Folklore, prostituzione e povertà
di Simona Maria Frigerio
Riprendiamo questo breve viaggio, iniziato la settimana scorsa (1), dal Mercato russo che abbiamo raggiunto seguendo i vialoni che partono dal centro e che sono un coacervo di cantieri per grattacieli a uso ufficio e rappresentanza. In gran parte vuoti, con cartelli che li offrono in vendita, affitto e leasing, al momento sembrano aver attratto una selva di banche. Il risultato è asettico e omologato al gusto delle archistar (anche se qui meno vip), che stanno rendendo tutte le città del mondo talmente simili da poter essere confuse le une con le altre.
Per quanto riguarda il Mercato russo, sfatiamo un altro mito: di russo non ha niente, vende i medesimi pantaloni stampati con elefanti stilizzati e le flip flop di plastica che potete trovare al Mercato centrale (che vanta almeno una cupola pseudo-dorata nella zona degli orefici) o in qualsiasi altro mercato nel Sud-est asiatico. Effluvi di pesce più o meno fresco, mischiati all’odore altrettanto acre del sangue delle carni appese ai ganci, le trecce d’aglio, spezie e sudore.
Arrivando, però, da Mao Tse Tong Road, potrete godervi un po’ di requie all’ombra del tempio sulla 155a.
Tornando a nord (dove sorge il centro, per intenderci), bighellonando, potrebbe capitarvi di finire nella zona dei ministeri, dove sorgono anche l’area consolare statunitense, alcune università e, non a caso, il Sosoro Museum dedicato ad “afferrare la costante interazione tra soldi, economia e politica nel corso della storia” cambogiana. Qui, di certo, non si può dire che i politici cambogiani si siano fatti mancare qualcosa. Tra imponenti edifici in stile francese (simili a quelli di Hanoi), tinteggiati di fresco, ampi vialoni alla parigina con spartitraffico centrali che fungono da isole pedonali bordate di aiuole curatissime e soprastanti i parcheggi (per quelle vetture da 80.000 dollari in su, che avrete visto in vetrina nella zona dei rivenditori di automobili, chiedendovi chi potesse comprarle), marciapiedi lindi e sgombri e semafori, vi sembrerà di essere stati teletrasportati in una città europea.
Qui abbiamo anche visto l’unico giardino pubblico dell’intera zona centrale, la piccola collina (alta solo 30 metri) che circonda e conduce al Wat Phnom, una pagoda bianca che ha permesso a quest’area di rimanere pubblica e non finire cementificata. Bella la vista dall’alto. Sul posto troverete anche un Centro per l’Arte e l’Artigianato, che deve avere goduto momenti di autenticità ormai lontani.
Se qualcuno pensasse che, finita la guerra, finalmente le donne cambogiane si siano liberate della prostituzione, si sbaglierebbe. Esistono persino squallidi siti ad hoc (2) che informano sulle vie a luci rosse, i prezzi, i comportamenti da tenere. Dai club più chic, frequentati da cambogiani con bodyguard e suv nero che sembrano usciti da un film gangster di Takeshi Kitano (dove le ragazze in abiti in lamé siedono compostamente una accanto all’altra, ben visibili dall’entrata a vetri) ai bar con tavolo da biliardo e ragazze che vengono via a poco, fino ai centri massaggi che non si comprende cosa offrano ma avvertono che l’aria condizionata si paga a parte; ebbene, il centro di Phnom Penh è un enorme mercato del sesso per etero e omosessuali, più o meno abbienti (nonostante la prostituzione sia ufficialmente, e ipocritamente, vietata). E come esistono vie dedicate alle luci rosse, ogni strada o viale di Phnom Penh è consacrato a un solo prodotto: rivenditori di vetture, fili elettrici, attrezzi ginnici, cesti regalo (o da donare ai monaci in questua perenne), banche, ministeri e ambasciate, oreficerie, negozi di arredamento, materiali edili, eccetera (similmente alla zona centrale di Bangkok).
