Torniamo a far sorridere i bambini palestinesi
di La Redazione di InTheNet
Nonostante il voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (con la vergognosa astensione degli Stati Uniti), la situazione a Gaza e nei Territori Occupati al momento non sembra migliorare anche perché l’Onu non ha i mezzi per implementare le proprie risoluzioni e sono ormai oltre settant’anni che le stesse non hanno mai seguito. Come ci spiega Marina Barham, durante l’incontro organizzato da Anna Estdahl per AREA, se nessuno Stato o organizzazione sovranazionale agisce per fermare effettivamente Israele, anche questo voto resterà lettera morta – così come le misure provvisorie della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia.
Durante il collegamento via zoom del 27 marzo si è però cercato di proporre idee positive riguardo a quanto possiamo fare noi tutti, in Occidente, e di cosa stanno già facendo gli artisti del teatro e del circo palestinesi per regalare un futuro ai minori da anni bombardati, feriti, mutilati, resi orfani e reclusi illegalmente da Israele – ben prima del 7 ottobre 2023.
Il primo a raccontare la propria esperienza è stato Rami Khader,fondatore e direttore esecutivo di Anar Organization (1), che ha sottolineato il dramma collettivo, intenzionale e sistematico messo in atto da Israele contro il suo popolo da oltre settant’anni. Violenza, oppressione, apartheid, incarcerazioni arbitrarie e ora il genocidio. Da generazioni i bambini palestinesi ereditano tutta la sintomatologia del Disturbo Post-Traumatico. Khader ha raccontato come, ad esempio, i bambini di Hebron (2) giocano e vivono solo quando si sentono sicuri e, generalmente, non si sentono tali in quanto gli occupanti israeliani attaccano e uccidono i palestinesi anche in Cisgiordania. Eppure l’infanzia non è solamente il futuro della Palestina, bensì il suo presente dato che oltre il 40% della popolazione è composta da minori. Se i bambini non riescono nemmeno più a sentirsi sicuri di poter giocare significa che i traumi che stanno vivendo hanno loro rubato per sempre l’infanzia.
Dara Rafeedi, coordinatrice del supporto psicologico della Anar Organization, ha descritto un caso particolare per spiegare come i bambini non siano più in grado di essere tali né i loro genitori possano aiutarli – ma che le arti e il teatro servono a ri-creare, attraverso l’immaginazione, uno spazio sicuro nel quale poter vivere ed esprimere le proprie emozioni, i propri sogni, le idee e a rielaborare i traumi.
Nicola Zreineh, cofondatore e vicedirettore di Al Harah Theater, si è soffermato sulla realtà teatrale ma anche festivaliera che organizzano. I loro corsi sono rivolti non solamente a bambini traumatizzati ma anche a bambini rimasti disabili a causa della guerra attualmente in corso, e ai decenni di occupazione illegale e violenze perpetrate da Israele nei Territori Occupati. Tra le attività che svolgono, i giochi tipici del teatro e l’invenzione e narrazione di storie attraverso burattini creati dagli stessi minori, così che possano esprimere per il loro tramite ciò che provano. I bambini non si siedono solamente in platea per assistere a uno spettacolo, ma imparano nuovamente a muoversi in libertà e a dialogare in uno spazio, il palco, che finalmente sentono sicuro. Dopo una serie di altri interventi Zreineh ha raccontato di avere appena ricevuto una lettera di un nonno palestinese che descrive come reagiscono i suoi nipotini ai continui bombardamenti su Gaza. Per esempio, due di loro si abbracciano e urlano il loro terrore sempre all’unisono. Uno dei bimbi, per fermare i razzi, pone sempre una mano di fronte a sé come per allontanare il pericolo. Un altro ha sperimentato l’esplosione della propria abitazione mentre era solo in bagno – sebbene si sia salvato, da allora agisce come un bambino di soli due anni; mentre un altro tra i suoi numerosi nipoti resta sempre attaccato alla madre. Una delle bambine si nasconde sotto qualsiasi cosa si trovi accanto: una sedia, il tavolo, il letto. Si è trasformata da un piccolo angelo in una bambina che ‘cerca guai’. In pratica, ognuno reagisce alla paura in modo diverso. Ogni bomba che è sganciata non solo uccide o distrugge, ma modifica la natura più intima e profonda di ciascun bambino, che perde la propria innocenza e vive in una continua situazione di terrore.
