da Cartoline dalla Cambogia
di Simona Maria Frigerio
Me lo carico in spalla. Come tutte le sere. Il difficile è capire dove si è accasciato. Oggi si era seduto sul marciapiede all’angolo della nuova piazzetta e, per fortuna, che il padrone del ristorante di pesce mi ha visto e mi ha indicato dov’era – perché aveva le spalle appoggiate a un bidone dell’immondizia e le gambe penzoloni in mezzo alla strada. Bastava che un motorino o un tuk-tuk non lo vedesse e lo tranciavano via a metà.
Trasportarlo non è una passeggiata. Peserà 40 chili – tutto nervi e tendini – ma sbronzo, com’è, pesa come un corpo morto e poi non sai mai se caricartelo sulle spalle, come un sacco di patate, o trascinarlo afferrandolo sotto le ascelle. Stasera è troppo distante dal marciapiede dove ci sistemiamo di solito e mi tocca caricarmelo sulle spalle.
Ancora cento metri e saremo arrivati. Brontola nel sonno. Spero non mi vomiti addosso. Una o due volte l’ha fatto e poi il mattino, vedendomi ancora sporco e sentendosi in colpa, mi ha pure tirato due pedate per allontanarmi. Devo dire che puzzavo di brutto e sulla strada è difficile trovare un bar che ti faccia andare nel retro a darti una ripulita. Finisci sempre per ridurti alla sponda del Mekong ma lì l’acqua puzza ed è limacciosa. Così ti impiastrarti peggio di prima. Quella volta è stata la donna che fa le pulizie al negozio di massaggi a prestarmi il suo secchio riempito di acqua corrente. A volte, è il cameriere gentile dell’albergone per turisti, che mi fa sgattaiolare in cucina a lavarmi tra i piatti sporchi della colazione.
Torno al presente: gli appoggio il capo sullo zerbino della banca. Qui c’è sempre luce ed è al sicuro. A volte vorrei che qualcuno accogliesse il mio, di capo, su un ventre morbido e gonfio come quello di mia madre. Mi capita di sognarla ancora, nel dormiveglia, e di aprire gli occhi credendo sia l’alba che sorge sul lago. E invece è la luce del neon della banca e mi assale la consapevolezza lancinante che non ci saranno più madri e seni gonfi di latte e acque pescose per me – per noi.
Mio zio sta già arrivando. Lo vedo raccogliere gli ultimi avanzi del marcato in una cassetta. Domani mattina cercherà di rivenderli per fare giornata. Lo saluto con un cenno della mano e vado a cercare qualcosa da mangiare per stasera.
Da quando non abbiamo più la nostra barca da pesca, non sopporto l’odore ficcante del pesce. E nemmeno il sangue. Cerco qualche albero di mango che allunghi i suoi rami fuori dalle mura dei giardini delle tre o quattro ville francesi, che si sono comprati alcuni cambogiani che lavorano nei ministeri. Oppure frugo tra la spazzatura dei banchi della frutta e della verdura. Altre volte mi dà i suoi avanzi il venditore di vongole al peperoncino o la cuoca all’angolo, se non è venerdì o sabato perché allora non ne ha abbastanza nemmeno per i suoi clienti. Persino il coltivatore di lattuga idroponica (che buffo nome gli ha dato!), ogni tanto mi regala due o tre ciuffi prima che marciscano, se le vendite sono andate così così.
A fine serata, se non riesco a trovare proprio nient’altro, provo coi cestini della spazzatura vicino ai 7/11. C’è sempre qualche turista che compra un pacchetto di patatine e poi scopre che sono più piccanti di un piatto di chili, oppure uno yogurt ma sa di fagioli o, il meglio, è quando acquista un toast pensando che sia salato e poi lo addenta e sente un sapore dolciastro mischiarsi al wurstel di pollo. Ci resta talmente male! Fa una faccia schifata e se ne libera nel primo cestino dell’immondizia che trova: la mia riserva segreta di proteine!
Ecco arrivare i cani. Bradi. Affamati. Qualche femmina ha le tettarelle che strisciano quasi a terra. Sono madri sfibrate di poveri bastardi. Se sono due o tre o vecchi solitari spelacchiati non ho paura. Ma quando arrivano a branchi e puntano il tuo stesso sacco dell’immondizia, è meglio girare al largo. Sono come le scimmie: se puntano la tua fetta di durian o la tua banana, meglio abbandonarla perché se no diventano aggressive, arricciano le labbra fino a mostrarti le gengive e, se non ti arrendi ancora, ti saltano direttamente addosso.
La vedo come ogni sera quando passa per recarsi nel suo ristorantino preferito. La ragazza con la canotta è circondata da sei, sette cani e il capo branco le mostra le gengive mentre sbava. Lei resta immobile. Impietrita dalla paura o dal coraggio. Prendo un pezzo di calcinaccio dal marciapiede – ché qui non mancano mai – e miro alla zampa posteriore del capo branco, che non mi ha notato. Lo colpisco. Si gira guaendo, preso di sorpresa e, costretto tra due fuochi, scappa. Gli altri lo seguono disperdendosi ai quattro venti. Lei alza i suoi occhi che sembrano lacrime di mare e mi ringrazia silenziosa. Per un attimo sento il calore avvolgente del ventre di mia madre accogliermi. Ma lei è già scomparsa e io torno al mio sacchetto di avanzi.
venerdì, 31 maggio 2024 (la settimana prossima, l’ultimo racconto)
Per chi si fosse perso i precedenti:
In copertina: Foto di Simona Maria Frigerio
(Cartoline dalla Cambogia, di Simona Maria Frigerio ©2024, tutti i diritti riservati, vietata la pubblicazione integrale o parziale senza il consenso dellʹautrice)