La strada, in senso generico, è ciò che più ci ha colpiti in questa metropoli per il resto anonima. I suoi autisti di tuk-tuk che, a volte, ci vivono nei tuk-tuk, dormendoci dentro anche con moglie e figli. Oppure il rito della raccolta della plastica notturna, in un Paese che non differenzia nulla, e così una giovane coppia gira per il quartiere, aprendo i sacchetti neri stracolmi di spazzatura varia, per recuperare le bottiglie di plastica da vendere alle riciclerie, mentre la figlia – forse di quattro anni – dorme sul carretto tra le bottiglie, e il maschio, di poco più grande, aiuta il padre pestando sotto i piedi le lattine che, in questo modo, occupano meno spazio. O ancora, la donna accovacciata e stretta in un angolo che volge la schiena a un vecchio ubriaco che le urla contro, mentre un uomo più giovane osserva la scena fumandosi una sigaretta (qui il fumo dilaga) dai gradini di un’edicola che è anche il suo (forse il loro?) riparo per la notte. Oppure, una sfilza di spossati guidatori di risciò che riposano, uno accanto all’altro, stravaccati nei loro antichi mezzi che tirano ancora a mano, a lato della strada mentre il traffico dei veicoli a motore gli rimbomba nelle orecchie e i tubi di scappamento li intossicano. O i bambini che ti tendono la mano fingendo di venderti qualcosa – sempre la stessa pezza – e appena dai loro un paio di banconote corrono felici a comprarsi un bubble tea. Quando non frugano, chinati a terra, nei sacchetti dell’immondizia per trovare gli avanzi di una cena, prima di sdraiarsi accanto ai genitori a dormire su marciapiedi zozzi di piscio (sembra che gli uomini, da queste parti, debbano contrassegnare tutti i muri come i cani maschi), avanzi di cibo, sputi, pezzi di cemento sgretolato, lattine di birra (che costa meno dell’acqua), evitando le buche – che paiono voragini peggio che a Bali – e con la solita compagnia di topi e scarafaggi. Bambini che, fin dall’alba, a torso nudo e sotto il sole cocente giocano esclusivamente a pallacanestro, tutti i giorni della settimana, su un terreno brullo e tra nugoli di polvere sollevati a ogni palleggio. E bambine non ancora adolescenti in abiti succinti di maglina e reggiseno imbottito, con capelli lunghi fino alla vita che già imparano a mostrarsi sulla porta dei locali per turisti, tirandosi indietro una ciocca di quei lunghissimi, fini capelli setosi e neri che sanno già essere il loro orgoglio (senza bisogno dello shampoo reclamizzato). E infine lui, il giovane a torso nudo che la notte, seduto sul marciapiede, si strofina la sua unica camicia, lavandola in un catino e tu ti chiedi chi gli abbia dato l’acqua e chi regalato il sapone e ti immagini una giovane donna, altrettanto bella, che spera che lui – con quella camicia che domani saprà di buono – trovi finalmente un lavoro.
La ricchezza stilosa dello sky bar al 37° piano della Vattanac Tower e la povertà dignitosa e gentile di una città fortemente squilibrata, dove paiono latitare il ceto medio e i servizi pubblici (come la pulizia delle strade, i trasporti pubblici e la raccolta dei rifiuti, che sarebbe un eufemismo definire insufficienti); dove il recupero del vecchio non è contemplato, come la salvaguardia del verde o delle acque, la cura dei senzatetto o il rispetto per chi vive di un mestiere povero ma antico come il pescare. E i due gruppi umani (i ricchi e i poveri) che condividono il medesimo Paese paiono abitare pianeti diversi. In attesa che anche l’ultimo edificio fatiscente crolli per fare spazio a un grattacielo – che non sappiamo chi potrà occupare.
(1)
(2) https://cambodia-girls.com/it/rotlichtviertel-in-phnom-penh
venerdì, 3 maggio 2024
In copertina e nel pezzo: Foto di Simona Maria Frigerio