Marina Barham, cofondatrice e direttrice di Al Harah Theater, ha affermato che è importante continuare a incontrarsi – sebbene via zoom – per raccontare ciò che Israele sta facendo anche in Cisgiordania contro la popolazione palestinese, demolendo le loro case e comportarsi in maniera violenta e aggressiva. Azioni che, del resto, si ripetono da decenni nella più completa impunità internazionale. I bambini spesso non possono nemmeno andare a scuola a causa delle restrizioni imposte dai coloni e/o dall’esercito israeliano. Per loro, ma anche per le donne e i giovani, il teatro è potenzialmente un mezzo di dialogo che può aiutare in molti modi a superare il trauma della guerra. In un spazio sicuro, dove non sono giudicati, possono esprimersi, raccontare le proprie esperienze e rielaborare il trauma che hanno subito. I bambini palestinesi diventano adulti senza essere mai stati bambini. Il teatro serve a regalare gioia, fantasia, a restituire il tempo dell’infanzia all’infanzia. Barham ha sottolineato che il teatro può aiutare i minori a capire cosa stia accadendo perché la comprensione della realtà adulta, la cruda realtà di Gaza di morte e perdita, deve acquistare anche per loro un senso.
Mohamad Rabah, direttore esecutivo della Palestinian Circus School e co-fondatore di Bait Byout,haraccontato come suo figlio dopo aver visto una delle tante azioni violente israeliane gli abbia detto che avrebbe voluto acquistare una pistola. Proprio per questo motivo, per dare un significato diverso e proporre altre vie d’uscita, altre possibilità a questi giovani che di fronte alla violenza israeliana non sanno più trovare risposte che non siano anch’esse atti violenti, Rabah ha scelto il circo. Rabbia, frustrazione e senso di essere continuamente abusati sono i sentimenti che emergono tra i giovani. Scegliere di lavorare in teatro o con il circo non è solamente un divertimento, bensì un modo per reagire in maniera positiva a una situazione di terrore che si protrae da decenni. La sua Compagnia insegna le attività circensi ai bambini anche con disabilità e lo fa in diverse aree dei Territori Occupati, inclusa Gerusalemme Est. Partecipare alle attività circensi aiuta a ricostruire un senso di fiducia negli altri, facilita la cooperazione, risveglia il pensiero critico. L’isolamento, infatti, è un altro tra i problemi che sperimentano i palestinesi e che peggiora la situazione, radicalizzandoli. Quindi, il suo scopo è creare momenti di discussione, anche con gli artisti stranieri ospiti, per aprire le menti. Infine, occorre considerare la distruzione e la violenza che stanno sperimentando i palestinesi a Gaza e che non è mai stata talmente devastante – né in Iraq, né in Afghanistan, né in nessun’altra parte del mondo negli ultimi trent’anni. E nonostante il genocidio che Israele sta commettendo sia sotto gli occhi di tutti, i palestinesi si sentono soli e abbandonati.
Grazia Dentoni, direttore di Ananché Associazione Culturale, con sede a Cagliari, in Italia, racconta la sua esperienza – che ha testimoniato nel bellissimo documentario, Crossing the Wall, che riproponiamo (3). Dentoni ha ribadito come, nonostante quanto raccontato nel suo video tanti anni fa, così come il suo impegno di oggi nel sensibilizzare le persone, le informazioni che arrivano dalla televisione e dai media ufficiali siano talmente soverchianti da obliterare il ritratto reale di quanto sta accadendo in Palestina. Anche se molti italiani (e sardi, in particolare) stanno organizzando manifestazioni dentro e fuori i teatri, è difficile sensibilizzare la popolazione perché i mezzi mainstream danno, quando lo fanno, una visione distorta e di parte. Al contrario, il circo e le arti hanno la possibilità di abbattere i muri. E le piace ricordare che, negli anni, ha rincontrato, in Italia e in Europa, tanti tra i giovani artisti palestinesi che avevano frequentato la sua scuola di circo e che ormai esercitavano il mestiere da professionisti.
Nan van Houte, direttore teatrale ad Amsterdam, ha chiesto cosa possiamo fare noi, in Occidente. La cosa più importante, ha risposto Marina Barham,è continuare a scrivere, a manifestare, a farsi sentire, non dimenticare la lotta dei palestinesi: non solo per il cessate il fuoco, ma anche perché le istituzioni teatrali europee adottino in futuro le scuole, i teatri e le associazioni che lavorano in Palestina. Zoe Lafferty, dal Regno Unito, autrice, produttrice e regista, ma anche attivista politica, ha affermato che in Gran Bretagna al momento c’è una imponente risposta quando si tratta di azioni e manifestazioni a favore della Palestina, ma vi sono impedimenti burocratici e difficoltà pratiche che dovranno essere risolte per dare seguito a questo momento di mobilitazione e per creare un futuro reale per il popolo palestinese. Infine, Mary Ann DeVlieg, attivista di Arts-Rights-Justice, ha sottolineato la completa differenza tra il sentire delle popolazioni occidentali e il potere costituito qui in Europa ma anche negli States.
Continueremo a tenervi informati.
(1) https://anar.ps/
(2) Nell’illustre Treccani (https://www.treccani.it/enciclopedia/hebron/) la città di Hebron è già definita come ‘israeliana’: c’è da domandarsi chi scriva la più blasonata enciclopedia italiana…
(3)
venerdì, 29 marzo 2024
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay