai alcuna meta. A volte mi chiedo dove vadano. Quando anche l’ultimo club ha chiuso, dove continuano a dirigersi con tanta frenesia?
Io sto qui, accovacciato sul marciapiede e con la coda dell’occhio afferro la corsa furtiva di due ratti grigi. Forse temono che sprechi l’acqua insaponata tirandogliela addosso, ma è un lusso che non posso permettermi. Lei mi ha trovato un catino di plastica, 3 bottiglie piene d’acqua, una saponetta profumata e una spazzola: tutto il necessario perché mi lavi camicia e pantalone per il colloquio di domattina. Impiegheranno tutta la notte ad asciugarsi con questa umidità, stesi su un cavo abbandonato tra due pali della luce. Prima di iniziare mi sono dato una sciacquata e ho persino lavato i capelli! Alla fine ripulirò anche le ciabatte di plastica e, domani, saprò di arancia dalla testa ai piedi!
Sorrido tra me e mi domando perché tutto questo trambusto su come mi devo presentare: sono nato su una barca, mi hanno messo al timone della nostra a cinque anni, ho pescato nel Mekong per vent’anni e conosco tutte le anse, le sacche e le rocce che affiorano dalle sue acque scure, le spiagge e i bufali d’acqua, i canneti e ogni villaggio di pescatori.
Koh Dach è a pochi chilometri, portarci un po’ di turisti in vena di vita ‘autentica’ e pronti a sborsare dollari per qualche tessuto di seta… non mi sembra un’impresa! Eppure lei dice che mi devo presentare pulito e sorridente, e fare buona impressione perché la barca te la fanno manovrare solo se hai l’aspetto giusto per piacere alle turiste e sembri abbastanza presentabile da infondere fiducia ai loro mariti. E dire che la camicia pulita, mio padre, non ce l’ha mai avuta: era unta con il grasso del motore, schizzata del sangue dei pesci infilzati all’amo, chiazzata del sudore di un’intera giornata sotto il sole a tirare le reti in barca, o di fango quando ci incagliavamo in un canneto, eppure sulla barca ci è nato, vissuto e morto. Non scendeva quasi mai a terra e, quando lo faceva, dondolava come se fosse ancora sull’acqua…
Ma va bene così. Per lei domani sarò presentabile. Così avrò finalmente un lavoro e lei inizierà a contare i mesi e i giorni che ci separano dal matrimonio: il che è un po’ da pazzi perché chi ce li ha i soldi per regalare alla sua famiglia betel e noci di areca o caramelle e vino? E dove li trovo quattro parenti per la prima cerimonia, se non ho più famiglia? Sono tutti morti o andati. Tranne me, che mi ostino a sognare la mia barca sul Mekong. E così accetto di stare inginocchiato su questo marciapiede a notte fonda a strofinare il collo della mia unica camicia, mentre la ragazza con la canotta passa come ogni sera rientrando nel suo albergone fatiscente. Ma stasera si blocca e mi osserva. Più intensamente. Vede il mio torso nudo e la catena che ho al petto riflettere la luce della luna. Mi guarda senza vergogna e senza pudore.
Nei suoi occhi trasparenti come acqua mi immergo e, d’un tratto, la vedo anch’io: una bambina nata vecchia, che si trascina dietro la sua cultura come un fardello di disperazione in cerca di una qualche verità che possa ancora emozionarla.
Mi specchio in quei suoi occhi che mi invitano a issare le vele non per risalire ma per discendere il Mekong fino alla sua foce nel Mar Cinese e da lì veleggiare in un oceano di conoscenza abbandonando per sempre queste squallide sponde, grigie di cemento e smog, dove languono gli ultimi pescatori di vita, dove attenderà Penelope.
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Quando chiudo il mio libro, ogni volta, mi sento orfana come il mio amato Achille del suo “caro Patroclo e delle imprese che abbiamo affrontato, i dolori patiti, passando attraverso battaglie di uomini e traversie di mare…”. Ma questa volta, in Cambogia, mi è capitato di spiare nell’intimità delle persone, senza neppure essere stata invitata a farlo. Una cosa è vedere un uomo che guida un tuk-tuk, un’altra osservarlo mentre dorme raggomitolato accanto alla sua donna. Una cosa è ammirare il torso nudo di un giovane pescatore che tira le reti, tutt’altra osservarlo farsi il bucato in strada. Rubi senza scassinare perché non ci sono porte, diaframmi, convenzioni sociali. Ci sono solo due esseri umani che si incontrano… in un oceano di solitudine ed egoismo cieco.
Per qualche giorno o settimana, uno sconosciuto amico mi ha accompagnata regalandomi la sua storia e io l’ho appresa per consegnarla a voi. Ma come per il poema dedicato a Ilio e a chi espugnò le sue mura, non fidatevi: poeti e scrittori favoleggiano e si trastullano. O si vive o si scrive. E la vita è sempre altrove.
Venerdì, 7 giugno 2024
Per chi si fosse perso i precedenti racconti:
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non sono da considerarsi reali.
In copertina: Foto di Simona Maria Frigerio (particolare di una bellissima statua di Lokeshvara, presente al Museo Nazionale della Cambogia. Vietata la riproduzione)
(Cartoline dalla Cambogia, di Simona Maria Frigerio ©2024, tutti i diritti riservati, vietata la pubblicazione integrale o parziale senza il consenso dellʹautrice)