da Cartoline dalla Cambogia
di Simona Maria Frigerio
Rinascete in me come immagini impresse nellʹanima da una macchina fotografica orfana di flash. Sbiaditi, notturni, sfocati: ritratti rubati al tempo e di cui mi sono impadronita senza chiedervi il permesso. Ma voi adesso mi appartenete o io appartengo a voi per uno iato imprevedibile in questo fluire infinito, in cui come il cantore cieco narrerò di eroi e vinti, quando entrambi abitavano le sponde del Mekong.
*°*°*
Prosaicamente a me questi qui che tutte le mattine, salgono belli freschi dalle loro camere deluxe con air con e letti king size, docciati e lisciati come se fossero passati dalla toelettatura per cani, che olezzano dei più disparati profumi e sfoggiano ridicole magliette I love Cambogia, mentre ci guardano dallʹalto in basso come biologi che sezionano pitocchi al microscopio e ci trovano tanto folkloristici nella nostra miseria, e nemmeno mi salutano prima di entrare nella sala della colazione a rifocillarsi quasi fosse il loro ultimo pasto, davvero molto prosaicamente li raderei al suolo con un bulldozer.
Ma poi penso che è grazie a loro, ai turisti mordi e fuggi, se adesso dormo su una brandina sul marciapiede invece che direttamente sul marciapiede e che lʹhotel mi permette perfino di lavarmi mani e faccia prima di iniziare a preparare i tavoli e a riempire i contenitori gastronomici in acciaio inox, che fanno bella mostra di sé sul bancone, e mi passa una maglietta e un paio di pantaloni (sempre gli stessi) ma lavati a spese loro una volta la settimana e persino un paio di scarpe di plastica che, però, sembrano vera pelle e vero cuoio come li ho visti a un italiano dei tempi in cui questa catapecchia era un albergo di lusso.
Come ogni mattina, alle 6 e mezzo, puntuale, mi piazzo dietro al bancone e attendo. Pochi mi salutano, tranne una ragazza che arriva verso le 9 sempre con lo stesso paio di pantaloni e a giorni alterni una maglietta o una canotta. Mi ci identifico. Sorride perfino, nonostante questa sala ormai sia per metà dismessa e, in un angolo accanto a una finestra lurida, semiaperta, un fumatore incallito passi le sue mattinate a guardare febbrilmente il cellulare mentre beve un caffè filtrato – nero come la pece – dietro lʹaltro, senza nemmeno aggiungerci il latte condensato.
Ma stamattina dietro alla ragazza cʹè un nuovo cliente, un turista yankee: li riconosco dalla falcata, da quellʹaria da padroni del mondo (e del resto lo sono: fino al 1993 hanno continuato a sostenere la Kampuchea Democratica di Pol Pot e il suo aborto allʹOnu, insieme ai cinesi), da quella rapata militare biondo pel di carota, e dagli occhiali da sole da aviatore che indossano anche la notte (non ho mai capito se per non farsi riconoscere e, comunque, se ci vedono o gli basta immaginarci).
Entro nel salone per verificare se occorre riempire i contenitori termici e se manca qualcosa. La ragazza con la canotta mi razzia sempre il piatto con i frutti del drago. La capisco, anche a me piace. Ma eccoti lo yankee che mi afferra la spalla con forza e mi costringe a girarmi verso di lui per ascoltare uno sproloquio di parole: vuole le uova fritte e non quelle strapazzate. Ho capito. Ma fingo con sguardo ebete di no. Spalanco gli occhioni e sorrido. Loro credono che ogni volta che sorridiamo è perché siamo un poʹ ritardati e non capiamo o per essere compiacenti anche se non li capiamo. Ma io ho afferrato benissimo il suo discorso, solo non ho voglia di compiacerlo. E allora lui va al cellulare per cercare una foto di un uovo fritto e intanto continua a ripetere: «Fried egg not scrambled!». In fondo lo so che ha ragione, le uova strapazzate sono immangiabili con quel liquido lattiginoso che trasudano e le avvolge di un vago sapore rancido. Ma la cuoca così fa prima e in questi giorni, con la figlia ammalata, arriva sempre troppo tardi e poi lʹhotel risparmia. Alla fine il contenitore delle uova strapazzate lo riportiamo in cucina pieno come quando lo abbiamo esposto sul bancone e alle 11.00 è il nostro pranzo. Però mica mi piace tanto, nemmeno a me… Attendo con un sorriso tutto orientale che lo yankee trovi la foto e mi domando quanto debba essere difficile farlo: passano due o tre minuti. Vorrei dirgli che non ho tempo da perdere ma, per la verità, comincio a divertirmi a vederlo affannarsi a smanettare con il cellulare.
Poi arriva la ragazza con la canotta e, con un sorriso, si mette a mimarmi un filo di olio che scorre in una padella e sento quasi il suo sfrigolio guardandola, il colpo di polso e lʹuovo che si rompe a metà sul bordo mentre la cuoca – con una abilità che non ha mai posseduto – lo fa saltare e lo serve in tavola fritto a puntino. Rido di gusto. E me ne vado. Proprio così: giro le spalle a entrambi ed esco dalla sala. Ma la ragazza con la canotta mi ha messo di buon umore, si è messa al mio livello e ha giocato. Così guardo di sottecchi il fumatore incallito che mi chiede il suo quarto caffè della mattina e passo in cucina: la cuoca è già sparita. La sua bambina non deve stare niente bene. E mi metto a preparare sette uova fritte, tante quante ci stanno nella padella. Un filo di olio e solamente quando sento lo sfrigolare caratteristico rompo i gusci a uno a uno: sei uova a occhio di bue che incorniciano perfettamente quello centrale. Con la paletta piatta ne posiziono tre su un piatto e quattro su un altro. Aggiungo una punta di sale. A mio gusto ci metterei anche una spolverata di pepe cambogiano ma lʹhotel non gradirebbe e forse manco i turisti – bei tempi quando qui avevamo il lobby bar e si preparavano i cocktail con latte di riso, saké e latte di mandorla… E finalmente torno con i due piatti in sala. Prima vado dalla ragazza con la canotta che mi sgrana i suoi occhioni perché non può crederci… poi sorride e capisce, lei sì mi ha capito. Si serve due uova e le rimanenti le mette a disposizione degli altri ospiti, riportandole sul bancone. Lo yankee manco si volta. Gli appoggio il piatto sul tavolo e attendo. Torna, vede le uova, mi guarda in faccia senza espressione (dietro i suoi occhiali a specchio non so cosa pensi), non fa alcun cenno nemmeno col capo, mi gira le spalle e se ne torna al tostapane dove sta bruciacchiandosi talmente tante fette di pancarré che penso sia davvero il suo ultimo pasto. Guardo le uova che languono sulla tovaglietta mezza unta e mi consolo pensando che quel tavolo è tre giorni che non lo pulisco. Faccio spallucce ed esco.
Quando va verso lʹascensore la ragazza con la canotta si gira unʹultima volta (sarà davvero l’ultima volta: se ne sta andando) e mi sorride, congiunge le mani, come facciamo noi, e abbassa il capo. Sorrido. Oggi a pranzo avrò uova strapazzate.
venerdì, 19 aprile 2024 (la settimana prossima, un nuovo racconto)
In copertina: Foto di Simona Maria Frigerio
(Cartoline dalla Cambogia, di Simona Maria Frigerio ©2024, tutti i diritti riservati, vietata la pubblicazione integrale o parziale senza il consenso dellʹautrice)