da Cartoline dalla Cambogia
di Simona Maria Frigerio
Mi ci vedo già domattina: mia madre che mi veste con quella gonna blu pieghettata da scolaretta e la camicia bianca pataccata mentre dormo in piedi e mi dà una sculacciata affettuosa direzionandomi giusta per la scuola. Io cammino imbambolata, con le braccia penzoloni, a fianco del tempio fino al cancello di ferro arrugginito per poi fiondarmi in classe in un sussulto di iperattività, agognando il banco dove appoggiare i gomiti e, lentamente – cullata dalla voce della maestra – sonnecchiare beata e all’ombra delle persiane fino alla campanella. La maestra è buona: sa perché dormicchio, come altri compagni. Ogni tanto ci dà un colpetto dolce sulla nuca o sulla spalla, quasi a sincerarsi che siamo in qualche modo presenti, e poi riprende a cantilenare le tabelline o la canzone patriottica per la festa della fine dell’anno scolastico.
Ma come faccio a essere sveglia e attenta se all’una, stanotte, ero ancora in cerca di turisti che mettano mano al portafoglio senza nemmeno fingere di comprare una pezza che vendo come sciarpa o un braccialetto di corda intrecciata? Perché mamma e io siamo come i maghi e i trucchi sono due. Il primo, farsi prestare qualche porcheria che nessuno vorrà comprare, da restituire a chi ce l’ha prestata, mentre io guadagno qualche migliaio di riel fingendo di venderla – ma, in realtà, prendendo il turista allo stomaco. E non è facile come sembra. Con gli accendini, ad esempio, non funzionava perché quelli li compravano davvero e a mamma restava quasi niente. Le pezze, al contrario, sono il massimo perché se sono costretta a vendere quelle spacciandole per sciarpe, il turista pensa che sia davvero povera… E mica ci va tanto lontano dalla realtà… Il secondo trucco è la scelta del pollo. Le turiste, sopra i cinquanta, sono un pesce sicuro da far abboccare: hanno figli grandi che non vedono mai e io gli ricordo quando erano bambini, oppure pensano ai nipotini che le aspettano a casa… Anche i turisti di mezza età non ammogliati, che frequentano i club, sono generosi: una carezza sulla guancia o sederti sulle loro ginocchia mentre fingono di scegliere una sciarpa può valere quanto un’intera serata di lavoro. Ma non sempre i club ti lasciano entrare. In quelli più esclusivi, come il cubo nero con le ragazze in lamé, è la signora a uscire e se è in buona mi dà due o trecento riel per scomparire veloce – la taccagna.
E così, anche stasera ciondolo fuori e dentro i ristoranti e i bar, una via dopo l’altra… Fino a tre anni fa non era così. La mamma lavorava al negozio dei massaggi e lei, io e il nonno, che ha lasciato il cervello in campagna (come diceva la nonna), ce la cavavamo. Ma poi lei si è messa in testa di fare il colpo grosso: un cliente cinese voleva un figlio ma la moglie era troppo impegnata e cosa ne pensava mia madre di fargli da incubatrice per 9 mesi? 15.000 dollari cash per 9 mesi in panciolle. Ci avrebbero sistemati tutti e tre in un appartamento in affitto, cure dentistiche per lei e una dentiera per il nonno, e vestiti e scarpe nuove per tutti che potevamo tenerci anche dopo i 9 mesi. Un affare che ti capita una sola volta nella vita – anche se mia madre già pensava di trasformarlo in un business: quattro o cinque anni e poi avrebbe avuto di che vivere fino alla vecchiaia. Basta uomini. E basta coi negozi di massaggi. Peccato che l’hanno beccata!, mica poteva andarcene una dritta… E così il cinese è scomparso insieme ai suoi soldi e a noi è rimasto il pupo: che nemmeno ci assomiglia e mangia come un cinese padrone della ferriera e non come un cambogiano povero in canne.
Perciò eccomi qui: la mamma si è sformata e al negozio di massaggi la tengono solo per fare le pulizie e io, con la mia cassetta di pezze appesa al collo, vago e vagolo.
Serata magra, questa. È pieno di uomini di mezza età gay che si siedono ai tavoli, sui marciapiedi dei ristoranti e dei bar, per attrarre l’attenzione offrendo una birra. A loro non piaccio e non fanno finta. Mi allontanano muovendo velocemente l’aria con una mano, come se volessero spazzarmi via. A volte mi impunto e comincio a girargli intorno apposta, così sono costretti a darmi qualcosa per farmi allontanare. Li capisco. Non vogliono essere fraintesi: a loro interessa il bel ragazzo che sta mangiando all’angolo a quattro palmenti e sperano non pensi che cercano la mia compagnia… È solo allora che la vedo: una ragazza con la canotta che sta immergendo patatine fritte nella salsa al pepe. Anche a me piacciono le patatine fritte pucciate nella salsa al pepe.
Mi avvicino e le piazzo la cassetta con le pezze proprio di fronte al piatto. Mi sorride. Apre il suo zainetto ed estrae un biglietto che credo di non aver mai visto. Me lo porge senza fingere alcun interesse per le pezze. Io lo afferro con il dubbio che sia una banconota straniera senza valore ma poi leggo la cifra, scritta in khmer. Corro dalla padrona del ristorante sventolandole la banconota sotto il naso e lei mi sorride e mi fa segno di vittoria. Me ne vado senza voltarmi, senza nemmeno un grazie e quando arrivo trafelata da mia madre, lei è così contenta che non mi chiede chi o perché me li abbia dati ma mi regala i soldi per un bubble tea.
Mezz’ora dopo ripasso davanti al ristorante con il mio bubble tea saltellando dalla gioia perché domattina sarò tanto arzilla da sorprendere perfino la maestra. Mi volto verso il tavolo della ragazza con la canotta per mostrarle il mio trofeo: in fondo, se mi sono aggiudicata un bubble tea, è anche grazie a lei. Le lancio il mio sorriso più bello ma va a vuoto: lei non c’è già più per raccoglierlo.
venerdì, 10 maggio 2024 (la settimana prossima, un nuovo racconto)
Per chi si fosse perso i precedenti:
In copertina: Foto di Simona Maria Frigerio
(Cartoline dalla Cambogia, di Simona Maria Frigerio ©2024, tutti i diritti riservati, vietata la pubblicazione integrale o parziale senza il consenso dellʹautrice)