La banalità del male
di Simona Maria Frigerio
Ieri come oggi il libro di Hannah Arendt è semplicemente illuminante. Quanti tra di noi per decenni hanno giurato a se stessi e affermato platealmente in pubblico che se si fossero ritrovati in un regime come quello fascista o nazista e avessero saputo dell’Olocausto, il genocidio degli ebrei, e delle altre persecuzioni e crimini di guerra del nazi-fascismo (come l’internamento e lo sterminio sistematico di comunisti, Rohm, omosessuali, eccetera), vi si sarebbero opposti?
Klaus Mann (per molti versi autore più piacevole e moderno del padre, il ben noto e represso Thomas) ci dimostra nell’impietoso ritratto di suo cognato (Gustaf Gründgens, celato lievemente dietro il nome fittizio di Hendrik Höfgen) come non solamente è facile adeguarsi alle peggiori nefandezze del potere ma addirittura esserne compartecipi, fiancheggiatori e perfino complici senzienti e consenzienti.
Oggi siamo tutti complici del genocidio dei palestinesi e temiamo persino di usare tale termine in pubblico ma, come hanno denunciato gli avvocati della Repubblica del Sudafrica, Israele ha adottato un modello di condotta genocidaria che ha portato alla morte, alla fame, alla sofferenza e allo sfollamento della popolazione di Gaza, composta da oltre due milioni di persone, e ora si sta accanendo anche contro la Cisgiordania. E se già l’Italia si appresta a combattere contro gli yemeniti, unico popolo sceso effettivamente in campo (o in acqua) per fermare le nostre forniture di armi a Israele, a quando l’apertura di una nuova Risiera di San Sabba? Nonostante il pronunciamento della Corte di Giustizia Internazionale sui crimini di Israele e l’imposizione di misure provvisorie, il genocidio continua e i teatranti a loro volta, ben lontani dalle istanze del Pinocchio/Amleto par excellence, il quale pretendeva che il teatro per essere tale sollecitasse “crimini, delitti, sabotaggi”, accoglie borghesemente e sciattamente il pubblico come fa il Maestro delle cerimonie, con il suo Willkommen – nel capolavoro di Bob Fosse, Cabaret (tratto dal romanzo culto di Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin).
Notiamo qui, stasera, allo Jenco di Viareggio, rimandi iconografici precisi a questo e a un altro capolavoro, il Mephisto per la regia dello straordinario István Szabó e l’interpretazione dell’altrettanto straordinario Klaus Maria Brandauer, che seppero non solamente ricreare le atmosfere decadenti degli anni Trenta in Germania o intercalare la vita reale con scene teatrali, ma altresì plasmare un personaggio a tutto tondo che, da giovane infervorato dal sacro fuoco dell’arte e tutto teso a scardinare i paradigmi del teatro borghese, si trasformerà nella maschera e nell’essenza di Mefisto e, insieme, di Faust – perché se sulle tavole del palcoscenico saprà incarnare la tentazione, nella vita reale sarà lui a vendersi quell’anima putrida – che ammorba anche noi tutti.
E ancora, forse inconsapevoli i rimandi a La Caduta degli Dei, a quell’Helmut Berger (nel ruolo di Martin) che si trasformava da effeminato e ambiguo giocattolo della propria madre/dominatrice in assassino, stupratore, matricida ed emblema del potere industriale teutonico, al servizio del Fürher – in un film di Visconti eminentemente manierista/decadente, a livello estetico, quanto potentemente politico nei contenuti e nella denuncia veemente di quella stessa classe dirigente, bancaria e industriale, che condannerà anche Peter Weiss ne L’istrutturia. Oratoria in undici canti.
Vi è tutto questo e, ovviamente, altri rimandi in questo adattamento teatrale dal celebre e censurato romanzo di Mann. Come quelli all’estetica espressionista e/o alla Nuova Oggettività che, nella Germania degli anni 20 e 30, fu esemplificata perfettamente da Otto Dix e George Grosz, da Max Beckmann e Hans Grunding (tra gli altri).
E però, dove va a parare questo spettacolo? Due attori/performer in scena dalle straordinarie doti come Ian Gualdani e Woody Neri lasciati a se stessi e ai loro stilemi. Höfgen è già Faust prima ancora di trasformarsi in Mefisto, Gualdani pare più a proprio agio tra diagonali e sollevamenti al trapezio che non in scena. Le attrici sono più impegnate a cambiare parrucche, abiti e a incollarsi baffi posticci che a costruire almeno un personaggio a tutto tondo. Manca la mano registica: una chiara visione, che non sia quella di Bob Fosse né quella di István Szabó. Ci manca una Simona Gonella, che ha saputo dare a Woody Neri la forma per esprimere uno tra i migliori Zio Vanja degli ultimi anni, come di un Jonathan Bertolai alla direzione di un Gualdani/Caligola, essenza stessa del capolavoro di Camus.
Il testo farraginoso stenta anche perché, per far procedere l’azione (che, ricordiamo, è tratta da un romanzo e copre, quindi, un tempo troppo lungo per le effimere tavole di un palcoscenico), spesso i personaggi devono trasformarsi in narratori esterni (ma non potrebbe coprire quel ruolo la voce off di Lino Musella?). Oltre al fatto che, a parte Neri, ogni altro interprete è chiamato a ricoprire più ruoli e non basta il colore di un abito o di una parrucca o un paio di occhiali a creare un personaggio. Troppi anche i temi: la politica, l’arte, il teatro, l’antisemitismo, il potere, l’omosessualità, la fuga o la scelta di restare e (s)vendersi, per non parlare delle illusioni rivoluzionarie delle SA e del matrimonio necrotico tra capitale e nazionalsocialismo. Si potrebbe non solamente scrivere un’intera Recherche su tali e tanti temi, ma nemmeno il Decalogo di Krzysztof Kieślowski potrebbe sviscerarli tutti.
Less is more. Forse sarebbe bastato concentrarsi sull’attore, su quel suo essere naturalmente un po’ puttana. Perché come si fa a salire su un palcoscenico se non si è egocentrici? E come si può assoggettarsi al volere di un regista se non in quanto schiavi dell’applauso del pubblico? Quando si spengono i riflettori, non resta che una maschera, vuota, e un costume fradicio di sudore. L’attore si vende per poco. O per molto. Ma in fondo, non siamo tutti comparse in questo circo/mondo, dove aspiriamo ai nostri 15 minuti di celebrità?
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Jenco
via Euro Menini, 51 – Viareggio (LU)
giovedì, 14 marzo 2024, ore 21.00
Mephisto
Romanzo di una carriera
adattamenti dal romanzo di Klaus Mann di Andrea Baracco e Maria Teresa Berardelli
regia Andrea Baracco
con Ian Gualdani, Woody Neri, Anahì Traversi e Giuliana Vigogna
voce off Lino Musella
scena e costumi Marta Crisolini Malatesta e Francesca Tunno
suoni e musiche Giacomo Vezzani
video e Luca Brinchi e Daniele Spanò
disegno luci Orlando Bolognesi
produzione MAT-Movimenti Artistici Trasversali
venerdì, 22 marzo 2024
In copertina: La Locandina dello spettacolo (particolare)